Chiara Finulli è giornalista e assistente editoriale di Studi cattolici. È arrivata in Ares nel 2019 e da allora ha collaborato gomito a gomito con Cesare Cavalleri.

Ho incontrato Cesare Cavalleri per la prima volta nel 2018, ventisei anni compiuti da poco, una laurea in Storia da qualche anno, un master e un’esperienza lavorativa poco memorabile. Non ricordo i momenti del nostro primo incontro, ricordo invece cosa pensai quando entrai nei corridoi in penombra della sede storica delle Edizioni Ares in via Stradivari 7, appena fuori dall’uscita della metro di Loreto: intorno a me si snodavano dei corridoi, intravidi delle porte e delle stanze, la sensazione fu quella di un labirinto. Dappertutto c’erano libri, sugli scaffali in legno, sui tavoli e per terra: ricordo distintamente che pensai che il disordine fosse eccessivo “Se questa è la situazione di una casa editrice, cominciamo bene…”. Per fortuna poco dopo mi fu detto di non spaventarmi del caos: era in corso un trasloco, «di solito non è così disordinata la situazione».

Poi, la mia avventura in Ares è cominciata così: aprendo uno degli ultimi scatoloni e sistemando i libri sui nuovi, ariosi scaffali della nuova sede di via Santa Croce. Non ho quindi mai vissuto l’Ares originaria e non ho lavorato a fianco di Cesare Cavalleri nel suo storico mondo: ho esordito direttamente nella nuova era della casa editrice.

Nei primi tempi Cesare per me era una sorta di presenza insondabile, sacra, chiuso nel suo ufficio, in fondo al corridoio, con gli scaffali pieni di libri disposti in un ordine preciso, con la scrivania in legno, e le foto, i quadri e le targhe dei tanti premi ricevuti: una stanza dove cercavo di mettere piede il meno possibile, non avevo ancora compreso come relazionarmi con il Direttore. Ci andavo solo per lo strettissimo necessario e non senza una certa apprensione: quante volte mi sono presa dei rimproveri per non aver fatto subito una cosa che mi aveva chiesto. Una volta risposi, a mo’ di scusa, che stavo finendo una cosa urgente: «Quando faccio una richiesta è sempre urgente», fu la risposta. Da quel giorno, ho sempre risposto prontamente, o quasi, alle sue domande, richieste e poi collaborazioni, scoprendo che non era poi così male togliersi il pensiero di un’incombenza che non consideravo urgente. Ricordo perfettamente il giorno in cui ho superato la prima soggezione: una mattina, nella solita routine cao­tica di inizio giornata, Cesare arrivò con una richiesta ingestibile in quel momento: aveva chiuso per sbaglio senza salvare il file word sui cui aveva finito di battere l’editoriale del numero in preparazione. Documento perso, apparentemente. Andai nel suo ufficio, in fondo avevo da poco finito di scrivere la tesi, quante volte mi era successo di non salvare interi capitoli nella più completa disperazione. Gli ho chiesto se potevo fare un tentativo: in due click gli ho ritrovato il file: non dimenticherò mai il viso di Cesare, da rabbuiato che era, si aprì in un sorriso radiosissimo. Da quel giorno non ha più smesso di chiamarmi sull’interno del telefono per aiutarlo a risolvere i problemi tecnici più svariati, dalla stampante che non funzionava, ai post sbagliati su Facebook.

Poi è arrivato il Covid, il lockdown, l’incertezza e Studi cattolici che doveva continuare a uscire, non c’era chiusura che tenesse. In quel periodo ho cominciato a collaborare con Cesare alla rivista, la sua creatura, ciò per cui tutti i giorni ha continuato a venire in ufficio fino al 10 novembre scorso. È stato in questo momento, nella tarda primavera del 2020 che sono entrata alla scuola di Cesare. Prima assistendolo nella stesura del sommario, poi piano piano sulle seconde bozze, sull’impaginazione e lavorando alla ricerca dei pezzi, poi ho iniziato a scrivere anche io, è stata come una prosecuzione naturale del lavoro “tecnico”. Quando gli ho consegnato il primo pezzo, era un “Ares news” di non ricordo più quale mese, mi disse subito: «Non scrivere mai “nel suo ultimo libro l’autore dice”, perché così sembra che sia l’ultimo libro che ha scritto perché poi è morto». Da allora scrivo sempre “recente” e ogni volta mi scappa un sorriso e penso a lui. Cesare da quel giorno ha sempre letto tutti i miei pezzi, che mi restituiva con le sue note scritte a margine nella sua grafia sottile.

