«Il vasto Paese tra Europa e Asia e il suo popolo fiero ritornano spesso nelle opere dello scrittore italiano, benché il rapporto di Corti con la Russia rimanga a oggi quasi inesplorato», rileva Stefano Vergano, che in questo studio colma tale lacuna esaminando sia i testi letterari sia i diari e l’epistolario di Eugenio Corti. Evidenzia come la “rivoluzione di ottobre 1917” abbia suscitato nello scrittore brianteo un forte desiderio di andare in Russia. La partecipazione alla campagna di Russia durante la Seconda guerra mondiale gli permette di esaudire il desiderio: dapprima resta deluso dal carattere “indecifrabile” del paesaggio e della gente russa. L’inverno e la ritirata dell’Armir portano Corti a un incontro più concreto con la gente comune, di cui apprezza la dimensione religiosa e condivide la sofferenza. Nel Dopoguerra, Corti, che è impegnato in una dura critica al comunismo, inizia a conoscere la dissidenza russa del cosiddetto samizdat. Infine, nelle sue opere più tarde e della piena maturità, Corti valorizza la virtù russa connessa all’Ortodossia e vede in questo popolo l’unico autentico erede del mondo classico greco.

Il tempo della Russia è il tempo lungo delle praterie immortali, di boschi uguali a sé stessi. È il tempo dei millenni e della geologia, della Bibbia e dell’Ecclesiaste. È il tempo di chi sa aspettare, e adatta i suoi ritmi di vita al respiro lungo delle stagioni1.

Con queste parole evocative, Ernesto Ferrero, in un celebre romanzo dedicato alla figura di Napoleone, descrive il mondo interiore del paesaggio russo. Una distesa sterminata, geografica e spirituale allo stesso tempo, con cui si sono confrontati condottieri, avventurieri e scrittori.

Fra le tante personalità che hanno sfidato le steppe, lo scrittore italiano Eugenio Corti merita certamente un posto particolare. Protagonista della cultura del XX secolo, anche se tenuto nascosto da troppa critica letteraria, Corti ha vissuto e raccontato la sua esperienza sui campi di battaglia del fronte russo e la tragica ritirata dell’Armir. Il vasto Paese tra Europa e Asia e il suo popolo fiero ritornano spesso nelle opere dello scrittore italiano, benché il rapporto di Corti con la Russia rimanga a oggi quasi inesplorato, se non per alcuni aspetti secondari, di mero contesto narrativo degli scritti.

Il primo libro pubblicato da Corti nel 1948, il diario-racconto I più non ritornano, è completamente immerso nello scenario russo, gelido sfondo dell’interminabile fila umana dei soldati italiani in ritirata.

Nell’esordio letterario dello scrittore, le impressioni sul popolo russo sono largamente condizionate dal contesto bellico e da un confronto continuo fra tre diversi modi di intendere la vita militare, almeno secondo l’autore; l’italiano, il tedesco e il russo. L’epopea della ritirata è poi riproposta da Corti nella sua opera di maggior successo, Il cavallo rosso.

Nelle pagine del lungo romanzo, le riflessioni sulla Russia e la sua gente si fanno più numerose e profonde. Anche i diari di Corti sono una fonte davvero preziosa, i cui frammenti sono oggi pubblicati in diversi volumi, come Io ritornerò e Ciascuno è incalzato dalla sua Provvidenza.

Processo e morte di Stalin, unico testo teatrale dello scrittore, è anch’esso dominato dall’universo russo, ma l’interesse dell’autore, in quest’opera, è tutto concentrato su un’indagine critica del comunismo e sul valore di un’ideologia che non ha conosciuto confini geografici.

Inaspettatamente, l’opera in cui il rapporto personale di Eugenio Corti con la Russia traspare con maggior forza e chiarezza è Il medioevo e altri racconti, pubblicato in età ormai avanzata.

