Bruno Nacci parla con Francesco Ghelardini del carcere di massima sicurezza Cecot costruito nel 2022 a El Salvador, conosciuto per essere uno dei più grandi al mondo e per le misure coercitive estreme cui sono sottoposti i detenuti. Francesco Ghelardini è stato un rapinatore e ha trascorso circa ventidue anni in carcere, ora lavora a tempo pieno presso un servizio di ambulanze. Ha scritto due libri, L’arte della rapina (2017, Oaks editrice) e Codice a sbarre (2020, Oaks editrice) sulla sua esperienza criminale e di carcerato.
El Salvador, Stato centro-americano poco più piccolo della Lombardia, con una popolazione di circa sei milioni e mezzo di abitanti, affaccia con splendide spiagge sull’oceano Pacifico, ricco di grandi vulcani e boschi, confina con Honduras e Guatemala. Prima della colonizzazione spagnola era in parte abitato da una popolazione Maya. Divenuto una Repubblica indipendente nel 1841, è stato spesso teatro di regimi militari o autoritari, con endemiche rivolte e violente repressioni. In una di queste, il 24 marzo 1980, venne assassinato Oscar Romero, arcivescovo della capitale San Salvador, in seguito proclamato santo da papa Bergoglio. Un paese afflitto da bande in guerra perenne tra loro, che taglieggiano la popolazione, con un numero di assassinii che nel 2015 ammontava a seimilaseicentocinquantasei (in Italia, grande circa quindici volte El Salvador, il numero annuo era di quattrocentosessantanove omicidi). Grazie allo “stato di eccezione” (la sospensione della legge ordinaria a partire dal marzo 2022), voluto dal presidente Nayb Bukele (in carica dal 2019, già sindaco della capitale) il numero di morti assassinati oggi è sceso a cinquanta. Cosa si cela dietro questo eclatante risultato? Secondo il cardinale Rosa Chavez «il prezzo che stiamo pagando è altissimo: il disprezzo della dignità umana».
Nel 2022, nel distretto giudiziario di Tecoluca, in aperta campagna, in sette mesi viene costruito uno dei più grandi carceri del mondo, il Cecot (Centro de Confinamiento del Terrorismo) capace di contenere fino a quarantamila detenuti. Il Centro è formato da otto sezioni costruite su un terreno grande quanto otto campi da calcio, ogni due sezioni limitrofe ci sono muri con filo spinato alti tre metri. L’intera struttura è circondata da un muro alto nove metri, con diciannove torri di guardia, sopra il muro una recinzione elettrica alta tre metri su cui scorre elettricità a quindicimila volt. Nel raggio di due chilometri è impossibile ogni comunicazione radio e appena fuori dal muro esterno c’è uno rumoroso strato di ciottoli. Il perimetro è pattugliato da seicento soldati, all’interno ci sono duecentocinquanta guardie carcerarie (tutte mascherate per evitare ritorsioni) che lavorano per cinque giorni, alternati a cinque di riposo. Il carcere gode di autonomia fino a una settimana, sia per quanto riguarda l’elettricità che per il sistema fognario. Le visite ai prigionieri sono proibite. Ogni sezione si compone di trentadue celle di circa cento mq ognuna, ogni cella contiene ottanta detenuti ma può arrivare a centocinquanta. Ogni detenuto ha dunque poco più di un metro quadrato di spazio personale. Non c’è un sistema di ventilazione e non ci sono cortili per l’ora d’aria. In ogni cella ci sono due piccole vasche per i bisogni corporali e la pulizia. Per tutto questo, e per bere da un barile di acqua, ci sono a disposizione un mestolo e un catino di plastica. Si dorme in letti a castello di metallo su quattro livelli, senza cuscini e materassi. La dotazione di ciascuno comprende un lenzuolo, un paio di ciabatte, un paio di calzini, pantaloni corti, una maglietta e un asciugamano, tutti bianchi. Ogni due settimane i prigionieri vengono rasati. I detenuti sono coperti quasi integralmente di tatuaggi (volto compreso), che indicano l’appartenenza alle due maggiori gang che spadroneggiavano nel Paese: MS-13 e Barrio 18. Un tatuaggio di tre lacrime significa che il prigioniero non sa neppure quante vittime ha ucciso, altri disegni sono lapidi per i compagni o parenti morti. Il passaggio sopra le celle è costantemente pattugliato da guardie armate e un sistema di telecamere a riconoscimento facciale e sensori tiene costantemente sotto controllo ogni angolo delle celle. La luce al neon illumina gli ambienti notte e giorno. Quando dormono i prigionieri usano gli asciugamani per coprirsi gli occhi. I detenuti possono uscire dalla cella trenta minuti al giorno per seguire nel grande corridoio centrale lezioni tratte dalla Bibbia o fare ginnastica. Il cibo è invariato (fagioli, riso, tortillas) tutti i giorni. Non ci sono posate. Chi trasgredisce una regola, viene messo in una cella di isolamento fino a quindici giorni: uno stanzino di cemento buio, che prende aria e un filo di luce da un piccolo foro posto in alto. In una sala apposita i detenuti comunicano per videochiamata con il tribunale e i loro avvocati. Sono sempre presenti un medico e un’infermiera in un locale attrezzato. La totalità dei detenuti è condannata a morire in carcere.