Non scorderò nemmeno la prima volta che scrissi un pezzo su un argomento che temevo sembrasse sacrilego: la vittoria agli Europei dell’Italia, un articolo di sport. Avevo paura fosse un argomento troppo “leggero” per una rivista come Studi. Invece Cesare mi chiamò e mi disse che si era divertito moltissimo a leggerlo e che dovevo scrivere più spesso di sport: quella semplice frase mi ha come gettato delle fondamenta sulle mie consapevolezze.

Piano piano non ho più avuto paura di andare nel suo ufficio, anzi, spesso facevo capolino solo per scambiare due chiacchiere, nient’altro. Non ricordo frasi memorabili o grandi riflessioni, abbiamo però vissuto tanti momenti insieme. Ricordo quando andammo in giornata a Camposanpiero, vicino a Padova: partenza alle 6 di mattina per essere puntuali alle 11 a ritirare un premio speciale alla carriera; arrivai in macchina sotto casa sua alle 5.55, era già lì ad aspettarmi.

Con il passare del tempo mi sono resa conto di quanto scavasse in me il suo essere un esempio. Innanzitutto, di etica lavorativa: Cesare ha continuato a venire puntuale nella sua Ares fino alla fine, per seguire la rivista, per stare nel suo ufficio, per lavorare. Anche nell’ultimo mese in cui è stato a letto, ha voluto che gli facessi leggere le bozze. Il 16 dicembre gli ho portato il numero di Natale fresco di stampa, l’ultimo che ha visto stampato, e ha voluto che gli raccontassi quali erano i pezzi del numero di gennaio.

Se posso scegliere un sostantivo che ha caratterizzato Cesare e che per me è stato di grande ispirazione è curiosità. In questi pochi anni in cui ho avuto il privilegio di conoscerlo, di lavorarci insieme, mi ha lasciato un segno dentro vedere con quanta curiosità si è messo alla prova con mondi che potevano sembragli preclusi, come quello della tecnologia e dei social: dalle dirette Facebook ai suoi appuntamenti con la poesia ogni 13 del mese, dallo smartphone (ne ha cambiati vari in questi anni, e si è sempre messo di buona lena a imparare a usarli) alle applicazioni – quanto tempo perso sull’app dello Spid –, dai social ai programmi per impaginare. Osservare un uomo che a 85 si mette in discussione con entusiasmo a usare i social, per dirne una, è stata per me la scuola di vita tra le più vivide.

Così come è stata una scuola di cristianesimo nel modo più puro e semplice vedere come ha affrontato la malattia e l’ultimo mese, a letto, spossato, come si è preparto al “grande salto” come ha detto lui in modo così preciso. Cesare è stato un maestro perché ha saputo essere d’esempio nella vita e sul lavoro, per i suoi coetanei così come per quella ragazza con poche idee confuse, nata cinquantasei anni dopo di lui che un giorno si è presentata alla porta delle Edizioni Ares.

Alla fine, il nostro rapporto si era trasformato da semplicemente lavorativo a filiale, forse come tra un nonno e una nipote, mi azzarderei a dire. Fino all’ultimo si è sempre mostrato interessato ai miei problemi e alle mie fatiche, anche extralavorative. Anche questa delicata, ma ferma attenzione per la vita personale, affettiva, che tu avessi cento, sessanta, trenta o due anni è sempre stato un suo tratto distintivo. Una volta ho assisto a un esilarante scambio di battute tra lui e mia nipote di quattro anni, uno spasso. L’età per lui non è mai stata un ostacolo all’instaurazione di un rapporto, anche di pochi minuti.

A fine ottobre scorso sono andata a New York. Il giorno prima di partire Cesare è passato da me per farmi gli auguri di buon viaggio, mi ha detto due cose: «Mi raccomando, scrivi un reportage da New York e soprattutto torna con la data del matrimonio». Sono tornata in ufficio a inizio novembre, sono andata dritta filata nella sua stanza dove lui mi ha accolto con il suo solito «E quindi?»: gli ho detto che mi sposavo, lui si è commosso, e io anche.