Pubblichiamo di seguito l’intervista di Silvia Stucchi a Luca Fezzi  (Lavagna, 1974) professore di Storia romana all’Università degli Studi di Padova, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro Roma in bilico. Svolte e scenari alternativi di una storia millenaria (Mondadori, Milano 2022, pp. 300, euro 22). Fezzi è autore di numerosi articoli specialistici di diritto, epigrafia e storia greca e romana, di storiografia novecentesca sull’antica Roma e di storia moderna. Tra i suoi libri: Il tribuno Clodio (Laterza, 2008), Modelli politici di Roma antica (Carocci, 2015), Il corrotto. Un’inchiesta di Marco Tullio Cicerone (Laterza, 2016) e Il dado è tratto. Cesare e la resa di Roma (Laterza, 2017).
  • Professor Fezzi, noi oggi siamo abituati a pensare alla Storia Antica come a un qualcosa di scolpito nel marmo, per così dire, come a una successione di avvenimenti inevitabili, necessari, che non avrebbero potuto andare diversamente. Con Roma in bilico lei ci porta invece a pensare “che cosa sarebbe accaduto se…”, e inanella dodici scenari alternativi, dodici “se” che avrebbero cambiato la storia di Roma, e quella dell’Europa e del mondo: e se Roma fosse caduta in mano ai Celti? E se Alessandro Magno avesse attaccato Roma? E se Cesare non fosse morto alle Idi di marzo del 44 a. C.? e così via. Come le è venuta questa idea? L’idea ha avuto una gestazione lunga. La controfattualità, del resto, è uno dei primi “tabù” che chi si occupa oggi di storia impara a rispettare. Ed è forse anche per questo che esercita un certo fascino, soprattutto sui giovani. Me ne sono accorto grazie ai tanti “se” rivoltimi dagli studenti della triennale, così come da mio figlio Victor, che ora ha dieci anni. Fascino che, a livello di didattica, può diventare un alleato. Da un punto di vista teorico, invece, a guidarmi è stata la costante attenzione al problema della libertà, eterno e centrale anche per chi si occupa di storia, e che già più di dieci anni fa mi aveva portato a occuparmi del filosofo svizzero Benjamin Constant, autore del Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819). Sì, perché la controfattualità è anche un interrogativo, non sempre ingenuo, su libertà e destino. Di certo lo era nel mondo antico, dove la storiografia sviluppò sin da subito un pensiero controfattuale, mostrandosi, almeno da questo punto di vista, più duttile di quella moderna. E infatti è soprattutto dalle fonti antiche che provengono i dodici “se” – tutti “di autore” – che ho sviluppato nel volume. “Se” che mi hanno permesso di tracciare scenari alternativi, pur senza costringermi ad addentrarmi nell’ucronia vera e propria, e quindi nella costruzione letteraria. Per me, che mi occupo di storia, la controfattualità è in primis un interrogativo, uno strumento di riflessione. Uno strumento ironico, apprezzato da Nietzsche ma non da Croce, che in un paio di notissime pagine seppellisce, come sotto un macigno, l’Uchronie di Charles-Bernard Renouvier (1876), libro che, ipotizzando una diversa successione all’imperatore-filosofo Marco Aurelio, aveva delineato la mancata cristianizzazione dell’Europa. Certo, come tutti sappiamo, Croce nega la legittimità teorica dei “se” ma ancor più il valore dell’opera del francese, troppo lunga e stucchevole. La controfattualità può esprimersi invece con la rapidità e l’efficacia di quella manciata di pagine nelle quali il grande storico Arnold Toynbee gioca con l’eventualità che Alessandro il Grande fosse vissuto a sufficienza da conquistare anche l’Occidente e da creare un impero universale. Tra le ricadute più clamorose delineate da Toynbee, un anticipo di secoli nella rivoluzione dei trasporti e l’arrivo in occidente di schiere di missionari buddhisti. Il punto è che Toynbee non credeva necessariamente nella verosimiglianza del quadro da lui descritto; grazie all’ironia, però, riesce a farci riflettere sulle necessità di un mondo globalizzato, sulla mancata rivoluzione industriale di quello antico e sull’importanza rivestita dalle infrastrutture anche nei fenomeni più squisitamente spirituali.