I giudizi taglienti della giovane età lasciano qui il posto a ricordi di incontri che soltanto a distanza di decenni hanno dato i loro frutti, con una riflessione matura e serena, non più conflittuale. Questi ultimi racconti dell’anziano scrittore riportano il lettore alle vicende del Secondo conflitto mondiale, da cui è bene ripartire per poter delineare compiutamente un rapporto tormentato, che ha segnato così in profondità l’attività letteraria di un gigante della letteratura del Novecento.

Un impatto deludente

Il mondo del giovane Eugenio Corti, brianzolo classe 1921, era rimasto traumatizzato e folgorato dall’esperienza del 1917, un evento di portata epocale che aveva lacerato e diviso le società europee. La realtà cattolica e contadina, in cui lo scrittore era immerso, oltre naturalmente all’antica classe dirigente liberale, vedevano la nuova stagione rivoluzionaria come un vasto movimento di violenza nefasta e distruttrice. Lo stesso evento, per una larga fascia delle classi lavoratrici, costituì invece un faro luminoso cui tendere, il sol dell’avvenire tanto atteso.

Pochi avvenimenti nella storia hanno lasciato un segno così indelebile nell’immaginario collettivo e Corti, studente all’Università Cattolica di Milano, sogna di poter vedere da vicino i risultati di quel gigantesco esperimento di ingegneria sociale.

Dai diari emerge tutta la sua sete di aspirante scrittore e cronista:

Per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio, operato dai comunisti. Volevo assolutamente conoscere la realtà del comunismo; per questo pregavo Dio di non farmi perdere quell’esperienza, che ritenevo sarebbe stata per me fondamentale2.

Ne Il cavallo rosso, il romanzo più celebre dello scrittore brianteo, l’autore dissemina nei personaggi principali molte delle sue esperienze personali e dei propri pensieri. Tra questi, Michele Tintori rappresenta l’alter ego intellettuale di Corti e molte pagine dei primi capitoli del romanzo sono dedicate all’ansia di Michele, in attesa della partenza per la Russia; alla sua sete insopprimibile di conoscere la Russia e di scrivere del suo popolo.

Voglio parlare con la gente comune russa, con gli operai, i contadini, con tutti. Questa è un’occasione straordinaria, unica.

Michele ripeté quasi a sé stesso:

Voglio vedere ogni cosa con questi occhi, non voglio limitarmi al sentito dire3.

I pensieri dello scrittore e l’anelito del suo personaggio si intrecciano e danno voce a un unico desiderio: partire per il fronte russo e vedere da vicino, finalmente, l’oggetto di tutte le dispute più accese dei due decenni precedenti.

Né Eugenio Corti né Michele Tintori hanno un’idea chiara di che cosa sia quello sterminato Paese che tanto desiderano conoscere; in loro si mescola un certo romanticismo per l’avventura, la curiosità spiccata delle migliori intelligenze creative e, specialmente in Corti, un forte sentimento di avversione nei confronti del comunismo. «Sentivo la guerra antibolscevica come una crociata»4, annota nei suoi diari.

Curiosità estrema per un mondo percepito come nemico, in quanto portatore di una visione della realtà radicalmente opposta a quella di Corti; il materialismo senza spirito del comunismo sovietico (frutto anch’esso, in realtà, dello slancio e della tensione ideale di un popolo che ha sempre avuto di mira, come valore ultimo, l’eterno)5.

Per lo scrittore, c’è un’altra ragione a fondamento della risoluta decisione di partire come volontario. Corti sente di non poter rimanere a studiare, mentre i suoi coetanei e le leve degli anni immediatamente precedenti vengono chiamati alle armi6.

Un senso del dovere radicato nel profondo, che non ha nulla, però, di guerrafondaio. Nel suo patriottismo afascista7, Eugenio Corti intende con determinazione dare il proprio contributo alle sorti della nazione in guerra.

La notizia della partenza è così motivo di una gioia autentica per lo scrittore:

Andavamo in Russia: che sapore di avventura; che gusto, al pensiero di terre lontane e sconfinate; che ansia, all’idea di entrare finalmente nei paesi che il muto, enorme, impenetrabile muro bolscevico aveva tenuto da tanto divisi dal resto del mondo8.

