Alla sua morte, sulle pagine del Times Winston Churchill firmava il necrologio: «Rupert Brooke è morto. Abbiamo sentito una voce […], la più capace a rendere giustizia alla nobiltà della nostra gioventù in armi. […] Quella voce è stata messa presto a tacere. Solo gli echi e le memorie sopravvivono; ma questi dureranno».

Quando la morte iniziava per lui a diventare più di una fantasia poetica, dalla nave che doveva portarlo a conoscerla davvero alla vigilia della campagna di Gallipoli, Rupert Brooke scriveva a Catherine Cox: «Bimba cara, […] forse qualcuno vorrà scrivere la mia biografia! Come potrò saperlo se non diventerò celebre? If I shan’t be eminent?». La domenica di Pasqua 1915 il decano di Westminster avrebbe letto dal pulpito il suo quinto sonetto di guerra Il Soldato. Così il “mito” aveva inizio.

Nel suo tributo, le volute di retorica churchilliana proseguivano in bagliori patriottici, facendo leva sul sentimento nazionale degli inglesi, in una guerra che agli inglesi stava chiedendo un prezzo altissimo. Il Primo Lord dell’Ammiragliato cavalcava la scia dorata del “mito Brooke”: «Vivace, coraggioso, versatile, di cultura profonda e classica simmetria tra mente e corpo, era tutto ciò che ci si aspettava di trovare nei più nobili figli d’Inghilterra in un tempo in cui non si può accettare sacrificio alcuno se non il più prezioso, e il più prezioso è quello più liberamente offerto».

Avevano ragione entrambi, sia Brooke sia Churchill. Per ragioni opposte: l’abile uomo politico – che comunque stimava e invitava spesso il giovane a Downing Street – aveva avviato la costruzione di una leggenda, duratura, abbagliante, impastata di mezze verità, e il vero Rupert Brooke sarebbe ugualmente diventato “celebre”, eminent (fornendo, tra l’altro, l’aggettivo all’acuto volume di Lytton Strachey).

Gli echi della sua voce sarebbero «rimasti per sempre»: morendo Rupert Brooke intagliava il proprio nome a lettere indelebili nella memoria di una generazione, i riverberi spinti a toccare le generazioni a venire.

Amato da Churchill, Lawrence, Yeats

Ma chi era stato davvero, Rupert Brooke? Il poeta apprezzato da Henry James e da Eddie Marsh, curatore della prima antologia di poesia Georgiana (nonché suo futuro esecutore testamentario), da Herbert Asquith e da Churchill, ammirato o quasi idolatrato da D.H. Lawrence e E.B. Yeats? Il “giovane Apollo” dei versi di Frances Darwin – nipote di Charles – lo studente con una scintillante carriera di studi classici e popolarità in vari sport? L’animatore di circoli e società letterarie, dagli Apostoli alla Marlowe Society da lui fondata, dall’impegno nella Fabian Society universitaria alla frequentazione di Bloomsbury? Il dandy di fascino byroniano attraente come un magnete e la grazia di una leggenda vivente, con visioni di campi verdi e abiti bianchi sui campi da cricket di Cambridge? O il giovane soldato che allo scoppio della Prima guerra mondiale si arruolava volontario, l’ennesimo sacrificio a un’epoca affamata di eroi in una guerra d’inaudita violenza e ferocia? Colui che non sarebbe tornato, come invece riuscì a Septimus Warren-Smith, sebbene con la mente per sempre devastata dagli orrori delle trincee?

O ancora il poeta innamorato di Keats e Milton, di John Donne e Marvell? Il ragazzo che aveva scelto una casa di campagna a Granchester per scrivere, il prato disseminato di fogli coperti di scrittura aerea, indipendente, vegetariano ante litteram, a cui piaceva camminare a piedi nudi e nuotare sotto la luna nel fiume Granta?