  • Qual è stato il capitolo che l’ha più divertita scrivere? E quale l’avvenimento storico, fra quelli che ha affrontato, in cui davvero sarebbe secondo lei bastato poco a rovesciare l’esito delle vicende? Il capitolo più divertente da scrivere è stato probabilmente il primo, quello del neonato Romolo, abbandonato, assieme al gemello Remo, nel Tevere. Punto di partenza è un’osservazione di Plutarco, filosofo vissuto nel secolo II d.C.: Roma fu costantemente baciata dalla fortuna, proprio a partire dall’improbabile sopravvivenza del suo futuro fondatore. L’osservazione è provocatoria: quello di Romolo è, ovviamente, un mito, come Plutarco sapeva bene. Ma l’interrogativo è prezioso, perché permette di chiedersi come sarebbe stato un mondo senza Roma. Scenario inimmaginabile, per noi, ma teoricamente possibile, non certo per la morte in fasce di Romolo ma piuttosto per una non-fondazione o per l’affermarsi di un centro urbano antagonista. Sta di fatto, però, che Roma nacque in un luogo favorevolissimo a ospitare una città destinata a raggiungere una grande potenza. In ogni caso, per poter inseguire Romolo e Remo sono dovuto uscire dai panni dello storico, dal quale ci si aspetterebbe uno studio sulle stratificazioni del mito e sugli agganci con le diverse realtà concrete. Ho invece ripercorso la narrazione mitica e le sue molteplici varianti, dal caso più probabile (i gemelli sopravvissuti in quanto mai gettati nel Tevere ma dati in affidamento) a quello meno probabile (un viaggio sino al mare, che li rigettò a riva, dove furono allattati non da una lupa ma addirittura da una leonessa). Gli avvenimenti dall’esito più imprevedibile, e quindi facilmente rovesciabile, sono in genere, nel mondo antico, le battaglie. Sino al Novecento gli scontri erano più concentrati nello spazio e nel tempo: gli elementi meglio valutabili, tra cui la logistica e l’attrito, rivestivano quindi un ruolo meno decisivo. Battaglie epocali combattute sul filo del rasoio sono, nel mio volume, Filippi, Azio e Ponte Milvio. Ma è probabilmente l’ultima ad avere generato i cambiamenti più profondi. Mi spiego: se Bruto e Cassio avessero vinto a Filippi, la res publica sarebbe sopravvissuta per non più di qualche decennio; se Antonio e Cleopatra avessero vinto ad Azio, il governo di Roma avrebbe comunque assunto i tratti di un’autocrazia, sebbene di carattere più “orientale” rispetto al principato augusteo. La vittoria sul filo del rasoio di Costantino contro Massenzio, invece, fece salire al potere una figura che non solo riunificò l’impero ma permise l’affermazione del cristianesimo; secondo qualcuno quest’ultima era già scritta, ma in quanto a tempi e soprattutto modi – la nascita del “cesaropapismo” – il cambiamento fu epocale.
  • Oggi, la storia romana è sempre meno famigliare ai giovani e ai giovanissimi: nel primo ciclo di istruzione viene trattata solo nella scuola primaria, e pertanto in modo molto semplificato, e non più nella secondaria di primo grado; nella secondaria di secondo grado è compressa nella materia di nuovo conio, la “geostoria”, e viene svolta, diremmo, a marce forzate. Inoltre, sono sempre meno numerosi gli studenti liceali che studiano latino, e quindi latita spesso la familiarità con la cronologia essenziale della storia romana (battaglie, conquiste, nomi e durata del regno dei vari imperatori e così via). Lei trova questo fenomeno preoccupante? C’è una ricetta per arginarlo? Essendomi immatricolato all’università nel 1993 ho potuto seguire di persona le riforme – “bipartisan”, come si diceva all’epoca – le quali, a cavallo del millennio, hanno investito scuola e università, nonché le loro ricadute, spesso tutt’altro che felici. Il quadro di crisi lo ha bene descritto, nella domanda, Lei stessa, che del resto è autrice di Come il latino ci salva la vita, un testo ricco di lucide riflessioni sull’importanza dell’antico. Il problema, infatti, va ben al di là della storia romana e delle sue date… che già di per sé, in quanto nozioni, da decenni sono bersaglio di un certo pedagogismo. La crisi nello studio dell’antico si affianca, tra l’altro, a una crisi nello studio della storia tout court, che si trova inesorabilmente “schiacciata” verso il presente. Croce diceva acutamente che la storia è sempre contemporanea, intendendo che ogni generazione non può fare a meno d’interrogare il passato con gli occhi della contemporaneità. Proprio per questo, mi permetto di chiosare, per evitare la miopia ogni generazione dovrebbe poter esercitare lo sguardo anche su passati molto lontani. Del resto, non si possono affrontare Medioevo, Modernità e Contemporaneità prescindendo dal rapporto con Roma antica. Senza Roma sarebbe incomprensibile il pensiero di Machiavelli, di Montesquieu, di Rousseau, di Constant, in altre parole la stessa modernità politica. Senza Roma come si potrebbe parlare di “repubbliche” o di “imperialismo”? Il rischio, per ora solo ipotetico, è che un giorno un estensore di programmi ministeriali, per pigrizia, opportunismo o addirittura convinzione, possa decidere che la storia non vada più studiata, oppure, in un caso solo di poco migliore, che essa vada studiata solo a partire da un certo momento, magari collocato sul crinale tra Ottocento e Novecento: una sorta di “Big Bang” fittizio dal quale sarebbero nati il “mondo” e la “cultura” in cui viviamo. Il problema non è arginabile dai singoli docenti, pur svolgendo essi, spesso, un lavoro straordinario (per quanto riguarda la capacità formativa delle scuole devo ricordare che gli studenti preparatissimi, tra i nuovi immatricolati che ogni anno si affacciano all’università, sono sempre molti). Il problema è di sistema e proprio come tale andrebbe risolto. Uso il condizionale perché la tendenza di fondo, che mi pare assecondata da troppi attori, politicamente e culturalmente vari, è quella di “cancellare” il passato o, nel migliore dei casi, di “schiacciarlo” sul presente.
