Molto giustamente gli intenditori di musica lamentano la mancanza, oggidì, di un repertorio a uso segnatamente liturgico». Il giudizio, formulato dal romantico E.T. A. Hoffmann nel lontano 1814, quando ancora Napoleone era l’imperatore dei francesi, è ai giorni nostri del tutto valido e attuale. Il geniale concittadino di Kant – entrambi nacquero a Königsberg – adopera una locuzione in sé ambigua. Non si serve dell’aggettivo liturgica, ma dice, prendendola più alla lontana, «musica per la chiesa» (Werke für die Kirche), che è dire tutto e nulla. L’aggettivo sacra apposto al sostantivo musica, anziché fornire al lettore un elemento in più onde permettergli di orientarsi fra terminologie spesso fumose e inconcludenti, complica tutto. Infatti, sono tali e tante le stratificazioni concettuali succedutesi nei secoli e le opinioni al riguardo, che diviene difficile parlarne in un contesto allargato, specie se esteso agli àmbiti sfumati dell’antropologia religiosa e culturale. Un protestante la penserà sempre, a tal riguardo, in modo diverso da un cattolico ed entrambi saranno inevitabilmente lontani anni luce dal sacro degli ortodossi o da quello degli sciamani della taiga siberiana, per i quali animismo, spiritismo, totemismo confluiscono a fondare una musica in grado, secondo il credo pagano, di porre l’officiante a tu per tu con lo spirito degli antenati e con gli elementi della natura.

La sociologia della musica distingue, en gros, tra numerose tipologie di musica. Una è destinata al lavoro, una è finalizzata al puro intrattenimento, una, la musica classica “colta”, quella che Carl Dahlhaus chiama “assoluta”, è posta al servizio di un gratuito godimento estetico, senza altro fine che il Bello in sé, puntualizza Kant; un’altra è dotata di proprietà terapeutiche – è questo il grande filone della musicoterapia, talora uno specchietto per allodole per clienti danarosi e nullafacenti – una terza è destinata alle hall degli alberghi (lounge music), agli ascensori, ai reparti dei grandi magazzini e dei supermercati (il legame fra tipologia di musica e volume di vendite è assodato, la relazione tra musica di sottofondo e flussi di cassa è provata scientificamente). C’è una certa musica in grado di agire sul trofismo psichico (come il rock sul cervello degli adolescenti), una capace di far rilassare o di indurre il sonno in chi l’ascolta, un’altra confezionata su misura per le pratiche meditative (per esempio il sitar del grande Ravi Shankar), un’altra riservata alla liturgia.

Tra il sublime e il sacro

Qui si pone la prima domanda: di quale credo e confessione religiosa stiamo parlando? Di credenze e norme rituali codificate ne esistono tante quante sono le culture, le etnie, le popolazioni che abitano il pianeta, ciascuna in base a una sua storia e a un suo àmbito particolari. Quanto costituisce il massimo del “sacro musicale” per noi occidentali (la delimitazione è necessaria e già dice molto sull’angustia dei confini tassonomici in uso) – poniamo che a ciò possano ambire le centoquattro Messe composte da Giovanni Pierluigi da Palestrina – risulterà magari solo “bello”, ma di nessuna spinta o elevazione spirituale per un uomo di affari di Sidney o per un imam del Cairo. Bello, e magari sublime. Ma tra il sublime e il sacro potrebbe esserci ancora e sempre quello iota, quell’elemento separatore che, pur offrendoci un appiglio non più umano, quello di un esito spirituale indubbio, resta però ancora inaccessibile al sacrum et fanum della sfera celeste ultima.