Il primo incontro con il mondo russo, dal vagone del treno militare, è con il paesaggio, carico di una straordinaria espressività, nel suo maestoso silenzio. Le impressioni dello scrittore non sono cariche di entusiasmo, la Russia per lui resta un mistero malinconico, fin da quando il treno arriva in territorio sovietico, senza che Corti ne sia ancora consapevole.

Nell’ambiente cominciai ad avvertire quel non so che di squallido e di desolato che più tardi divenne e si mantenne la caratteristica prima di ogni visione russa; e allora non sapevo di essere in Russia9.

In molte pagine dei diari emergono queste considerazioni su una natura indecifrabile, ma che conserva un’assoluta signoria sull’uomo:

Il paesaggio russo conservò il suo aspetto di sfinge. È una delle caratteristiche più terribili di questa terra quella di non scomporsi mai per le vicende degli uomini10.

Le prime descrizioni dei russi sono perfettamente in linea con il paesaggio in cui sono immersi i suoi abitanti; la costante lotta per la sopravvivenza in un ambiente inospitale ha forgiato il carattere di un intero popolo, che da sempre si regge su un peculiare fatalismo.

Sentii tutto l’orrore di quell’ambiente dalle linee gigantesche e disumane. Ecco, pensai, perché i russi non si sentono attaccati alla vita, perché muoiono con tanto fatalismo. Meglio i boschi, la semplice vita sotto gli alberi, vicino ai nostri cannoni; là c’era la natura sempre bella, dovunque; là non c’era la traccia delle disumanità del Bolscevismo11.

Compassione & sofferenza nel popolo russo

Anche ne Il cavallo rosso, Corti ripropone le medesime osservazioni sul popolo russo e sul loro scarso attaccamento alla vita, con affermazioni nette e sconvolgenti, nella loro brevità ed essenzialità: «I russi se ne fregano della morte»12.

C’è un grande distacco tra lo scrittore italiano e la realtà che tanto lo aveva affascinato. Sembra quasi che i primi mesi dell’esperienza sul fronte, segnati da una serena avanzata estiva, abbiano deluso le aspettative e che il mondo oscuro da esplorare, pur nella sua indecifrabilità, non sia più attraente. Di certo, Corti non mostra di sentire alcun coinvolgimento emotivo, né nei confronti del popolo russo, né nei confronti dell’ambiente circostante.

In questa prima fase, le annotazioni del soldato hanno un forte carattere militare e non lasciano spazio all’ispirazione poetica sognata. I russi restano i nemici.

Il freddo dei mesi invernali muta radicalmente il quadro. L’avanzata si arresta lentamente, fino al momento in cui i contingenti italiani percepiscono la dura realtà di quel conflitto, destinato a una tragica ritirata. Nei mesi che precedono la drammatica fine dell’Armir e durante gli scontri più diretti con il nemico, Corti conosce più da vicino gli abitanti dei villaggi russi e, d’improvviso, il popolo di cui aveva scritto in modo astratto e freddo prende corpo, con i primi veri incontri con la gente comune.

Il grande cambio di passo è tutto racchiuso in una pagina del diario del 31 luglio 1942, nella quale, per la prima volta, Corti commenta un aspetto che considera essenziale per la vita dell’uomo: la dimensione religiosa. Il fatalismo russo di cui tanto aveva scritto finisce per essere una componente di una forte visione religiosa, non del tutto cancellata dal regime bolscevico.

Ho avuto modo di rendermi conto un po’ da vicino della vita dei contadini di qui. Anzitutto, li ho trovati molto intelligenti, gente che ha sofferto molto, sotto i vari governi, dallo zarista al socialista; poi rassegnati. Ma non rassegnati di una rassegnazione brutta e inintelligente, bensì rassegnati religiosamente, come sarebbero in simili contingenze le donne della nostra Brianza ad esempio. Infatti, assolutamente al contrario di quanto avviene nelle città o centri industriali, i contadini, e soprattutto i più vecchi, sono molto religiosi, e adesso non c’è casa in cui non sia saltata fuori un’icona13.