Il Ministro della giustizia salvadoregno Gustavo Villatoro e la Segretaria per la sicurezza interna degli Stati Uniti Kristi Noem osservano i detenuti all’interno di una cella del CECOT, marzo 2025
La cosa più impressionante dei documentari girati all’interno del carcere, con un chiaro intento di propaganda all’azione governativa e per dissuadere i criminali ancora in libertà, è la fissità dello sguardo di questi giovani uomini in catene. La prontezza con cui obbediscono agli ordini (come quello di alzare la maglietta per mostrare i tatuaggi non visibili) e quel muoversi in gruppo a passi cadenzati, con gli stessi gesti, dicono il loro terrore. Sono ancora uomini? O sono automi? Il direttore del carcere, l’unico a volto scoperto, li indica e comanda come se fossero animali ammaestrati, ricordando continuamente agli intervistatori come siano spietati assassini che «hanno disposto della vita altrui come se fossero Dio». Probabilmente non si è mai chiesto se a sua volta non stia interpretando lo stesso ruolo, eseguendo gli ordini di un Dio vendicatore: Nayb Bukele, alle ultime elezioni, ha ottenuto l’85% dei consensi.
I numeri però non danno esattamente ragione al presidente sceriffo: ecco il trend degli omicidi a El Salvador: 2015 (6.656); 2016 (5.276); 2017 (3.962); 2018 (3.346); 2019 (2.398); 2020 (1.341); 2021 (1.085); 2022 (496)1. Anche volendo contare l’effetto pandemia, che però non sembra aver inciso molto su altri Stati limitrofi, la diminuzione dei crimini precede lo stato d’eccezione e l’edificazione del carcere, inaugurato nel febbraio del 2023, che in parte è dipesa, si dice, da un patto tra il presidente e le gang. Quando però nel marzo del 2022 in un solo fine settimana vennero uccise ottantasette persone (chi ruppe il patto, e perché?), Bukele dichiarò lo stato di eccezione e in pochi mesi fece arrestare circa cinquantamila persone.
Nel 1791, il filosofo Jeremy Bentham progettò un carcere, il Panopticum, costruito in modo tale che ciascun prigioniero fosse osservabile in ogni momento dal carceriere, posto al centro di una costruzione circolare, così da adeguarsi facilmente agli ordini ricevuti, sapendo di non potervisi sottrarre. Questo carcere totale, secondo Bentham, riproduceva il movente fondamentale della società umana, perseguire il piacere e sfuggire il dolore, secondo il principio di utilità: «Un provvedimento di governo […] può essere definito conforme al principio di utilità […] quando […] la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore di ogni sua tendenza a diminuirla»2.

Francesco Ghelardini
Cecot realizza in modo esemplare questo principio, mentre il nome di questo piccolo Stato, El Salvador, da riferimento cristiano, sembra ora attagliarsi meglio a chi ha salvato il popolo dalla criminalità, senza curarsi dei mezzi impiegati. Secondo il principio di utilità.
Cecot assomiglia ai nostri istituti penitenziari? Se sì, quali sono le somiglianze?