Rupert Brooke era un poco tutto questo. E anche un giovane talvolta freddo e fragile, assediato da insicurezze e paure: non solo il golden boy dei più originali intelletti oxbridge, l’eroe infervorato d’idealismo andato troppo giovane a morire per la patria, ma un poeta ragazzo che aveva espresso tanto e al quale, tuttavia, tanto di più era stato precluso.

«Un uomo è ciò che ama», secondo Josif Brodskij: un poeta, in sostanza, è per gran parte la somma degli autori che ama.

A parte i sonetti di guerra, apparsi postumi nella raccolta 1914 and Other Poems, che gli portano la gloria rendendolo l’eroe nazionale in un momento in cui l’Inghilterra è in pericolo, Rupert Brooke pubblica la prima raccolta Poems 1911 e l’anno dopo, con Edward Marsh, l’altra raccolta epocale Georgian Poetry 1911-1912.

Un forte, emozionale influsso keatsiano si sente fin dal volume del 1911: Brooke ama Keats, se ne imbeve, i suoi versi ne rimandano spesso gli echi come riflessi di specchi. La ricerca della solitudine, la felice reclusione nella natura lontano dalla «pazza folla» di frequentazioni umane e città, la porta aperta sul giardino di alte erbe spontanee, il coinvolgente senso totale di fuga e rifugio tra alberi, campi e corsi d’acqua, a momenti la marea di una stanchezza che invade e sommerge:

Vorrei dormire, e vorrei dormire!

(Retrospect)

Affascinato da John Keats

Un «vuoto e silenzio» (The Vision of the Archangels) che sembra a tratti la voce di John Keats, riemersa un secolo dopo: «che io possa […] lasciare non visto il mondo» e «Svanire, dissolvermi, e dimenticare« (Ode Nightingale).

L’impermanenza dell’uomo, la transitorietà della bellezza che ha piccoli piedi sempre in fuga, la visione di tutto ciò che passa e non tornerà, «lo splendore e la pena» (I Chilterns), danno immagini spoglie di senso, se non nell’attimo “eterno” della poesia:

 

La Gioia con la mano sempre sulle labbra

Per dire addio (Ode on Melancholy)

Così sempre Keats. E Brooke:

Quel che è passato non lo ritroverò,

Lo splendore e la pena;

Il getto di sole, l’urlo del vento,

E la puntura coraggiosa della pioggia,

Potrò forse non rivederli.

Ma contro il mutevole e mortale, Brooke recupera pace nell’idea della natura immutabile, e nella capacità di sogno e desiderio di poter “ricreare” quanto è scomparso. E dunque – quasi inaspettatamente – gli anni, «che si portano via il meglio, / restituiscono infine qualcosa»:

Cercherò e troverò

I migliori tra i miei desideri;

La strada d’autunno, il vento dolce

Che culla le contee che s’oscurano.

E le risate, e i fuochi nelle taverne.

Foschia bianca sopra siepi nere,

La sonnolenta distesa dei Midland,

Il silenzio dove cresce il trifoglio,

E le foglie morte nel vicolo,

Certo, questo rimarranno. (I Chilterns)

Gli è congeniale la lieta enumerazione delle sue gioie, di ciò che lo rende felice e che fa di lui un poeta, la sua aspirazione a guardare “oltre la siepe”. I «migliori tra i miei desideri» ce li presenta anche per immagini in contrasto: il buio che prende la strada d’autunno e il fuoco nelle taverne, il biancore della foschia sulla siepe nera, il trifoglio che ricrescerà e le foglie morte. Il verbo finale – «rimarranno» – conclude e rassicura la ricerca, quasi un interrogativo dalla risposta incerta del primo verso. Altrove il mood è più cupo. In questo quasi calco da Keats il cumulo d’oro d’ideale e di sogno rimane inviolato agli uomini, destinato a perdurare solo nel mondo delle idee, non sulla terra:

… ma il meglio che ho conosciuto,

Rimane qui, e cambia, s’infrange, invecchia sparso

Dai venti del mondo, e svanisce dalla mente

Degli uomini, e muore.