Anche nel diario-racconto I più non ritornano, nel momento in cui gli scontri con il nemico si fanno più intensi, appaiono le prime valutazioni di compatimento per le sofferenze del popolo russo. Nella ricostruzione di quei giorni, tra il diaristico e il letterario, Corti tocca da vicino l’esperienza tragica della gente russa, in un’autentica epifania del dolore, osservando il cadavere dilaniato di un soldato nemico:

In lui mi parve di vedere tutto il popolo russo, che da tanti anni geme e soffre di dolori per noi inimmaginabili. Povero piccolo soldato russo!14.

L’incontro con i dissidenti

Il mutamento di visione di Corti non è però così radicale. Nonostante la comprensione per ciò che il dominio bolscevico – e prima ancora quello zarista – hanno rappresentato per le masse popolari, resta una certa diffidenza di fondo. Dopo l’8 settembre, il giovane ufficiale con la passione per la letteratura si ritrova in una situazione di totale confusione. La sua decisione di rimanere fedele al governo e alla monarchia è dettata anche dalla fortissima avversione per il comportamento dei soldati tedeschi, stigmatizzato innumerevoli volte in tutti gli scritti sugli anni della guerra. La convinzione della scelta è però controbilanciata dal disagio profondo nel ritrovarsi alleato dell’antico nemico, percepito ancora come pericoloso e totalmente estraneo: «Mi ripugna estremamente essere alleato dei russi»15.

Nel dopoguerra, Corti conduce una battaglia culturale anticomunista netta e aperta. L’opera teatrale Processo e morte di Stalin, andata in scena nel 1962, costituisce il culmine di questo impegno politico e morale.

Come già era emerso dai primi pensieri dei diari e dagli scritti giovanili, anche in questo caso Corti non mette al centro la Russia, ma si concentra esclusivamente sul bolscevismo e sulla sua figura più rappresentativa, emblema di un dispotismo feroce e, al tempo stesso, animatore della riscossa della grande guerra patriottica. Scarsa la risonanza nazionale di quest’opera, nata in un momento storico in cui il comunismo sovietico era fonte di profonda divisione nella società, spesso vessillo di molti esponenti del mondo della cultura e della critica16.

La vicenda dell’esordio sulle scene dell’opera teatrale è raccontata anche in alcune memorabili pagine de Il cavallo rosso, nelle quali è nuovamente Michele Tintori a prendere idealmente il posto di Eugenio Corti. La forte delusione per le polemiche politiche della critica non fa venir meno la gioia per gli incontri che Tintori ha con alcuni dissidenti russi rifugiati in Italia, i più entusiasti ammiratori dell’opera teatrale. Al lettore viene così svelato il mondo ricchissimo dei dissidenti russi, con la stampa e la letteratura clandestina: il celebre samizdat. In questo modo si dà rilievo a una Russia diversa e, soprattutto, si riflette sulla non totale coincidenza fra comunismo sovietico e Russia. Inizia un periodo di più di venti anni nel quale Corti studia con estremo interesse il vasto mondo della dissidenza russa e si avvicina alle opere straordinarie di Vasilij Grossman e Alexandr Solženicyn, due autori che hanno aperto la strada alle verità inconfessabili del regime17.

Una visione apocalittica & profetica

Il legame con il variegato universo del samizdat lo porta anche a conoscere e apprezzare la realtà di Russia Cristiana di padre Romano Scalfi e la sua casa editrice La casa di Matriona. A questo periodo risalgono anche contatti culturali e polemiche con autori russi. In un articolo pubblicato sul numero di novembre del 1983 di Studi cattolici18, Corti instaura un dialogo con uno storico militare sovietico, Georgij Filatov, studioso della campagna italiana di Russia e conoscitore de I più non ritornano. Lo scrittore replica piccato ad alcune citazioni, non del tutto fedeli, del suo diario-racconto e riafferma, ancora una volta, il grande valore umano e morale dimostrato dai soldati italiani, una tesi ricorrente in moltissimi scritti. L’aspetto più curioso, al di là delle argomentazioni forse troppo indulgenti nei confronti dei militari italiani, è che le opere di Corti, così poco pubblicizzate in Italia, fossero note e studiate dagli accademici sovietici.