Ovviamente e fortunatamente, direi, in Italia non esistono strutture detentive così mastodontiche come Cecot, progettata per ospitare fino a quarantamila detenuti, un numero impensabile per le nostre carceri. Cecot è un carcere pensato per punire e annientare nelle azioni e nei pensieri il potere delle gang con metodi drastici, mentre il sistema carcerario italiano, pur con molte criticità, è orientato alla riabilitazione e al rispetto dei diritti umani. Cecot è noto per un approccio estremamente duro, con condizioni di reclusione che limitano al minimo i diritti dei detenuti, con un livello di controllo militare e sorveglianza h24, celle sovraffollate e nessuna privacy. In Italia, anche nelle sezioni di massima sicurezza (come il 41-bis), le condizioni sono comunque regolamentate e garantiscono un minimo di tutela ai detenuti. Nel Cecot i prigionieri vengono spesso mostrati pubblicamente in condizioni di degrado e totale sottomissione e questo contrasta con il principio di rieducazione della pena previsto dall’ordinamento penitenziario italiano. In Italia, le carceri rispettano norme sui diritti umani stabilite dalla Costituzione e dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Negli ultimi cinquant’anni le nostre carceri, pur con estrema lentezza, si sono evolute anche nelle strutture oltre che nell’ordinamento penitenziario, mentre a Cecot possiamo parlare di involuzione primitiva medioevale del concetto di detenzione.
Secondo te, cosa può accadere nel lungo tempo a ciascuno di quegli uomini se le condizioni di vita resteranno le stesse che abbiamo descritto?
Avendo io trascorso oltre vent’anni di detenzione in Italia, conosco bene gli effetti sul fisico e sulla mente che il carcere provoca, pur avendoli trascorsi in condizioni certo non paragonabili a quelli di Cecot. Quel tipo di detenzione porterà certamente, non solo nel lungo periodo ma anche nel breve, perché le condizioni psicologiche di ogni individuo sono differenti, a malnutrizione, malattie legate alle scarse condizioni igieniche, suicidi, violenze interne. Per non parlare delle condizioni sanitarie pessime che possono aumentare il tasso di mortalità tra i detenuti. Su questo aspetto immagino non avremo mai dati ufficiali da parte governativa su decessi, malattie e soprusi. Isolamento prolungato e condizioni estreme possono portare a depressione, ansia, paranoia e disturbi psichiatrici gravi, nonché all’aumento della violenza tra detenuti e abusi da parte delle guardie.
Per chi ha voluto Cecot, la pena è strettamente commisurata alla ferocia e alla pericolosità del comportamento precedente. Esiste per te, e se sì in che misura, una proporzione da rispettare tra il crimine commesso e la pena inflitta?
Sì, esiste una proporzione da rispettare tra il crimine commesso e la pena inflitta, ed è un principio fondamentale in molte teorie della giustizia e mi trovo piamente d’accordo. La pena deve essere proporzionata alla gravità del crimine. Il castigo è una forma di compensazione morale ed è finalizzato a ristabilire un equilibrio violato. Per esempio, un omicidio volontario dovrebbe essere punito molto più severamente di un furto ed è proprio quello che accade.
La proporzionalità è vista in relazione all’effetto preventivo e proiettata sull’aspetto riabilitativo della pena. L’obiettivo non è solo punire, ma anche ridurre la recidiva e proteggere la società. In questo senso, la pena potrebbe variare in base al contesto e alla possibilità di recupero del reo. La difficoltà sta nel bilanciare equità e deterrenza. Una pena troppo lieve potrebbe minare la fiducia nella giustizia e incentivare comportamenti criminali, una troppo severa potrebbe risultare ingiusta e disumana.
Cecot è una prigione o un lager?
Per il governo salvadoregno e i suoi sostenitori, Cecot è una prigione necessaria per combattere la criminalità e garantire la sicurezza pubblica. Per i critici, è un simbolo di repressione e violazione dei diritti fondamentali. Io penso che Cecot rappresenti, nella forma e nella direzione, tutto quello che il carcere non dovrebbe essere, e se per lager intendiamo un luogo di sterminio, Cecot a mio avviso annienta corpo e mente e quindi sì, lo considero un lager. Mi sembra che una struttura governativa come questa sia trasportata indietro in un tempo di senza social e comunque non in era moderna. Immagino che nulla trattenga quei governanti a eliminare fisicamente quegli uomini. Il livello di annientamento è tale che forse è preferibile la morte.
1 United Nations Office on Drugs and Crime, “Victims of intentional homicide 2015-2023”, dataunodc.un.org.
2 J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, UTET, Torino 2013, p. 100.