Nulla rimane (The Great Lover)

John Keats aveva inseguito l’immortale volo dell’usignolo consapevole che sulla terra nulla, invece, sopravvive.

Dove vedeva:

La stanchezza, la febbre, e l’ansia

Qui, dove gli uomini siedono e sentono i gemiti degli altri;

[…] Dove la giovinezza diventa pallida, spettrale e muore (Ode to a Nightingale)

Un mondo stanco, pieno di dolcezza

Nella tensione vitalità-mortalità, l’antitesi tra stanchezza del mondo e attaccamento alle dolci cose del mondo trovava, precario, labile ma possibile, un equilibrio. Brooke le raduna nei propri versi, tutte queste cose mortali, come un’offerta: sono quelle che gli permettono di sfuggire «gli inesorabili piedi d’ombra» della morte. Non importa se il voto poetico può incendiare per l’eccesso di luce l’offerente:

Solo con la Terra eterna, e Notte,

E Silenzio, e il caldo strano odore del trifoglio;

Chiara è la visione, seppure ti annienta

Premio finale a chi ha creduto nella sua presenza, oltre ogni timore o inquietudine:

E la luce, / Che ritorna, restituirà le ore d’oro (Second Best)

Raccolta giovanile è, certo, questa del 1911: alla pubblicazione il poeta ha ventiquattro anni. Contiene immagini classiche, forse a volte un poco derivate dallo studio di altri poeti, e ciònonostante il punto centrale e la ricerca di molte liriche non è solo la convinzione che la vita, l’amore e la gioia siano un bagliore effimero, ma anche l’idea che il tempo, questo «cielo senza occhi» (The Life Beyond) li trasformi – inesorabilmente – nel loro opposto, nella morte, nell’odio e nel dolore.

Di là dalla barriera di dubbio, instabilità e incertezza, di tutto quanto è sulla terra il poeta non può fare a meno:

Possa sempre il Tempo trattenere uno spazio d’oro

Dove io possa aprire quella riserva profumata

Di canto e fiori e di cielo e visi,

E tenerne il conto, e toccarli, e di nuovo estrarli,

Meditando su di loro (The Treasure)

Così, si tiene stretto il suo «tesoro», indugiando «nei sobborghi del cielo» presso il suo «sogno dorato» (Choriambics – II). A custodire con il proprio amore quella «riserva profumanta».

The Great Lover è tra le liriche più note. «Colui che tanto ha amato» è Brooke è al suo meglio, quando la leggerezza non ne ostacola i passi e la poesia fa affiorare una semplice serie di cose amate, come i bambini che allineano i giochi sulla sabbia. Serie che sfiora forse il prosaico ma essenziale nella sua sorridente semplicità. Ogni verso in questa lirica è vivido. Sensazioni, colori e suoni ci sono enumerati «uno dopo l’altro, come assaggiare un dolce cibo», con una forza che ha l’opulenza del Medioevo vittoriano di Keats. Tutto possiamo vedere, toccare, sentirne l’aroma:

Queste cose ho amato:

Piatti bianchi e tazze, splendenti di pulito,

Cerchiate di blu; e polvere piumata, fatata;

Tetti bagnati, alla luce dei lampioni; la crosta forte

Del pane amico; e il cibo saporoso;

Gli arcobaleni; e il fumo azzurro-amaro del legno;

E gocce di pioggia lucide adagiate tra fiori freddi;

E anche i fiori, che oscillano in ore di sole,

Mentre sognano falene che li suggono alla luna;

Poi la fresca gentilezza delle lenzuola, che subito

Leviga ogni pensiero; e il maschio rude bacio

Delle coperte; massicce nuvole blu; (…)

La benedizione dell’acqua [bollente; pellicce da toccare;

L’odore buono di vecchi abiti; e altro ancora –

L’odore confortante di dita amiche,

La fragranza dei capelli, e l’odore stantio che indugia

Sulle foglie morte e le felci di un anno fa

Cari nomi,

E altri mille mi si affollano intorno!

