Il contributo che lo sport dà al tema dell’inclusione non è un fattore solitario, perché l’inclusione fa sempre il paio con la coesione, perché è un fattore che poi determina le condizioni sociali affinché l’inclusione possa essere apprezzata.

Da poco più di un mese anche la Costituzione parla dello sport, riconoscendone il valore educativo, sociale e di promozione del benessere in tutte le sue forme. Vorrei declinarlo su due fattori e due versanti che poi convergono sul tema dell’inclusione. Penso che lo sport sia prima di tutto una difesa immunitaria individuale perché evidentemente contribuisce in modo significativo al benessere della persona. Ormai la scienza ha stabilito che lo sport interviene anche positivamente sui telomeri che rappresentano un elemento determinante per la giovinezza della vita.

Ritengo però che lo sport sia anche una difesa immunitaria sociale: la persona che sta bene fisicamente è probabile che contribuisca al benessere collettivo. Lo sport è anche un catalizzatore di socialità e di umanità.

Tutto questo ho avuto modo di verificarlo in due elementi, uno di analisi quantitativa e uno di osservazione della realtà. Là dove l’indice di sportività è più sviluppato, migliore è la qualità della vita. È importante entrare nella dimensione dell’osservazione della realtà attraverso elementi oggettivi perché molto spesso dello sport si parla, dello sport si dicono tante cose: che avvicina le diversità, insegna il rispetto delle regole, educa alla focalizzazione sull’obiettivo e poi all’impegno, al sacrificio, allo sforzo. Tutte queste cose devono sostanziarsi anche con dei numeri che non siano numeri in un’ottica di economicità più puntuale della realtà.

Tra gli indicatori della sportività, indicatori oggettivi nelle province italiane, c’è una perfetta corrispondenza con l’indicatore della qualità della vita, è questo quindi che dobbiamo cercare di promuovere: una pratica sportiva effettivamente, di per sé stessa, catalizzatrice di socialità e di umanità.

L’esempio di Caivano

Non è un caso che l’impegno che abbiamo assunto a Caivano il 31 agosto scorso (il centro sportivo abbandonato Delphinia verrà smantellato e ricostruito da zero, ndr) dimostri plasticamente che quando mancano altri fattori che contribuiscono alle difese immunitarie del sociale, della famiglia, del lavoro, della cultura si determina una degenerazione sociale che non consente all’inclusione di consolidarsi, di affermarsi. Credo che da questo punto di vista, ripristinare questi pilastri per contribuire al rafforzamento delle difese immunitarie individuali e sociali, di fatto determina la necessità di includere, che non può essere soltanto una dichiarazione d’intenti, ma deve essere una pratica che si sostanzia con delle azioni quotidiane, con una strategia di breve, medio e lungo periodo.

A Caivano siamo partiti dallo sport e da un impianto sportivo abbandonato da 15 anni. Riteniamo che sia fondamentale che quella opportunità, come tutte le opportunità che sono un fattore di contrasto a tutte le forme di degenerazione sociale, possa essere ripristinata in un tempo breve e questo è un altro aspetto altrettanto importante: il tempo che passa tra l’impegno che si assume e il consolidamento di questo impegno. In dieci mesi riapriremo questo impianto totalmente abbandonato: un luogo di non inclusione, anzi di esclusione, di negazione della vita.

Caivano purtroppo è semplicemente l’emblema di una generazione, la sua attuazione e la sua rappresentazione in tante realtà della nostra nazione. Ce ne accorgiamo, forse, oggi in maniera più evidente perché più esplicito è stato il nostro impegno. A Caivano, in questi anni, in momenti distinti sono stati lanciati dai balconi due bambini, eppure nulla è stato detto o fatto. Negli anni passati, abbiamo assistito a una cronaca inquietante, devastante, nella completa indifferenza, un altro nemico.

Ancora, in questi anni sono stati uccisi nel tratto di strada che corre tra questo impianto, la parrocchia e le scuole, cinque persone in cinque anni, cinque esseri umani, al di là che fossero coinvolti con la criminalità organizzata o meno.

Lo sport per tutti

Usiamo dunque lo sport come fattore di inclusione, ma al tempo stesso di coesione, di educazione alle regole che deve partire dai luoghi dello sport per tutti e di tutti, come fattore di emancipazione, di alfabetizzazione sociale, come fattore di coesione che ricomprende anche l’inclusione. Da dove partiamo? Dai fattori di debolezza.

Abbiamo detto di Caivano, che rappresenta l’abbandono e dove c’è abbandono non ci può essere inclusione, si cerca solo di difendere la propria individualità. Ecco perché ritengo che inclusione e coesione debbano necessariamente sempre viaggiare insieme. Lo sport questo indubbiamente lo insegna perché è un sistema aperto, inclusivo, anche se qui in Italia parte già con un deficit: le scuole.

Le nostre scuole non sempre sono inclusive, non sempre sono un’opportunità per fare sport. Una scuola su due non ha una palestra. Il programma didattico sportivo è molto limitato e non sempre è accompagnato da una qualificazione del corpo docente. Nei primi tre anni della scuola primaria l’attività sportiva motoria è sviluppata da maestri specializzati in altre materie. Soltanto dalla quarta elementare, da quest’anno, si fa un’ora in più a settimana.

Se riuscissimo a capire che anche grazie a questo ingrediente, del quale ci ricordiamo solo quando si vincono le medaglie o le grandi competizioni, potremmo valorizzare le attività didattiche di base, riuscendo a sviluppare un’offerta sportiva, daremmo un ulteriore contributo per apprezzare l’opportunità di includere e soprattutto di rendere coesa una comunità più o meno grande, partendo dal benessere individuale per arrivare poi a quello collettivo.

Nel suo contributo, il ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi indaga, grazie a qualche esempio virtuoso, le opportunità di coesione e di integrazione offerte dallo sport a tutti i livelli: da quello dei primi passi praticato a scuola a quello professionistico che porta le medaglie.