Gregorio Magno (Roma 540 ca.-604), dottore della Chiesa, compì vasti studi biblici e patristici, subendo in particolare l’influsso di sant’Agostino. Prefetto di Roma, sentì la vocazione alla vita monastica, così organizzò sul Celio un monastero. L’esperienza dimostrata nelle cariche pubbliche ricoperte e la fama di sicura ortodossia e austerità di vita indussero papa Pelagio II a inviarlo come nunzio a Costantinopoli. Alla morte di Pelagio II fu elevato al soglio pontificio nel 590. Fermissimo nella difesa dell’ortodossia e della dignità della Chiesa romana, intervenne nelle diocesi per agevolare l’elezione di vescovi degni, per eliminare abusi e violenze, per rialzare il tono della vita cristiana; dettò le norme fondamentali del canto che da lui trasse poi il nome di “gregoriano”. Numerose le sue opere (omelie e commenti scritturistici, lettere ecc.). Venerato come santo sin dal VII secolo, la sua festa è il 12 marzo, giorno della sua morte. Presentiamo alcuni passi della decima delle sue Homiliae in Evangelia, lib. I (ed. Migne), relativa al vangelo della festa dell’Epifania, rivolta al popolo nella basilica di San Pietro apostolo. Nella foto, San Gregorio di Antonello da Messina, 1470, Palazzo Abatellis, Palermo.

1. Come avete ascoltato nella lettura del brano evangelico [Mt 2, 1-12], o carissimi fratelli, alla nascita del Re del Cielo rimase turbato il re della terra: la potenza umana infatti resta turbata quando appare la grandezza delle cose celesti. Dobbiamo però chiederci come mai, alla nascita del Redentore, un angelo appare ai pastori in Giudea, mentre una stella, e non un angelo, guidò i magi dall’Oriente ad adorare il Signore.

Il motivo è questo: ai giudei, la cui mente aveva già attinto la Verità rivelata, l’annunzio doveva esser dato da una creatura vivente e razionale, cioè da un angelo, mentre i pagani, alla cui mente la Rivelazione non era ancora giunta, erano portati alla conoscenza di Dio non dalla parola, ma dai segni. Infatti, anche l’Apostolo Paolo scrive: le profezie sono rivolte ai fedeli, non a coloro che non credono, mentre i segni valgono per chi non ha la fede, non per chi crede (1 Cor 14, 22): ai giudei quindi, che già hanno la fede, sono rivolte le profezie che non vengono date ai pagani, ai quali invece sono rivolti i segni che non vengono dati a chi già ha la fede. Occorre poi notare che gli Apostoli predicano ai pagani il nostro Redentore quando Egli è nell’età adulta; mentre è la stella che lo annuncia quando Egli è ancora bambino e non usa l’umana parola, perché un retto ordine di cose esigeva che la voce dei predicatori ci presentasse il Signore giunto ormai all’età della parola, e i muti elementi della natura lo annunciassero quando egli era ancora un piccolo bimbo. […]

2. Tutti gli elementi, infatti, attestarono la venuta del loro Creatore. Applicando loro un linguaggio umano, dobbiamo dire che i cieli lo riconobbero come Dio, mandando subito la stella. Il mare pure lo riconobbe, quando si fece attraversare dai suoi passi, così la terra che tremò alla sua morte, il sole che nascose i raggi della sua luce, le pietre e i muri che si spezzarono, gli inferi stessi che restituirono alla vita coloro che tenevano imprigionati nella morte. […]

3. Conosciuta la nascita del nostro Re, Erode ricorre ai mezzucci dell’astuzia umana nel timore di perdere il suo regno terreno. Chiede di essere informato sul luogo dove il fanciullo si sarebbe potuto trovare, finge di volerlo adorare meditando di ucciderlo, se mai gli riesca di scovarlo. Ma cosa può l’umana malizia contro il disegno di Dio? Sta scritto infatti: nessuna sapienza o prudenza o disegno sono validi contro il Signore (Pro 21, 30). Infatti, la stella apparsa riprende a guidarli ed essi trovano il nato Re, porgono i doni e vengono avvertiti nel sonno di non tornare da Erode che non riesce così a trovare Gesù che cercava. Questo re malvagio chi raffigura se non gli ipocriti che non meritano mai di trovare il Signore perché lo cercano con animo macchiato di impostura? […]

4. I Magi offrono oro, incenso, mirra. L’oro si addice alla dignità regale, l’incenso era usato nel sacrificio offerto a Dio, con la mirra si conservavano i cadaveri. I Magi, coi loro doni simbolici, pongono in risalto le prerogative di Colui che adorano: con l’oro indicano il Re, con l’incenso Dio, con la mirra la natura umana.