Il viaggio in America

Sono “cari” davvero, questi nomi. Anche di più adesso, perché l’autore si trova lontano dall’Inghilterra. Inquieto, avido di movimento e novità, nel 1913 Rupert infatti è partito: quasi a sorpresa si è imbarcato ed è andato in America, in Canada, ha visto New York e San Francisco. Il Weekly Magazine gli ha chiesto degli articoli di viaggio. Improvvisa, prende poi la decisione di andare nei mari del sud: il 1914 lo vede a Honolulu, alle Hawaii e alle Fiji e, dopo un breve giro in Nuova Zelanda, a Tahiti. Là si ferma tra gennaio e aprile 1914 e scrive questi e altri versi.

Insonne nella notte tropicale densa di rumori di rami, oceani e uccelli, cuore e mente tornano a immagini del nord, alla fredda e brumosa ma sempre amata isola verde:

Fiamme regali;

Dolci fossette nella risata d’acqua di brocca o fonte;

Buchi nel terreno; e voci che cantano;

Voci che ridono, anche; e il dolore fisico,

Che presto diventa pace; e l’affannoso respiro del treno;

Sabbie compatte; il piccolo orlo di schiuma che si smorza

Bruno e fluttuante sull’onda che torna a riva;

E sassi slavati, lucidi per un’ora; la fredda

Austerità del ferro, forma di terra umida e nera;

Il sonno, e le altezze; orme nella rugiada;

E le querce, e bruni ippocastani lucenti ancora;

E legni mondati della scorza, e scintillio d’acqua nell’erba –

Tutti questi sono stati i miei amori.

Accade spesso nella sua poesia: il sorriso e la leggerezza, persino la lieve autoironia arretrano presto in sottofondo e anche lui, che li ha appena pronunciati, questi suoi «amori», se ne sente commosso.

Perché tutto muore e scompare, anche gli esseri e le cose più amati li incenerisce, prima o poi, il silenzio della fine. Il lascito finale, quando tutto sarà andato e avrà attraversato la soglia invalicabile dell’«ora grande», sarà la passione di lui, che ha saputo amare:

E passeranno,

Qualsiasi cosa rimanga, nell’ora grande,

Ché tutta la mia passione, tutte le mie preghiere non potranno

Farli restare con me attraverso i cancelli della Morte.

Giocheranno al disertore, con il respiro di chi tradisce,

Spezzeranno i nobili vincoli nostri, la fiducia dell’Amore

E la sacra alleanza ceduti in polvere.

– Oh, mai un dubbio ma, in qualche luogo, mi risveglierò

E restituirò quel che mi resta d’amore, e avrò

Nuovi amici, adesso stranieri…

Ma il meglio che ho conosciuto,

Rimane qui, e cambia, s’infrange, invecchia sparso

Dai venti del mondo, e svanisce dalla mente

Degli uomini, e muore.

Niente rimane.

O amori miei cari, O infedeli, una volta ancora

Quest’ultimo dono offro: che quando gli uomini

Sapranno, e poi gli amanti, separati,

Vi loderanno, “Erano tutti splendidi”; dicano: “Lui ha amato”.

A Tahiti Rupert s’innamora dell’isola e di una ragazza dell’isola. Taatamata diventerà Manua in Tiare Tahiti, una delle sue liriche d’amore più belle. Per Manua usa un metro che ha iniziato a prediligere, sequenza magica di ottosillabi rimati. Lo stesso metro usato da Shelley nelle sue poesie d’amore per Jane Williams e da Marvell nel celeberrimo To his Coy Mistress, Alla sua ritrosa Signora:

Manua, quando le nostre risate avranno fine,

E i cuori e i corpi, bruni o bianchi,

Saranno polvere presso la porta degli amici,

O profumo che spira nella notte,

Allora, sì! allora, i saggi concordano,

Verrà la nostra immortalità.

