Nei mesi precedenti alla pubblicazione del mio libro sui giapponesi che, al termine della Seconda guerra mondiale, si erano nascosti nelle giungle del Pacifico (Gli ultimi soldati dell’Imperatore, Ares 2025) mi ero reso conto che per un occidentale, con una cultura completamente diversa da quella giapponese, era complicato comprendere e accettare le scelte di questi eredi della tradizione dei samurai. Conscio di quanto la mentalità della cultura occidentale sia distante da quella giapponese, ero seriamente preoccupato del fatto che, magari inavvertitamente, avrei potuto scrivere qualcosa che poteva essere ritenuto offensivo delle tradizioni del Giappone. Dovevo quindi confrontarmi con qualcuno che conoscesse la cultura giapponese meglio di me. Per una serie di fortunate coincidenze ho potuto incontrare Shoichi Yoshihiro Ichikura, nato a Tokyo il 26 settembre 1949, maestro di kyudo, l’arco tradizionale giapponese, che vive in Italia da molti anni, al quale ho chiesto di leggere le bozze del libro. Ci siamo incontrati per un caffè ed una semplice chiacchierata in un bar, che si è sviluppata in seguito in una conoscenza più approfondita. L’incontro con Ichikura è stato oltremodo interessante, in quanto mi ha dato l’opportunità non solo di comprendere meglio le radici della dedizione dei giapponesi per il loro Paese, la tradizione di samurai e l’amore per le arti marziali tradizionali, ma anche di approfondire la conoscenza dell’antica disciplina del kyudo. Nel corso del nostro primo incontro avevo raccontato a Shoichi della mostra che avevo curato per il Meeting di Rimini 2024 basata sul mio primo libro (1914: Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale). Quando nel mese di dicembre 2024 la mostra è stata esposta una prima volta a Milano, Shoichi mi ha fatto la sorpresa di venirla a visitare. In quella occasione gli ho detto che avrei voluto incontrarlo di nuovo per provare a scrivere qualcosa sul kyudo. L’appuntamento, come la prima volta, è al tavolino di un bar per un caffè insieme. Shoichi si è pazientemente prestato a rispondere alle mie domande di profano su questa disciplina che viene praticata in Giappone da secoli.
Breve storia del kyudo

Nato per scopi militari, oggi viene praticato come disciplina sportiva, che gode anche di due cattedre universitarie a Waseda e Tsukuba. La tradizione narra di Heki Danjo Masatsugu, vissuto nel XV secolo, che sviluppò una nuova tecnica di tiro raccolta in seguito da alcuni guerrieri che seguirono i suoi insegnamenti e li trasmisero alle generazioni successive. Così nasce e si diffonde in Giappone la scuola Heki. A Kyoto la scuola era guidata dal Sensei (maestro) Yoshida Issuiken Insai. Nell’ottobre del 1600, dopo la battaglia di Sekigahara, il maestro è chiamato dallo shogun Tokugawa che gli chiede di insegnarli la tecnica del kyudo. Da allora questa scuola, che prende il nome di Heki Ryu (la scuola della casata dello shōgun), vanta la discendenza diretta da maestro a maestro per 19 generazioni, mantenendo inalterati per oltre 400 anni i fondamenti della tecnica. In Italia la scuola Heki è stata introdotta nel 1976 proprio da Ichikura.

Sensei di kyudo

Come hai iniziato a insegnare tiro con l’arco in Italia?

A metà del 1800, 100 anni prima della mia nascita, in Giappone c’erano ancora i samurai. Ho cominciato ad avvicinarmi alle arti marziali da ragazzino, vedendo in televisione i film che mostravano i loro combattimenti. A 15 anni, durante il liceo, ho cominciato a praticare il Kendo, l’arte della spada, che ho continuato a praticare fino all’università. Mi accorgevo però che questo non mi bastava: desideravo imparare il vero spirito delle arti marziali che animava i samurai. All’università di Waseda ho cominciato a praticare il kyudo come allievo del sensei Inagaki Genshiro, che in seguito è diventato il mio maestro e mio amico per tutta la vita. Nel 1972 mi sono laureato. Praticavo il kyudo da 5 anni, e il mio maestro mi ha invitato a partecipare al suo secondo viaggio in Germania. Ad Amburgo ho conosciuto una ragazza italiana, Maria Grazia, che nel 1974 è diventata mia moglie.

L’amicizia con Inagaki Genshiro è stata fondamentale. Da lui ho appreso non solo la tecnica ma anche il suo stile di vita, l’amore per l’insegnamento svincolato dal desiderio del denaro o da titoli onorifici, la passione di trasmettere la sua esperienza agli altri per dare continuazione alla tradizione. La scuola Heki era rimasta immutata per secoli, e così doveva essere l’insegnamento. È questo desiderio che in seguito mi ha fatto prendere la decisione di stabilirmi in Italia, per fare la stessa cosa: dare seguito alla disciplina spirituale del kyudo trasmetterla ad altri. Nel febbraio del 1977 ho fondato il Club Insai, la mia prima scuola di kyudo in Italia.

