Può capitare a tutti: comprare un bel libro, tornare a casa, dimenticarsi di leggerlo e perderlo nella folla della biblioteca dello studio. A me è capitato, forse per il suo titolo: La parola perduta, che è un romanzo di Fabrizio Guarducci. Il libro mi è tornato tra le mani quando lo stesso autore mandò alle librerie un altro libro: La parola ritrovata: ricostruire l’uomo attraverso il linguaggio. Ottimo impegno, perché finora il linguaggio ha rovinato molti uomini parlanti: volgarità, menzogne, ignoranza, stupidità… Questa volta il titolo del secondo libro – che propone al lettore quello che il primo non conteneva – può darsi che abbia qualche merito e qualche effetto nella piccola storia dei due libri fratelli. Non c’è dubbio, infatti, che il valore della parola oggi sia molto decaduto e ritengo possibile – anche se è indubbiamente casuale – che questa vicenda casalinga sia considerata come un tentativo di riscatto della dignità della parola. Purtroppo, questa si va massificando e perde punti: le lingue si mischiano, anche quelle dei migranti e l’inglese, che in diverse situazioni sostituisce l’italiano, dilaga sui giornali, sulla rete e su tutto ciò che riguarda tecnica e comunicazione.

Cultura “moderna”

Nel parlare comune, poi, le parole che un tempo erano pronunciate sottovoce o in un angolo, perché erano volgari o non opportune per le persone per bene, oggi si proclamano apertamente sulle piazze, cioè là dove nascono i (falsi) «diritti». L’italiano (la lingua) ha molte parole e molti modi di esprimersi in tutti i campi della cultura vera e falsa. Ormai ha perso l’importanza il «trucco» dell’«interruzione volontaria della gravidanza» al posto dell’aborto: tre parole apparentemente «innocenti» di una legge hanno convinto milioni di donne che subito hanno accettato la brutalità dell’aborto e di una legge orribile che ha ucciso finora sei milioni di bambini e ha insegnato come convincere e come nascondere la verità. Contemporaneamente, ha facilitato l’assorbimento delle «parolacce», che non sono più nascoste, ma appaiono sui giornali, perfino nei titoli, sono accolte volentieri anche nei dizionari più moderni e aggiornati e aumentano il calore dei dialoghi e dei film e degli schermi della Tv.

Questo nuovo modo di parlare in pubblico ha facilitato la diffusione di un tipo di parole che spesso viene usato dalle moderne suffragette, quelle che reclamano il diritto di avere diritti e sono ormai parte di tutto ciò che è chiamato «cultura moderna» rinnegando il passato. Del moderno la parola è elemento vitale soprattutto del divorzio, dell’aborto, del soqquadro della famiglia, che non è più unica come una volta. Oggi v’è quella che si vanta dei suoi nomi (tradizionale, arcobaleno, omosessuale, allargata, cattolica, mafiosa, gay, zingara… – in rete ho contato 63 nomi), che dimostrano la sua debolezza: i nomi sono tanti, la sostanza è un’illusione e i nomi di copertura sono come i cartelli che avvertono pericoli sulle strade.

Pulizia delle parole

Tutto questo è un aspetto della realtà e di una situazione che merita attenzione. Non c’è dubbio che la Parola la descrive, ma non quanto abbisogna. Per fortuna anche la parola esiste, ma quale però esiste? Su Avvenire, nella prima delle sue belle pagine di Agorà, trionfava, giorni fa, un titolo che diceva «La parola? Va assaporata». Da qualche settimana su L’Espresso una delle prima pagine è riservata alla rubrica «La parola» e affidata a una serie di autori di fiducia e di parole significative come mafia, verità, coerenza, maestro, abusivo…, ma – peccato – senza alcun legame tra loro. A Grosseto c’è stata una mostra sul tema e, infine, è uscito un libro dello scrittore Amedeo Benedetti dal titolo Il linguaggio di Papa Francesco.