L’ultima opera di Corti in cui si parla della Russia è Il Medioevo e altri racconti, una raccolta di scritti pubblicati in tarda età. Potrebbe sembrare un testo secondario, ma, inaspettatamente, il lettore trova qui gli spunti più profondi e importanti per indagare il rapporto di Eugenio Corti con la Russia. Ancora una volta, sono momenti concreti a offrire una visione più serena e obiettiva. Sono incontri di cui non v’è traccia in altri scritti, quasi Corti avesse voluto serbare gelosamente le narrazioni più significative per un’opera matura e riassuntiva.

In un giorno di luglio del 1942, al momento della distribuzione del rancio, tre bambini russi19 affamati si presentano al tenente Corti. Da quel momento, per un mese intero, l’ufficiale italiano distribuirà viveri e beni di prima necessità ai piccoli del luogo, fino al momento in cui le truppe italiane si sposteranno per procedere con l’avanzata. Il papà, confessano i bambini, è un soldato dell’Armata rossa, contro cui Corti è chiamato a combattere. Lo scrittore non si dilunga su questo aspetto, limitandosi a ricordare che nel giro di un mese il gonfiore dell’addome dei bambini denutriti era nettamente migliorato, grazie alla parte di rancio lasciata loro. Un semplice gesto di umanità e un dialogo con persone in carne e ossa, dopo tante riflessioni astratte sull’essenza dei russi e sul loro temperamento.

Sempre nell’estate del 1942, Corti incontra un personaggio enigmatico, un vecchio russo claudicante, vestito da mendicante, che si aggira tra i cannoni italiani puntati contro il fronte nemico20. Il vegliardo cammina con passo stentato reggendosi su un bastone, finendo inconsapevolmente in una zona militarizzata. La reazione dei soldati italiani oscilla tra la pena e il sospetto; si potrebbe trattare di una spia. Corti cerca di instaurare un dialogo con il misterioso personaggio, ma lo scambio con il vecchio è difficoltoso. La ragione dell’incursione tra i cannoni, ancora una volta, è la fame. Nonostante l’assurdità di ricercare del cibo in mezzo ai cannoni, Corti crede al russo, gli offre del pane e lo lascia tornare indietro. Il viandante, stupito dal gesto del soldato nemico, si inginocchia, bacia i piedi dell’ufficiale e riprende il cammino. La scena appare ammantata di un forte simbolismo. Il vecchio ramingo richiama alcuni dei più tipici personaggi del mondo russo, come i folli in Cristo, esponenti del movimento più radicalmente ascetico dell’Ortodossia21. Il loro vagare tra la gente, con comportamenti apparentemente insensati, immortalato in molti opere della tradizione pittorica russa, come il celebre quadro di Pavel Svedomskij, sembra il modello del curioso comportamento del viandante. Il vecchio taciturno, vestito di abiti logori, ricorda anche l’anziano del romanzo Resurrezione, nel quale la figura del vecchio canuto non è altro che l’autoritratto di Tolstoj22.

I due brevi racconti degli incontri e dei dialoghi con i tre bambini e l’anziano rendono più autentica la testimonianza di Corti sulla Russia, attribuendole volti e storie di vita; «i casi di allora, le persone, una parte della nostra vita»23.