Da chi viene praticato il kyudo?

Il tiro con l’arco era inizialmente riservato agli uomini, e la trasmissione orale ha rischiato di interrompersi al termine della Seconda guerra mondiale, quando gli americani proibirono agli uomini giapponesi la pratica delle arti marziali. Le donne sono state ammesse al kyudo grazie a una concessione imperiale, e il contributo femminile si è rivelato fondamentale per la continuità della tradizione.

In Giappone è praticato in modi differenti. Per alcuni, specialmente i più giovani, gli studenti, è pura competizione: il punteggio, il centro del bersaglio. Gli adulti ricercano il miglioramento della tecnica e gli esami che certificano i loro progressi. Poi ci sono le persone anziane, che lo praticano come un passatempo ricreativo. La tradizione della scuola Heki Ryu è invece molto più vicina a come lo praticavano i samurai. L’insegnamento non è rivolto alla ricerca del centro del bersaglio, ma all’armonia del gesto. Ma non solo: è importante la correttezza del comportamento, come ci si muove, come si cammina, come ci si parla, l’atteggiamento rispettoso verso gli altri e verso sé stessi. Si tratta insomma di una filosofia di vita, che attraverso l’applicazione costante e consapevole della tecnica giusta accompagna il desiderio di migliorarsi nella ricerca di un equilibrio sia esteriore che interiore.

Professore Inagaki Genshiro, novembre 1993, nel dojo dell’università di Tsukuba

Come viene praticato oggi in Italia?

In Italia il kyudo viene praticato dagli aderenti all’Associazione italiana kyudo (Aik), affiliata alla European federation kyudo e alla Federazione giapponese Znkr. Benché la scuola Heki preveda anche la partecipazione a gare e tornei, come qualsiasi altra disciplina sportiva, il fine ultimo non è agonistico, ma l’apprendimento e la crescita dell’arciere. L’arte del tiro con l’arco giapponese non è la competizione fra due avversari. L’arciere è di fronte a sé stesso, ai suoi limiti e alle sue potenzialità. La sfida è interiore: la corretta esecuzione del tiro è nell’avere corpo e mente in armonia, e l’arco è uno strumento di concentrazione per raggiungerla. La gratificazione interiore non arriva dal colpire il bersaglio. Colpire il bersaglio ha importanza, ma solo marginale rispetto alla esecuzione del gesto, che diventa rituale. È dunque meglio sbagliare il bersaglio con un atteggiamento corretto, piuttosto che centrarlo senza il giusto equilibrio interiore. L’equilibrio interiore può essere raggiunto dopo anni di allenamento, quando l’arciere è in grado di sganciare la freccia con efficacia e naturalezza. Colpire il bersaglio è possibile se la tecnica è corretta e se lo spirito dell’arciere è sincero.

Quanto tempo è necessario dedicare all’apprendimento per possedere la giusta tecnica?

Dopo 20 anni di pratica si può cominciare a intuirla. Oltre che di determinazione e costanza l’allievo deve necessariamente essere dotato di molta umiltà, perché non si finisce mai di imparare in una disciplina che ha come scopo il miglioramento di sé stessi.

Quale tipo di arco si utilizza?

L’arco giapponese è molto diverso dall’arco take down utilizzato nella disciplina olimpica e dal compound, nati per la caccia. Sono diverse le dimensioni, i materiali con i quali è realizzato e di conseguenza il peso. L’arco nel kyudo è in genere realizzato in bambù ed è lungo circa 2 metri e 25 centimetri. La struttura è asimmetrica, in quanto in origine veniva usato a cavallo e quindi la parte inferiore più corta, per non interferire con le zampe del cavallo. Il progredire della tecnologia ha fatto sì che i materiali si siano allontanati da quelli della tradizione. Le frecce, che in origine erano anch’esse di bambù, oggi sono di alluminio e carbonio. Attualmente in Giappone si producono anche archi in fibra di carbonio e di vetro, più resistenti e meno costosi, considerati però di minore qualità.

Per tendere l’arco e scagliare la freccia è necessario esercitare una certa energia. Essa viene misurata in chilogrammi che possono essere sollevati con il medesimo sforzo. Gli archi del kyudo variano dagli 8-10 ai 25-30 chilogrammi. La maggior parte degli archi utilizzati nella nostra scuola varia dai 10-11 ai 15-16 kg.

L’arco deve essere adatto al tiratore. I maestri giapponesi che realizzano gli archi secondo la tecnica tradizionale non espongono nella loro bottega gli archi migliori: devono prima conoscere chi è il tiratore, il suo animo più della sua tecnica. Solo in questo caso propongono l’acquisto di un arco adatto al potenziale acquirente!