Manua, ci attenderà una terra

Difficile da comprendere.

Fuori del tempo, oltre il sole,

Tutti saremo un unico essere in Paradiso

(…). Ma ci mancheranno

Le palme, e il sole, e il sud…

Da questo “idillio” polinesiano Francis Scott Fitzgerald trarrà, com’è noto, il titolo del suo primo romanzo, This side of Paradise, Di qua dal Paradiso. Qui gli echi marvelliani brillano al sole dei Tropici:

Avessimo Mondo abbastanza, e Tempo,

Non sarebbe un delitto, Signora, questa Vostra ritrosia.

Potremmo sederci a pensare quale strada

Prendere e come trascorrere il nostro lungo giorno d’amore.

(…) Ma alle mie spalle io continuamente odo

L’alato Carro del Tempo che s’avvicina veloce,

E laggiù, per ogni dove, davanti a noi si stendono

Deserti di vasta eternità.

La Vostra bellezza, così, non sarà più ritrovata,

Né, nel Vostro sepolcro di marmo, potrà

Più echeggiare il mio canto (…)

E in cenere si cambierà tutto il mio ardore

(…) Godiamo adesso finché ci sarà dato,

E adesso, come amorosi uccelli da preda,

Divoriamo veloci il nostro tempo

(…) Cerchiamo d’addensare tutta la nostra forza e

La nostra dolcezza in una Sfera,

E con rude violenza gettiamo le nostre gioie

Oltre i cancelli di ferro della Vita:

Così, pur non potendo obbligare il nostro sole a

Fermarsi, possiamo tuttavia obbligarlo a correre.

La passione per Donne e i metafisici, di cui Brooke è diventato appassionato lettore, punteggia i versi di dettagli realistici, pungenti, quasi crudi: i «cancelli di ferro della vita» diventano per lui «i cancelli della Morte», la «cenere di Marvell» diventa «polvere», i «deserti di vasta eternità», diventano un oltre vita di «una vita / Difficile da comprendere». Ma soprattutto è il ritmo del verso a essere identico: e il ritmo, sempre, convoglia il senso.

Inghilterra mistica

Arruolatosi volontario, Rupert Brooke muore il 23 aprile 1915 di setticemia, mentre la nave della Royal Navy lo sta portando ai Dardanelli. Nemmeno due settimane prima, la congregazione di Westminster Abbey ha ascoltato l’anticipazione della sua morte in The Soldier.

Enfatici, i versi coagulano tuttavia un’esaltazione palpabile che cattura in una rete di parole il sentimento nazionale del momento. L’incantatorio “basso continuo” sulla parola “Inghilterra” e l’aggettivo “inglese” amalgama e introietta “corpo” e “spirito” e innalza le immagini in sicura progressione tematica fino a una sola, dominante: l’Inghilterra mistica. Spazio sacro in cui le madri e i padri, i fratelli e le sorelle di tutti coloro che sono partiti e sono morti possono identificarsi uniti:

Se dovessi morire, pensate solo questo di me:

Che c’è un angolo di campo straniero

Che sarà per sempre Inghilterra. Ci sarà

In quella ricca terra una più ricca polvere nascosta;

Una polvere dall’Inghilterra generata, formata, resa consapevole,

A cui donò, un tempo, i suoi fiori da amare, i suoi sentieri da percorrere,

Un corpo d’Inghilterra, che respira aria inglese,

Lavato dai fiumi, benedetto dai soli di casa.

E pensate che questo cuore, bandito da sé ogni male,

Un palpito nello spirito eterno, in qualche luogo

Renderà i pensieri dall’Inghilterra avuti in dono;

I suoi sospiri e suoni, i sogni felici come il suo giorno;

E la risata, appresa dagli amici; e la dolcezza

Di cuori in pace, sotto un cielo inglese.