  • Contemporaneamente al taglio delle ore dedicate a scuola allo studio della storia antica, assistiamo però a una fioritura straordinaria di romanzi storici, film e serie televisive di ambientazione romana. Come spiega questo fenomeno? Ci sono state opere che l’hanno favorevolmente impressionata, e perché? Facendo sempre riferimento al quadro scolastico da Lei bene tratteggiato, sarei tentato di fare una battuta: la romanitas sta tornando di moda perché è ormai qualcosa di esotico. Più seriamente: guardo a questa fioritura come a qualcosa di positivo, se non altro in quanto indizio degli interessi del pubblico. Il problema è che difficilmente tali interessi verranno intercettati dal sistema formativo, anche a causa di una contraddizione di fondo. Da una parte esso è sempre più “aziendalistico”, orientato a trattare lo studente come “cliente”; dall’altra, però, si tratta di un’azienda dirigistica e burocratizzata, e quindi in grado d’intercettare solo ciò che già a monte sa di dover intercettare. Questo, naturalmente, parlando di sistema; grazie ai singoli docenti la musica, non mi stancherò mai di ripetere, può cambiare parecchio. La produzione di ambientazione romana è sterminata e interessante, in molti paesi, anglosassoni ed europei, così come in Italia. Mi limito quindi a citare due opere recenti ma ormai già “classiche”: per la narrativa la trilogia “ciceroniana” di Robert Harris (Imperium, Conspirata, Dictator); per la cinematografia il pluripremiato Gladiatore di Ridley Scott. Harris a mio avviso è stato capace di entrare nella psicologia dei suoi personaggi, che è l’operazione più difficile in assoluto. Scott, pur essendosi preso non poche libertà – come del resto molti hanno notato – è stato assolutamente grandioso: si pensi solo alla scena iniziale, quella della battaglia di Germania.
  • Immagini di poter passare una giornata con uno storico romano: chi sceglierebbe e perché? Sceglierei Sallustio, testimone della crisi della Repubblica romana. Gli chiederei notizie e impressioni su Crasso, Pompeo, Cesare, Catilina e Cicerone, ma anche sulla sua esperienza politica diretta. Mi farei raccontare diversi episodi: di quando a Roma, dopo l’omicidio di Clodio, la plebe diede fuoco all’edificio del Senato, della guerra civile cesariana e, naturalmente, dell’omicidio di Cesare. Gli chiederei anche cosa era scritto in alcune parti perdute delle sue Storie e se egli sia stato davvero l’autore delle due Lettere a Cesare e dell’Invettiva contro Cicerone che la tradizione gli ha attribuito.