Prendiamo il caso del Parsifal wagneriano che, per tradizione, accompagna la veglia pasquale di tutti i fedeli cristiani, senza distinzione di credo e di etnia. Nessuno nutre dubbi in merito al fatto che lo abbia composto un uomo che, per molti versi, era malvagio: un adultero, un opportunista, un adulatore, un voltagabbana, un lussurioso, un ladro, un antisemita. Tutte queste cose messe insieme era Wagner. Come se non bastasse, il Parsifal è un inno alla Gnosi e alle fumoserie norrene. Come sempre in Wagner, il mito soppianta il racconto evangelico, il paradiso dei credenti viene confuso col Walhalla, Odino prende il posto dell’Altissimo e le Valchirie sono per lui ciò che gli angeli sono per i cristiani. Il mago Klingsor è un alias di Faust. Eppure, il Parsifal è l’opera sacra per eccellenza, un’opera – lunga cinque ore – il cui ascolto fa piegare le ginocchia e inumidire il ciglio. Il Preludio di Lohengrin è un ineguagliato inno alla luce, ossia alla possibilità di esprimere le qualità della luce attraverso i suoni, ed è fra i momenti più alti della musica sacra di ogni tempo (l’esordio dell’opera dovrebbe rappresentare, secondo l’indicazione programmatica dello stesso Wagner, l’atmosfera delle sfere celesti, dalle quali emana e si materializza «una schiera di angeli, al centro della quale è recato il sacro Graal»).

Paradossalmente, non sempre ciò che vorrebbe esser sacro lo è per davvero. Questo perché l’homo religiosus è incompatibile con l’homo aestheticus, spiega Kierkegaard. Ovvero: il fervore contemplativo del primo fa aggio sull’ingenuità virtuosa del secondo. «Omnia in gloriam Dei facite», raccomanda l’apostolo di Tarso, e questo precisamente l’artista reputa di stare facendo: glorificare l’Altissimo con la propria arte. È anche vero che la musica mundana (la quale «diletta gli orecchi degli uomini divini che hanno purificato i loro sensi nel quotidiano sforzo di elevazione verso il mondo superiore» (B. Nardi) per sua natura tende, in quanto eccentrica, lontana dal suo centro, ad affrancarsi da tutto ciò che, a cominciare dall’ipoteca dogmatica e dalla garanzia di serietà, connota la musica coelestis.

Come una piramide

Dobbiamo immaginare il vasto edificio dell’arte come una piramide. Al vertice è ovviamente la produzione tutta – indiscutibile – di Johann Sebastian Bach, mentre solo un gradino sotto risuonano il Requiem e l’Ave Corpus di Mozart (che di Messe ne scrisse ben 11). Nessuno dei due era animato da un grande amor di Dio, ma l’arte di entrambi è il più grande monumento che mai sia stato eretto a lode e gloria di Dio. «Quando gli angeli suonano in lode dell’Altissimo», scrive Karl Barth, uno al quale si può, entro certi limiti, dare fiducia, «l’autore è Bach, quando viceversa essi fanno musica tra loro, l’autore è Mozart». I testi, affettuosi al limite dell’ingenuità, tipici del coevo pietismo, da Bach impiegati nelle sue Passioni potranno far sorridere qualche buontempone, e lo stesso potrà dirsi dell’apparente semplicità di Mozart. Già, le loro sono carezze musicali, non sono né arringhe, né proclami.

Se Bach è al vertice della piramide, alla base di essa troveremo lo sterminato mormorio di una produzione musicale anonima e diffusa che sarebbe bene e giusto dimenticare. Vi troveremo la babele di anonimi suoni che quotidianamente ci circondano, che ascoltiamo nei supermercati, negli ascensori, seduti sulla poltrona del dentista. Vi incontreremo, spiega il futuro papa Benedetto XVI, il «culto della banalità» del pop e le «passioni elementari», fondamentalmente anticristiane, del rock. La cui lingua è del tutto simile alla lingua morta che si parla cum mortuis (è il titolo di uno dei Quadri di un’esposizione), la stessa con la quale Federico Ruysch si rivolge alle sue adorate mummie. Morte non sono affatto le lingue del passato, lo sono invece tutte quelle che, sotto un codice di parole e segni spesso usurati, contagiati dalla peste dell’insignificanza, non sono in grado di veicolare adeguatamente i contenuti loro affidati. Taluni gerghi giovanilistici sono morti fin dal loro nascere. Per la musica è lo stesso discorso.