Il Medioevo e altri racconti si chiude con una visione apocalittica di Eugenio Corti, tra sogno profetico e finzione letteraria. Anche nelle pagine conclusive dell’ultima opera dello scrittore la Russia trova il suo posto, segno dell’importanza dell’esperienza della guerra24. Corti vede in sogno il giorno del giudizio; si avvicinano, fra le immense schiere dei defunti, due lunghe colonne. Sono le vittime dei regimi totalitari del XX secolo. In una fila le vittime del nazifascismo e nell’altra quelle del comunismo. Corti riconosce i visi dei contadini russi e, nel sogno dell’ora suprema, prova una grande compassione per un popolo fiero e indomito, soggiogato da una nefasta tirannia. Nella visione onirica compare poi una terza colonna, inferiore per numero alle precedenti. A marciare verso la salvezza sono coloro che hanno subìto i soprusi di entrambi i regimi mortiferi del Novecento, i polacchi e gli uniati ucraini.

Tra la folla si fa avanti un vescovo, ucciso dai sovietici dopo aver subìto la persecuzione nazista, con il quale Corti aveva avuto un incontro negli anni di guerra. Tra i due inizia un dialogo sull’origine morale e culturale dei totalitarismi e lo scrittore fa pronunciare al vescovo parole di straordinaria ammirazione per le suore ortodosse russe che gli hanno offerto una degna sepoltura, rischiando in prima persona per il loro gesto. Il ricordo dei religiosi russi, in particolare le donne, che hanno patito il processo di violenta ateizzazione della società, è l’ennesimo gesto di riconoscimento alle virtù del popolo russo nell’ultima opera dello scrittore.

Prima che il vescovo e le schiere dei martiri vengano assunte in Cielo, Corti ha ancora il tempo di ricordare che per lui i russi sono gli unici autentici eredi del mondo classico greco. In nessuna delle opere precedenti era mai emerso un giudizio di questo tipo, specialmente negli scritti giovanili, nei quali la conflittualità con il mondo russo tanto traspariva. Non c’è nessuna contraddizione nella ricchezza delle tante diverse riflessioni sull’universo russo, ma soltanto un lungo percorso che ha segnato l’intera opera letteraria di Eugenio Corti, fino alle sue ultime pagine. È significativo che l’ultimo racconto pubblicato dallo scrittore, antico nemico incuriosito dall’enorme portata dell’esperimento rivoluzionario, contenga un tributo così sentito al popolo russo ed è difficile non vedere una correlazione con uno degli ultimi grandi gesti di san Giovanni Paolo II. Nell’estate del 2004, il Papa polacco donò al Patriarca di Mosca l’icona della Madonna di Kazan, restituendo al popolo russo l’icona più venerata; straordinario omaggio alla Russia e alla spiritualità ortodossa da parte di un uomo che apparteneva a un popolo da sempre in lotta con i russi.

1 E. Ferrero, N., Einaudi, Torino 2021, p. 251.

2 E. Corti, Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza, Ares, Milano 2021, p. 235.

3 Idem, Il cavallo rosso, Ares, Milano 2019, p. 130.

4 Idem, Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza, cit., p. 202.

5 «Il russo non fa altro che guardare all’eternità: basta dargli l’eternità e lui è contento» – parole di Rozanov, riportate nel saggio introduttivo di Natalino Valentini a P. Florenskij, La mistica e l’anima russa, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, p. 11.

6 «Non è giusto, vi pare, che mentre tutti i giovani della mia età, di quasi tutte le nazioni, sono coinvolti in questa grande prova, io ne rimanga fuori». Dalla lettera di Eugenio Corti ai genitori, 9 giugno 1942, riportata in E. Corti, Io ritornerò. Lettere dalla Russia 1942-1943, a cura di A. Rivali, Ares, Milano 2015, p. 29.