  • Spesso si parla della necessità di tornare ai classici, di conoscerli meglio, di leggerli come testi vivi, e non solo come reliquie da venerare con ossequio archeologico: e allora si citano sempre i grandi poeti, Omero, Lucrezio, Virgilio… ma gli storici non li ricorda mai nessuno. Secondo lei, perché? E di quali storici antichi consiglierebbe la lettura (o ri-lettura)? Per quale motivo? Sul rapporto tra la storia e la vita partirei da Nietzsche. La storia, per la vita, è fondamentale sotto tre aspetti: come storia monumentale, per dare esempi, come storia antiquaria, per preservare il ricordo del passato, e infine come storia critica, per sviluppare la riflessione, anche etica. Sinceramente non saprei scegliere quale esigenza sia oggi più urgente; tutte e tre allo stesso modo, che dice? Il primato della poesia, invece, è un retaggio di un liceo classico da sempre impostato su lingue e letterature, modellato da una sensibilità più estetica che storica. È una constatazione, non una critica: la bellezza, in sé, non ha mai fatto male a nessuno. Anche il confronto tra la storia greca (che si studia al primo anno) e romana (al secondo) e la lingua e letteratura greca e latina (che si studiano per tutto il quinquennio) è impari, ma il divario è giustificato dalla necessità di concentrarsi sulle due lingue antiche e, allo stesso tempo, di creare le basi per lo studio di Medioevo, Modernità e Contemporaneità. Per quanto riguarda le letture degli storici antichi, ricordo molte versioni, un discreto studio a livello di letteratura ma ben pochi approfondimenti. Di mio, invece, tra i greci e i latini leggevo soprattutto filosofi e storici, ma questo è un altro discorso. Tra i consigli di lettura: Erodoto, Tucidide, Senofonte, Sallustio, Livio, Appiano, Tacito. Erodoto per il senso della scoperta e il rapporto tra greci e non greci, Tucidide per la lucidità geopolitica, Senofonte, Sallustio e Appiano per la descrizione di due epoche di crisi, Livio per la nascita di Roma e il suo sviluppo, Tacito per la critica al potere.
  • Una grande differenza fra gli antichi e noi è che oggi abbiamo perso il senso della meraviglia, che ci sembra forse indice di uno spirito troppo ingenuo, poco sofisticato, poco moderno. Secondo lei sarebbe invece importante recuperarlo nella lettura dei testi antichi? E se sì, perché; ma, soprattutto, come? Sì, a mio avviso ci crediamo troppo “moderni”. Non da ora, per carità, ma da almeno tre secoli. Ciò a partire da un’esigenza di progresso assolutamente centrale ma caricatasi, con il tempo, di risvolti antistorici. A convincerci di quanto fossimo “moderni” hanno poi contribuito tre letture, molto diverse – liberale, idealista e marxista – ma accomunate da un’idea escatologica: oggi meglio di ieri, domani meglio di oggi. Poi, tra gli orrori del Novecento, la fiducia nel progresso si è molto attenuata. Ciononostante, però, ci sentiamo ancora abbastanza “moderni”. Ripeto: non è un male, ma è una convinzione ottimistica, la stessa che, proprio in questi giorni, ci spinge a osservare increduli le violenze che si stanno consumando nella stessa Europa. Proviamo magari a distinguere: da una parte poniamo la scienza, la tecnologia e forse, volendo stare larghi, l’economia; dall’altra poniamo l’etica. Le prime sembrano avere un percorso lineare, l’ultima sembra essere invece ferma o piuttosto seguire un andamento ciclico (come del resto, secondo gli stoici e Nietzsche, lo sarebbe anche quello della storia). Il senso della meraviglia viene a mancare soprattutto quando ci illudiamo di avere tutto sotto controllo, di essere ormai riusciti a razionalizzare. Certo, si tratta per lo storico di procedure fondamentali, ma che non dovremmo mai e poi mai dare per acquisite: in fondo, la ricerca è sempre un percorso. Ancor prima, però, il problema è comunicativo: il senno del poi conduce inesorabilmente alla monotonia. La storia, per poter essere raccontata con effetto, ha bisogno della vivacità – e dell’imprevedibilità – della cronaca, del vissuto giorno per giorno, istante per istante, senza conoscere il futuro, senza escludere il miracolo. Come ricordo nel mio libro, quando Cesare varcò il Rubicone disse probabilmente iacta alea esto, non iacta alea est. Quindi non “il dado è tratto”, ma “si getti il dado”. Quindi non “la decisione è presa” ma “ce la giochiamo”. Una differenza abissale. Per quanto riguarda il senso di meraviglia, esso emerge con prepotenza, come dicevo, dall’opera dello storico Erodoto. Ma pensiamo anche all’Odissea, a Esiodo, ai presocratici, ai lirici greci, alla tragedia, ai geografi, e, naturalmente, alla produzione più direttamente ispirata dal rapporto con la divinità, dagli Inni omerici sino alle Confessioni di Agostino. Quindi, altri testi da leggere, da far leggere. Per quanto riguarda il come, direi che ognuno dovrebbe attingere alla propria sensibilità. Io per questa volta ho provato con la controfattualità. Per la prossima devo ancora decidere.