Nella musica liturgica deve rispettarsi, lo afferma il Magistero in tutti i suoi documenti, «un chiaro dominio della parola» sulla musica. Parola che, spiega Ratzinger, rappresenta «una modalità più alta di annuncio». La parola è naturalmente in difetto rispetto alla musica: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (inutile precisare che la musica passa per i sensi prima di arrivare alla corteccia, mentre non si può dire altrettanto di un testo, nel quale la parte giocata dal significato veicolato esercita un ruolo di gran lunga maggiore rispetto a quello che ha la sensibilità). Si vuole evitare che la musica abbia la meglio su una liturgia della parola messa, per così dire, alle strette. La Chiesa difende, insomma, le buone ragioni della Textverständlichkeit, quelle della parola pienamente intelligibile, della parola che arriva al cuore prima di quanto lo faccia la musica.

Si tratta di salvaguardare l’intelletto dalle tentazioni del sensorium. Preoccupano i rischi di un “allettamento sensoriale” non solo contrario allo spirito della liturgia ma, in termini più sfumati, «sospettato di contravvenire al decoro, alla sobrietà, alla compunzione ufficialmente desiderati dalla Chiesa» (L. Bianconi). In molti casi l’assemblea dovrà limitarsi a diligentemente ascoltare. Sicché dovrà proscriversi quanto potrebbe distogliere dal fare tanto l’una che l’altra cosa, tanto una musica sciatta che una troppo coinvolgente. Così ammoniva papa Pio X nel suo motu proprio Inter Sollicitudines (1903): «In generale è da condannare come abuso gravissimo che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia appaia secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella». Par quasi che talvolta la Chiesa tema l’influsso surrettizio dei suoni sull’animo dei fedeli. Si reagisce al timore umiliando ciò che si ama e si teme. Cantare, spiega il futuro papa Benedetto XVI, può indurre ebbrezza laddove il Logos esige sobrietà. Il pericolo è che, prosegue Ratzinger, la musica «esuli dalla liturgia proprio in forza della pretesa autonomia dell’elemento artistico, diventando fine a sé stessa».

Santità e bontà delle forme

Dobbiamo sempre a Pio X una definizione di musica sacra che, se ancor valida oggi, deve tale sua longevità alla sua prevedibile vaghezza. «Come parte integrante della solenne liturgia», dispone il romano pontefice, la musica sacra «deve possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità». Da queste premesse discende che, oltre che sacra, questa musica sarà anche santa «e quindi escluderà ogni profanità». Lo stesso invito aveva formulato ottant’anni prima il cardinale Costantino Zurla, Vicario di Roma al tempo di papa Leone XII, il vero ispiratore dell’editto Sul culto divino e sul rispetto alle chiese (1824), interdicendo agli organisti «di eseguire sull’organo i pezzi di musica da teatro o che sappiano di profano». Inoltre, «siccome il canto deve sempre primeggiare – spiega ancora papa Pio X –, così l’organo o gli strumenti devono semplicemente sostenerlo e non mai opprimerlo». Quanto all’organo, il suo suono «non solo deve essere condotto secondo la propria natura di tale strumento, ma deve partecipare di tutte le qualità che ha la vera musica sacra». Non si comprenderà il senso di un’asserzione apparentemente nebulosa, per non dire tautologica, se non alla luce della piega storicamente presa dal rapporto (sempre dinamico e cangiante) tra le due «scelte incrociate» della monodia e della polifonia, un rapporto al quale si dovrà aggiungere quello tra monodia “secca” e monodia accompagnata, ovvero (direbbe lo psicologo della percezione) tra primo piano e sfondo, col prevalere ora dell’uno, ora dell’altro e, non di rado, in aperta contraddizione fra loro (non sempre la legge dell’isomorfismo tra suono e parola – il recitar cantando di Emilio de’ Cavalieri, poi abbracciato dalla successiva generazione di madrigalisti – è atteso e rispettato dai compositori).