Rupert Brooke non farà in tempo a conoscere il massacro e l’inferno delle trincee, la spaventosa carneficina del Fronte Occidentale che cambia completamente il punto di vista dei giovani poeti sulla guerra. Diversamente da altri suoi compagni poeti in armi – Siegfried Sassoon, Wilfred Owen e Isaac Rosenberg – non scriverà i loro versi pregni di amarezza, disillusione e scabra dissonanza per la mostruosa futilità della sofferenza e disperazione delle truppe.

Nemmeno lui, comunque, pare aver considerato molto questa serie di sonetti, These five camp children,, «questi cinque bambini da campo», come li definisce per lettera a Catherine Cox, l’eterna confidente. In ogni caso, i sonetti di guerra fanno di lui il simbolo della gioventù in armi d’Inghilterra, a tutti danno un viso e un corpo, un figlio da piangere per le madri e i padri inglesi. E un simbolo che sfida – e sconfigge – quel che gli inglesi temono di più, e che è tra i suoi grandi temi di poesia, l’intrinseca debolezza delle generazioni umane, e che sgomina la morte nel tempo sottratto a sé stesso, nell’eterno. O davanti alla guerra, quando i figli d’Inghilterra muoiono e cadono, uno dopo l’altro, e «simili alle nuvole ci volgiamo a fissare come foglie lucenti» (Town and Country). Lui la chiama appunto transience, caducità, impermanenza. Mentre, deposta la penna, si avvia in fretta verso l’oscurità.

Il silenzio che segue vaste parole di pace

Gli amici che sono con lui nel plotone lo seppelliscono la sera stessa in un boschetto di ulivi scoperto insieme un giorno, in cui erano sbarcati in ricognizione. Rami e foglie dai palmi grigio verdi oscillano all’aria, sopra la tomba, coperta con pietre raccolte intorno. Per ricordo, una nuda croce di legno con il suo nome.

Nel suo taccuino, trovano un frammento poetico, pochi versi, quasi un’avvisaglia del destino:

 

Ha indosso

Il non colto bocciolo della quiete; più immoto

di un pozzo profondo a

mezzogiorno, o di amanti congiunti;

Più del sonno, o del cuore dopo l’ira. È

Il silenzio che segue vaste parole di pace.

Come per tutti i poeti morti giovani, viene spontaneo chiedersi cosa avrebbe scritto, se fosse tornato dai Dardanelli. Come Sassoon, Owen e altri anche lui avrebbe di certo voluto parlare della cruda efferatezza della guerra. Da superstite testimoniare che la vita «continua ad ardere», burns on (The Hill).

Gli è sopravvissuto un Frammento, scritto dalla nave. Vi affiora una rassegnazione nuova, una virata nel pensiero sulla guerra, compassione per il pericolo che stanno tutti per affrontare, i compagni e sé stesso diventati ombre, parvenze già svuotate di vita, refoli d’aria, gocce di mare:

Ho vagato sul ponte, per un’ora, questa sera,

Sotto un cielo nuvoloso e senza luna; e ho spiato

Dai finestrini, osservato gli amici intorno al tavolo,

O mentre giocavano a carte, o in piedi sulla porta,

O mentre uscivano nell’oscurità. Ma

Nessuno mi ha visto.

Avrei pensato a loro

– Spensierati, a una settimana dalla battaglia – con pietà,

Con orgoglio per la loro forza e il peso e la fermezza,

Per l’unita bellezza dei corpi, e con pietà che

Questa gaia macchina di splendore dovesse esser presto rotta,

Offesa, schiacciata, dissolta

Solo che, ancora,

Continuavo a vederli – in controluce – passare

Come ombre colorate, più sottili del cristallo,

Bolle leggere, più smorti della pallida luce delle onde,

Che si rompeva in fosforo nella notte,

Cose periture e strane ombre – prossime a morire

In altre ombre – questo, o quello, o io.

Quasi tutti i compagni che partecipano con Rupert Brooke alla disastrosa spedizione nei Dardanelli moriranno, cambiati in “ombre”, chi sulle spiagge, chi altrove, poco dopo di lui.