Sembrerà una contraddizione, dopo questo elenco, riprendere il discorso sui nomi e/o sulle molte parole spesso ambigue usate, per esempio, in materia di sessualità, di famiglia, della scuola, della politica, della stampa, del cinema, del vivere. Cominciamo con una pulizia delle parole: la morte non è un diritto, ma il grande medico Umberto Veronesi, che dedicò la sua vita a salvare i malati di cancro, scrisse un libro per affermare «il diritto di morire»). Le due persone omosessuali che si sposano (?) non possono procreare. Il titolo della legge 194 che ha istituito la licenza di aborto «riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio» e «contribuisce a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza». Ma che parole sono queste?

Antilingua

Sono quelle che è stato necessario identificare come «antilingua» e di cui si deve purtroppo registrare l’efficacia. C’è un gioco di parole che ne descrive l’efficacia: «Le parole dette per non dire quelle che si ha paura di dire». Il linguaggio è lo strumento per comunicare, per non restare soli e che costruisce comunità. Ogni parola e ogni gesto hanno il loro significato preciso; l’antilingua è una versione un po’ somigliante, ma ingannevole: tu parli, chi ascolta ti capisce se usi le parole giuste. Se invece usi l’antilingua adoperi parole diverse e gradevoli, ma che nascondono la verità e fanno apparire buono o bello ciò che invece è sgradito, penoso, rischioso. È come mettere lo zucchero nel caffè o l’acqua nel vino troppo forte senza avvertire il tuo invitato. Oppure ascoltare una donna che decanta il suo bambino, ma partorito da un utero preso in affitto.

Purtroppo, sono le ambiguità che vengono chiamate «diritti civili», cosicché non si deve chiamarli «diritti» né prenderli in considerazione: vanno valutati come frutti del principio di autodeterminazione, padre maligno di ogni disordine. Qualche anno fa, un filosofo li definì una forma di neo-giusnaturalismo libertino. Perciò, è importante non usare il nome di «diritto» e impedire, per quel che si può, il principio di autodeterminazione. Forse è utile fare un elenco degli pseudo diritti nati dall’autodeterminazione, che sono il divorzio, l’aborto, l’eutanasia, il suicidio assistito, la maternità surrogata (affitto dell’utero), la procreazione artificiale (a maggior ragione se eterologa), il finto matrimonio tra omosessuali, la manipolazione genetica e l’eutanasia, e forse l’elenco non è completo.

Etica della scissione

Concludo prendendo in prestito una parte interessante di un articolo del filosofo e psichiatra Umberto Galimberti su D-La Repubblica delle Donne (un supplemento di Repubblica, 25 luglio 1998), che denunciava la ormai consolidata «etica della scissione» (fra etica e politica e fra pensiero e azione): «Quello che sembrava il più statico e il più immobile dei ruoli, il ruolo della madre, si sta giorno dopo giorno sempre più in segreto sgretolando [= sbriciolandosi] sottoposto com’è a quelle tensioni sociali e biotecnologiche che portano il nome di aborto, procreazione assistita, in un tempo caratterizzato dall’etica delle separazioni, dei divorzi, delle tecnologie riproduttive eccetera e per finire ai diritti dei bambini messi al mondo da singoli e da coppie omosessuali». E aveva ricordato che «oggi […] la pillola antifecondativa ha separato nella donna la sessualità dalla procreazione e l’inseminazione artificiale dalla sessualità», cosicché «il corpo della donna si è sciolto dalla catena biologica e gli spazi di libertà e di autodeterminazione femminile sono aumentati, generando terrore nei maschi e sconcerti nei preti».

Tralasciamo i poco gentili terrori dei maschi e sconcerti dei preti. Sono di Galimberti e per di più su La Repubblica e non è il caso di insegnar loro la cortesia. Non ci spaventano anche perché la caratterizzazione e lo «sgretolamento» sono veri e valgono. Adesso riflettiamo noi.