In soccorso delle giuste (perché storicamente fondate) preoccupazioni papali intervengono le scienze cognitive applicate alla musica. Mario Baroni, Rossana Dalmonte e Carlo Jacoboni hanno, in un loro saggio, sottolineato «la graduale fusione della logica scalare della cantabilità modale con quella strumentale, fatta di salti sulle note dell’accordo». Ciò potrebbe spiegare, almeno in parte, la ragione per la quale i Papi succedutisi dal lontano Concilio di Trento hanno temuto e osteggiato il progressivo slittamento della monodia gregoriana, il cosiddetto cantus planus, fatto di moti minimali da parte delle voci, molto spesso procedenti per gradi congiunti, verso àmbiti secolari, gli stessi delle chansons popolari e della monodia accompagnata, àmbiti per i quali la voce del cantore affronta salti e indugia su intervalli anche notevoli (a ciò li spinge il prevalere della natura accordale dell’accompagnamento, natura che si trasmette alla voce).

Gradevolezza e spessore

La Chiesa dà implicitamente ragione – nella sostanza dei fatti, anche se non in quella del primitivo repertorio della cappella istituita da papa Sisto IV e, più in generale, della cosiddetta “scuola romana” – a Monteverdi e alla sua seconda prattica, quella che «pone l’oratione per signora dell’armonia» e quest’ultima per «serva» della prima, se è vero che il testo liturgico deve avere la preminenza sulla musica, ossia se è vero che occorre poter comprendere il testo per potersi poi beare (ma non è necessario che lo si faccia) della musica. Perché, spiega Kant, «il Sublime commuove», mentre «il Bello attrae». Per la pastorale ecclesiale attrarre è più importante di quanto non lo sia commuovere, alla stessa maniera in cui la devozione di un pio «uomo della strada» è più importante dell’estasi di un santo. In questo senso la gradevolezza incontestata – l’accessibilità universe – del Bello, come può esserlo quello di una melodia che discretamente «sobbolle», supposto che possa esservi qualcosa di simile a una «gradevolezza» valida sempre e dappertutto, avrà la meglio sull’effervescenza di uno smisurato «bollore», il Sublime, la cui esperienza, più fugace ancorché più intensa, è riservata a pochi individui privilegiati.

Se Kant negava di poter estendere la semplice “gradevolezza” – das Angenehme – all’universo mondo, per un giudizio che sarà in ogni caso soggettivo e senza fondamento reale (“senza concetto”, nel gergo kantiano), la stessa può però essere appresa e comunicata e affinata, legata come essa è all’idea di “gusto” (Geschmack). Nella prospettiva di una comunicazione e partecipazione alle gioie del Bello quanto più vasta ed estesa, è inevitabile che la “piacevolezza” faccia aggio sullo spessore artistico e spirituale dell’opera d’arte (la spissitudo spiritualis di Souriau). E che un brano di Giuseppe Povia o uno di Simone Cristicchi possano, a differenza di un mottetto di Ockeghem o di Palestrina, incontrare il favore incondizionato di “masse” non qualificate. In tal senso è forse auspicabile che la Chiesa e lo Stato si alleino in vista di una capillare “educazione al gusto”, un’ambizione pedagogica cara a Schiller, ambizione che in Italia, a parte qualche spunto che si rinviene nello Zibaldone o nelle operette di Antonio Rosmini dedicate all’argomento, non ha mai avuto seguaci.

Il modello del contrappunto

Di una cosa possiamo star certi. Se il brano sacro sarà troppo difficile, soprattutto nel caso di un trattamento a più voci e con testo in latino, il fedele percepirà la musica non già come un ausilio alla devozione ma, semmai, come un impedimento alla stessa. Il caso opposto presenta dei rischi non minori. Qualora troppo orecchiabile, qualora di una semplicità eccessiva, la musica potrebbe estenuare tanto l’attenzione che il sentimento. Il livello di originalità discorsiva dovrebbe essere intermedio, nel caso dell’arte sacra così come in tutte le cose (e non solo perché in medio stat virtus, ma perché esiste una collaudata “banda critica” dell’attenzione che incide sulla cognizione e sull’apprendimento non meno di quanto essa influisca sul giudizio estetico, e lo condizioni). Non troppo difficile (perché l’arte sacra non è un pezzo da museo, non è un totem destinato a una cerchia ristretta di iniziati, non dev’essere un enigma da sciogliere) e nemmeno troppo facile (un Gloria e un Sanctus dovrebbero essere altra cosa da una filastrocca per bambini e l’austera vetrata di una cattedrale non dovrebbe ospitare un fumetto dei supereroi Marvel o un manga).

