Appena uscito per Adelphi, Tempesta in giugno non è solo una differente stesura di Suite francese, il capolavoro di Irène Némirovsky pubblicato postumo nel 2004, ma anche e soprattutto quella che raccoglie l’ultima, estrema, volontà dell’autrice ebrea di origine russa, cresciuta in Francia e morta ad Auschwitz a trentanove anni, il 19 agosto 1942. L’ha riportato alla luce Teresa Lussone, studiosa e docente di letteratura francese e, con Olivier Philipponnat, tra le maggiori esperte dell’opera di Némirovsky. Grazie a questa traduzione (rivista e integrata da Lussone con le parti mancanti rispetto all’edizione italiana di Suite francese firmata sempre per Adelphi da Laura Frausin Guarino), l’inedito uscito in Francia nel 2020 è ora accessibile anche al pubblico italiano.

A cosa si deve questa lunga attesa? Non a un romanzo chiuso in un cassetto bensì in una valigia che nel 1942, poco prima dell’arresto e la deportazione, Némirovsky affida al marito, Michel Epstein, e che egli poco dopo consegna alle figlie, Denise e Elisabeth, prima di essere deportato ad Auschwitz dove morirà pochi mesi dopo la moglie. Ormai sole e affidate a una tutrice, le due bambine se la tennero sempre stretta quella valigia, in fuga dai tedeschi e durante i rocamboleschi nascondigli che le risparmiarono dalla sorte toccata ai genitori. Al termine della guerra, spenta ormai la speranza di riabbracciare la madre, la riposero in uno scantinato, senza mai aprirla. Ci vollero quasi sessant’anni perché la maggiore delle figlie decidesse di affrontare quel passato. La valigia si apre, tra le molte carte custodite c’è anche un manoscritto. Denise decide di decifrarlo con pazienza e sofferenza prima di donarlo, insieme a tutti i documenti della madre, all’Imec (Institut Mémoires de l’édition contemporaine). È Suite française, è subito un best-seller internazionale, è la riscoperta della scrittrice a sessant’anni dalla morte.

Un progetto ambizioso

In realtà il progetto di Némirovsky di scrivere un romanzo sulla disfatta della Francia durante la Guerra si fa avanti per la prima volta nell’autunno del 1940. Le annotazioni e le lettere dell’ultimo periodo fanno capire quanto la scrittrice tenesse a questo romanzo, l’«opera principale della mia vita», scrive nel suo diario, e quanto fosse consapevole del poco tempo che le era rimasto a disposizione. «Ho scritto molto in quest’ultimo periodo. Suppongo che saranno opere postume ma questo fa comunque passare il tempo», si legge ancora nel diario. Si spiega così il lavoro incessante degli ultimi mesi quando costretta a lasciare Parigi aveva raggiunto la famiglia sfollata in un piccolo villaggio della Borgogna. Prima ancora di aver terminato una stesura globale di Suite avvia una febbrile revisione della prima parte, Tempesta in giugno. Suo marito si occupa di batterla a macchina realizzando un dattiloscritto anch’esso poi riposto e custodito a lungo in quella stessa valigia.

Un romanzo incompleto

Finalmente, con gli strumenti della filologia, Teresa Lussone ha dimostrato che Tempesta in giugno è l’ultima versione del romanzo, ultima volontà dell’autrice che lasciò la sua opera incompleta ma non incompiuta. La studiosa lo spiega nei 10 punti della brillante postfazione che accompagna l’edizione italiana. La filologia, alleata della memoria e del difficile processo di comprensione della Storia, ci restituisce un altro capolavoro.

Che cos’è Tempesta in giugno? È il primo tempo di una sinfonia interrotta, un affresco verista e psicologico, il racconto in presa diretta della disfatta della Francia, della fuga in massa da Parigi, della capitolazione della Repubblica il 22 giugno del 1940. Tempesta in giugno è un romanzo corale, come anticipa prima del racconto l’elenco dettagliato dei personaggi principali (una trentina). Storie differenti perché diversa è l’estrazione sociale dei protagonisti, ma anche profondamente simili per il potere socialmente livellante dell’evento bellico. Vicende che si intrecciano facendo luce sulle meschinità e le miserie umane, episodi che l’autrice in parte ha riscritto narrativamente rispetto alla versione precedente e che soprattutto ha sistematicamente rivisto in quanto allo stile, depurato dai sentimentalismi e infuso di sobrietà e molta ironia.

Sulle orme di Flaubert

La riscrittura, in effetti, è prima di tutto all’insegna della distanza: quella del narratore rispetto ai suoi personaggi – in linea con la lezione flaubertiana, tra i modelli prediletti dell’autrice – che arriva perfino a eclissarsi e a raccontare attraverso gli occhi dei protagonisti, come in una presa filmica. È poi anche una distanza critica, a tratti vera e propria satira visto l’alto grado di tipizzazione dei personaggi di Tempesta, che non solo si prende gioco della società francese e delle sue responsabilità nella guerra ma che con finezza psicologica denuncia, più universalmente e sempre sulla linea flaubertiana, la bêtise umana. Come nel caso del ricco collezionista di porcellane che coi tedeschi alle porte si preoccupa di selezionare i pezzi da salvare nella fuga pentendosi di «aver riposto il suo cuore in oggetti così fragili e insostituibili»; o del vecchio Péricand che in mezzo ai bombardamenti e sul letto di morte si compiace nell’atto di fare testamento e di imporre la sua estrema volontà come ultima vendetta verso la sua famiglia. Irresistibile anche il personaggio dello scrittore snob che si lamenta perché i profughi dei bassifondi parigini gli rovinano il «bel clima da tragedia».

«Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita», annota nel suo diario Némirovsky nei mesi che precedono la fine. Ecco che in quest’ultima versione del suo più caro e grande romanzo si accentuano i chiaroscuri e la maggiore cura nei riferimenti alla natura sembra rispondere all’esigenza di rappresentare il tragico scollamento fra la Storia degli uomini e il ciclo biologico della Natura. Una Parigi in giugno, gli ippocastani in fiore, il tepore della primavera, il cielo trasparente, la campagna dolce. La natura fa il proprio corso mentre l’uomo si abbandona alla follia e alla stupidità della guerra. Il paesaggio, nella sua bellezza, assume così una valenza tragica perché stride rispetto alla Storia, alla violenza, alle condizioni di vita degli sfollati, al loro stato d’animo. Non a caso l’unico personaggio ancora in sintonia con il ciclo delle cose non può essere, ancora con ironia, né uomo né donna. È il gatto Léonard, parigino e sfollato in campagna come gli altri, l’unico che riesce ancora a farsi inebriare «fino ai baffi» dalle folate di una tiepida notte di giugno. Il racconto di una frattura fatale, di una tempesta battente, di un’anti epopea inutile, senza eroi ma che inspiegabilmente, e ancora oggi, si mostra inevitabile.