7 Giovane soldato, Eugenio Corti non fu un oppositore del regime. Alle ragioni anagrafiche si intrecciano motivazioni espresse in svariate occasioni in interviste e scritti. Secondo lo scrittore, la realtà brianzola del tempo era rimasta indifferente al fascismo, permanendo essenzialmente legata all’antica tradizione religiosa cattolica. La gente di quelle zone, semplicemente, non sentiva il bisogno del fascismo e della sua retorica esasperata, sebbene non disdegnasse il tramonto delle aspirazioni, talvolta violente, del comunismo e del socialismo massimalista. A supporto di questa lettura, che a tratti pare cadere in una certa indulgenza nei confronti del fascismo, Corti amava riportare un dato interessantissimo. Nel 1924, alle ultime elezioni libere, anche se già viziate dalla legge Acerbo, da brogli e violenze, il Pnf, che a livello nazionale ottenne quasi il 65% dei suffragi, raccolse nella circoscrizione di Monza e Brianza un misero 16%, dato fra i più bassi di tutte le circoscrizioni elettorali. Lo scalpore per lo scarso risultato fu tale che la sezione locale del Pnf realizzò un manifesto dal titolo emblematico e polemico: Russia o Italia? Dopo l’armistizio, Corti si arruolò volontario nel Corpo italiano di liberazione, contribuendo alla liberazione del Paese dall’occupazione nazifascista, avventura raccontata nel romanzo Gli ultimi soldati del re. Il ruolo storico dei corpi rimasti fedeli alla monarchia dell’Italia liberata e al governo Badoglio non è entrato nel mito della Resistenza quanto le gesta delle brigate partigiane e questo distacco ha probabilmente contribuito a produrre, in una parte d’Italia non trascurabile, una certa disillusione nei confronti di una narrazione assurta a momento fondativo della Repubblica; disillusione che Corti ha manifestato con vigore per tutta la sua vita.

8 E. Corti, Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza, cit., p. 148.

9 Ivi, pp. 176-177.

10 Ivi, p. 255.

11 Ivi, p. 265.

12 Idem, Il cavallo rosso, cit., p. 153.

13 Idem, Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza, cit., p. 113.

14 Idem, I più non ritornano, Ares, Milano 2013, p. 112.

15 Idem, Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza, cit., p. 402.

16 Mario Apollonio, grande critico letterario e teatrale, fu anche in quest’occasione una voce fuori dal coro, e pubblicò una recensione appassionata di Processo e morte di Stalin, riconoscendo lo straordinario valore dell’autore. Il testo della recensione è ancora disponibile al seguente link: www.eugeniocorti.net/?p=203

17 Gran parte dei riferimenti ai due grandi scrittori russi, molto stimati dall’autore, sono contenuti nei saggi raccolti in E. Corti, Il fumo nel Tempio, Ares, Milano 2022, in particolare alle pp. 25, 26, 31, 32, 114, 127-132.

18 L’articolo fa parte del volume Idem, Il fumo nel Tempio, cit., pp. 197-206.

19 Si tratta, in realtà, di una famiglia ucraina, ma Corti, vista anche l’unità geografica del tempo, utilizza indistintamente il termine russo per designare gli abitanti di tutto il territorio sovietico. Il racconto dell’incontro è riportato in Idem, Il Medioevo e altri racconti, Ares, Milano 2008, pp. 95-97. L’episodio è riportato anche in Idem, Il fumo nel Tempio, cit., pp. 252-254.

20 Il racconto dell’incontro è riportato in Idem, Il Medioevo e altri racconti, cit., pp. 98-101. L’episodio è riportato anche in Idem, Il fumo nel Tempio, cit., pp. 255-258.

21 Nei diari Corti fa più volte riferimento al fatto che il vagabondare sarebbe una caratteristica tipica dei russi. «I Russi, tutti, hanno nell’anima l’istinto del vagabondo» (Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza, cit., p. 196). «Più che mai qui risaltava la caratteristica propria di tutte le abitazioni russe: qualcosa di fragile e temporaneo e poco duraturo, e trascurato. L’anima del russo è rimasta malgrado tutto quella di un nomade» (ivi, p. 242).

22 P. Citati, Tolstoj, Adelphi, Milano 1996, p. 318.

23 E. Corti, Il Medioevo e altri racconti, cit., p. 95.

24 Ivi, pp. 182-187.