Anche il guanto che si usa per tirare è molto importante. Ci sono guanti per principianti, ma in genere viene realizzato sulla mano del proprietario. Sono pochi gli artigiani capaci di realizzarlo, e spesso per avere il proprio guanto è necessario attendere due o tre anni.

Dove si pratica il kyudo?

Il kyudo non si può praticare nelle palestre come le altre arti marziali: necessita di grandi spazi e di contatto con la natura. Il dōjō, che potremmo impropriamente chiamare il poligono di tiro, è il luogo dove i giapponesi praticano le arti marziali. È il luogo () dove si segue la via (), dove si persegue la crescita spirituale, morale e fisica, dove ci si allena e dove si approfondisce il rapporto tra l’allievo e il maestro, l’amicizia, il rispetto, la meditazione.

Il dōjō

Come mai hai deciso di stabilirti in Itala?

Sono venuto in Italia dopo essermi sposato con mia moglie, che è italiana. Il modo di vivere dei giapponesi è molto distante da quello dell’Occidente. Mia moglie, però, ha capito come vive un giapponese. Noi giapponesi siamo un po’ maschilisti. Il modo di trattare le persone è molto diverso da quello occidentale. Mia moglie mi ha pazientemente insegnato il vostro tipo di educazione, e quindi da lei ho imparato come trattare le persone, come comportarmi in società, come si vive in Italia. Inoltre ha sempre condiviso con me la gestione dei problemi di ogni giorno, inclusi quelli della scuola di kyudo. Così ho imparato ad apprezzare tante cose dell’Italia. Mi piace molto la musica, le canzoni napoletane e la musica classica. E così insieme al tiro con l’arco mi sono appassionato alla bellezza della musica. Ho scoperto che alcuni aspetti della musica occidentale sono in qualche modo simili alla pratica del kyudo. Molti pensano che le arti marziali siano violente, legate alla forza di chi le pratica. Invece non è così. Lo spirito che regge le arti marziali, nella tradizione dei samurai, è nelle sette virtù del Bushido: rettitudine e giustizia, coraggio, benevolenza e compassione, rispetto, sincerità e onestà, onore, lealtà. Si può imparare davvero quando si ama l’altro. Così lo scopo della pratica del kyudo fuori dal Giappone non è solo la competizione: diventa uno strumento per conoscere e scambiarsi valori culturali. Se avvicinarsi alla pratica del kyudo è un modo per imparare la cultura giapponese, per noi giapponesi che lo insegniamo in Occidente è un modo per imparare la cultura occidentale.

Certo ho un po’ di nostalgia del Giappone, dove non sono più tornato, ma ho un grande amore per l’Italia e per la sua cultura, che ho imparato ad apprezzare negli anni, anche se così diversa da quella della mia infanzia.

In Italia ti sei convertito al cattolicesimo. Ci racconti come è avvenuto?

In Giappone, dove sono nato e cresciuto, la mia famiglia era buddista praticante. Yoshiro è il mio nome buddista, e io pregavo come buddista. Poi sono venuto in Italia. Mia moglie era cattolica praticante, e per tanti anni siamo andati avanti così: io buddista e mia moglie cattolica. Verso la fine degli anni ’90 la mia vita è stata investita da una serie di avvenimenti. Avevo il desiderio di costruire un dōjō e molte persone mi hanno aiutato e sostenuto con donazioni, ma nonostante questo non sono riuscito a realizzarlo. Per questo mi sentivo in colpa, come se avessi tradito la mia vocazione. Nel 1995 sono morti il mio maestro Inagaki Genshiro e anche il mio cane, al quale ero molto affezionato. Ero molto triste e sfiduciato. Mia moglie ha condiviso questo periodo negativo standomi sempre vicino, condividendo la mia fatica. Ho capito che mia moglie era stata un dono di Dio. E così nel 1998 ho bussato alla porta della chiesa nella parrocchia di Santa Maria di Caravaggio, quella che frequentava mia moglie. Ho cominciato ad andare regolarmente in chiesa con lei per 5 o 6 anni, chiedendo perdono a Dio per le mie mancanze. Il parroco, vedendomi sempre in chiesa, mi ha proposto di ricevere il sacramento del battesimo, che ho ricevuto nell’ottobre del 2003 insieme alla cresima e alla prima comunione, e così sono diventato cattolico. Nel 2009 ho cominciato a coinvolgermi con la parrocchia come catechista con i bambini, cosa che ho continuato a fare negli ultimi 16 anni. Certo all’inizio non ero in grado di insegnare ai bambini, ma mi è servito per approfondire e conoscere di più la mia vocazione cattolica. Come nel buddismo, anche nel cattolicesimo ognuno ha un compito, un destino. Il mio è insegnare il tiro con l’arco in Italia.