La complicazione recata alla musica dal contrappunto rappresenta un valido e benefico artificio per mediare fra un eccesso di verticalità (armonia) e uno di orizzontalità (melodia). Il contrappunto incarna ciò che in filosofia potrebbe costituire il locus classicus per un efficace dialogo fra un io e un tu: la rappresentazione di due linee in mutuo rapporto fra loro nel nome di una relazione (Beziehung). È questo il punto di vista del grande pensatore Martin Buber. Il musicologo e teorico “energetista” Ernst Kurth giunge al punto di definire il contrappunto una sorta di «estasi dell’espressione formale» (Ekstase des Formausdrucks). E.T.A. Hoffmann imputa la decadenza della coeva musica sacra alla parallela decadenza del contrappunto, tecnica che la generazione dei compositori romantici (Hoffmann non poteva conoscere Brahms, è chiaro) rinunziò a praticare con la serietà necessaria. Pensiamo a due ortogonali incrociantisi in un punto o perno centrale, o ai due assi cartesiani convergenti all’origine: è precisamente questo il modello compositivo interconnesso (essenzialmente dialogico e imitativo) fornitoci dal contrappunto.

Semplice ma non banale

Mentre nel melodramma – l’opera italiana – esiste sempre una voce solista che sovrasta tutte le altre in potenza ed efficacia scenica (salvo forse nei finali d’atto rossiniani e verdiani, veri capolavori di contrappunto vocale), con prevalere della melodia su tutto il resto; e mentre in Wagner ogni spunto canoro è frustrato, assorbito e, per così dire, fagocitato dalla sontuosità di una massa orchestrale onnipresente, alla quale si accompagnano libretti spesso velleitari e una messa in scena di regola sontuosa e barocca, quando non francamente ridicola; il contrappunto dei maestri fiamminghi e di Palestrina, almeno fino alla Missa papae Marcelli (1562), ci regala, viceversa, un equilibrio mai più raggiunto in seguito fra le esigenze del testo, della melodia, dell’armonia. Polifonia sacra della specie più nobile e più difficilmente imitabile. Esiste un magnifico acquerello di Paul Klee (del 1921), intitolato Fuge in Rot (“Fuga in rosso”), nel quale è possibile scorgere tutte le tensioni di un contrappunto severo, condotto nello stile musicale classico.

In conclusione, la musica liturgica dovrà essere sì semplice, nessuno lo nega, ma non esserlo al punto da risultare banale. Essa non dovrà mai e in nessun caso scadere al rango di un’oleografia da parete, di un quadretto pompier, buono magari per la devozione la main sur le cœur, ma irricevibile a motivo della sua grossolanità. Il rapporto della musica con la Parola della liturgia dovrebbe essere non solo sinergico, di reciproca esaltazione, ma esserlo anche, e soprattutto, nel pieno rispetto della sacralità della seconda, veicolo privilegiato del Logos. Vi sono stati, in epoca moderna, quella più vicina a noi, dei compositori realmente capaci di tradurre il Logos in musica? Sicuramente lo è stato il francese Olivier Messiaen (1908-1992). Ai giorni nostri, l’estone Arvo Pärt (1935). Basterà ascoltare il sontuoso Livre d’orgue (1951) o lo statico Apparition de l’Église éternelle (1932) del primo per persuadersi che l’organo è davvero il principe degli strumenti. Basterà ascoltare il Magnificat (1989) per coro misto del secondo per persuadersi che la voce umana si presta come poche cose al mondo a divenire preghiera e, tramutando l’arte in sacralità, la τέχνη (technè) in ἱερόν (ieròn), a occupare un posto d’onore all’interno della liturgia della Parola. Perché, come Benedetto XVI ha affermato, «la lode di Dio esige il canto».