Alcuni eretici credono nella divinità di Cristo ma non ammettono il suo universale, regale dominio.

Questi offrono a lui l’incenso ma si rifiutano di dargli anche l’oro. Altri lo ritengono Re, ma non credono nella sua divinità. Questi gli offrono l’oro, ma gli rifiutano l’incenso. Altri, infine, lo riconoscono Dio e Re, ma non ammettono che egli abbia assunto l’umana natura. Costoro gli porgono in dono l’oro e l’incenso, ma non vogliono offrirgli la mirra, in simbolo della natura mortale assunta. Noi, perciò, offriamo al neonato Signore l’oro per riconoscere che Egli regna ovunque, l’incenso perché crediamo che Egli, nato nel tempo, esisteva, come Dio, prima di tutti i tempi, la mirra per riconoscere che in lui la divinità, esente da ogni possibilità di dolore, si unì con l’umanità che poteva soffrire e morire.

Tuttavia, l’oro, l’incenso e la mirra possono simboleggiare altre realtà. L’oro designa la sapienza, come scrive Salomone: un tesoro prezioso si trova sulla bocca del sapiente (Pro 21, 20, versione LXX). Coll’incenso che sale a Dio si indica la virtù dell’orazione, come si esprime il salmista: la mia preghiera, come incenso, giunga al tuo cospetto (Sal 140, 2). La mirra raffigura la mortificazione della nostra carne, e per questo la santa Chiesa dice dei suoi fedeli che combattono fino alla morte per la causa di Dio: le mie mani stillarono mirra (Ct 5, 5). Noi, quindi, offriamo al nato Re l’oro se risplendiamo al suo cospetto per il fulgore della soprannaturale sapienza; gli presentiamo l’incenso quando, sull’altare del nostro cuore, bruciamo, nel fervore dell’orazione, i desideri della carne, così da poter avere in noi, per i desideri delle cose celesti, come un profumo soave al cospetto di Dio.

Offriamo la mirra se estinguiamo i vizi della carne con l’astinenza. La mirra infatti, come abbiamo detto, viene usata per impedire il corrompersi della carne morta, e questa corruzione raffigura la schiavitù nostra alle brame di lussuria del nostro corpo mortale, come scrive il profeta di alcuni: i giumenti imputridirono nel loro letame (Gl 1, 17).

Questo imputridire dei giumenti nel loro letame simboleggia gli uomini carnali che corrompono la loro vita nella vergogna della lussuria. Noi invece offriamo a Dio la mirra quando, nella continenza, teniamo lontano il nostro corpo mortale dalla corruzione dell’impurità.

7. I Magi ci insegnano una grande verità col ritorno nelle loro regioni compiuto attraverso un’altra via. Questa decisione che prendono in seguito all’avviso del Cielo ci dice come dobbiamo comportarci. La nostra patria è in Cielo e a essa, dopo aver conosciuto Gesù, non possiamo ritornare percorrendo la via su cui ci siamo trovati allontanandoci. Da essa, infatti, ci siamo allontanati per la superbia, l’orgoglio, il fascino delle cose visibili, i piaceri che non dovevamo gustare. A essa dovremo tornare nel pianto, nell’umiltà, nel disprezzo delle cose visibili e nel dominio dei nostri desideri carnali. Ritorniamo, quindi, per un’altra via alla nostra patria, perché, dopo esserci allontanati dai gaudi celesti per i piaceri terreni, vi facciamo ritorno con le opere della penitenza.

È necessario perciò, carissimi fratelli, tener sempre davanti agli occhi del nostro cuore, nel timore e nella vigilanza, da una parte le colpe commesse, dall’altra la sentenza severa dell’ultimo giudizio. Riflettiamo sulla severità del Giudice che deve venire, che minaccia e rimane nascosto, che riserva pene terribili ai peccatori pur pazientando al presente e che differisce la sua venuta per trovare meno colpe da condannare. […]

Temiamo quindi i comandi di Dio se vogliamo celebrare con sincerità questa solennità del Signore. Il sacrificio gradito a Dio è infatti la contrizione per il peccato, come afferma il salmista: la compunzione del cuore è un sacrificio a Dio (Sal 50, 19).

Siamo stati purificati dalle colpe passate ricevendo il Battesimo e tuttavia, dopo, ne abbiamo commesse ancora tante e non è possibile cancellarle di nuovo con le acque del sacramento. Siccome, dopo il Battesimo, abbiamo ancora macchiato la nostra vita, immergiamo in un Battesimo di lacrime la nostra coscienza: in questo modo, in cammino verso la patria, percorrendo un’altra via, dopo esserci allontanati per il fascino di beni fallaci, vi potremo fare ritorno nell’amarezza per il male compiuto, con la grazia del Signore.