Il volume dei flussi migratori crea nei Paesi di destinazione problematiche di sicurezza, di sovraffollamento, di priorità nella distribuzione delle risorse, di convivenza multietnica e altro. Le decisioni dovrebbero essere assunte mediante valutazioni tecniche, destinate poi a interagire variamente con gli orientamenti politici.

Si dovrebbe esaurire in sede tecnico-giuridica l’indicazione delle condizioni di ingresso e di soggiorno in Europa; la precisazione concreta di detti criteri dovrà tener conto sia delle aspettative dei migranti di trovare nei Paesi di destinazione maggiori possibilità di lavoro, salari più alti, miglior qualità di vita e opportunità di studio, sia dei limiti delle capacità ricettive delle comunità di accoglienza, ovvero in concreto della necessità che la massa delle persone accolte non sia tale da comprimere eccessivamente il godimento dei diritti e delle facoltà dei cittadini residenti.

I mutamenti delle condizioni di vita e i costi sociali devono essere tali, infatti, da non alimentare una contrapposizione fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi arrivati, che potrebbe suscitare, tra l’altro, odiose degenerazioni razziste. Spesso le misure individuate in sede tecnica subiscono le invasive interferenze della demagogia politica, rigidamente polarizzata su opzioni simmetricamente opposte, quella dell’accoglienza generalizzata e quella del respingimento indiscriminato.

Quando si contrappongono aprioristiche e non negoziabili valutazioni politiche, il confronto raramente approda a soluzioni condivise: la discussione tende a radicalizzarsi. Rinunciando ad alimentare sia l’enfasi populista di un facile buonismo, sia all’opposto quella a effetto di un’inconsistente intransigenza, le questioni correlate ai flussi migratori potranno essere affrontate seriamente. Privilegiare per quanto possibile l’approccio tecnico consente di conseguire soluzioni strutturate oggettivamente, più stabili in quanto meno esposte alla volubilità ideologica e quindi a radicali cambiamenti. Si potrà dare attuazione per quanto possibile al dovere morale di «accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti gli immigrati».

Flussi migratori dell’Africa

Consideriamo “disperati” i migranti che partono dalle coste africane. Lo sono: solo così può essere definito chi fugge dal proprio Paese affidandosi alla lotteria di un viaggio estremamente pericoloso, aleatorio e oneroso. Tuttavia, come è stato autorevolmente esposto in uno studio dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), non sono i più indigenti a fuggire dall’Africa, ma solo chi dispone di redditi e/o di risparmi familiari tali da consentire di affrontare le spese del costoso viaggio clandestino. Generalmente si tratta di appartenenti alla classe media, ovvero di giovani che hanno avuto una formazione culturale e professionale (o che hanno le potenzialità per averla), e che pertanto potrebbero integrare la futura classe dirigente africana.

In dettaglio, secondo il sopramenzionato studio, negli ultimi anni il 60% dei migranti africani sbarcati in Europa proverrebbe da Paesi con un reddito pro capite tra 1.000 e 4.000 dollari l’anno (considerato dalla Banca Mondiale medio-basso per l’Africa), il 29% tra i 4 e 12 mila dollari (stimato medio-alto), il 7% da Paesi dove c’è un reddito alto (sopra i 12.000 dollari). Solo il 5% proviene da Paesi poverissimi (con un reddito pro capite medio sotto i mille dollari).

Questi giovani sono spinti a lasciare il loro Paese anche dalla dilagante corruzione che in maniera capillare ed endemica contamina le istituzioni e la vita pubblica, provocando la scoraggiante consapevolezza di immotivate disuguaglianze, di arbitrarie ingiustizie, di una deprimente mancanza di senso civico, dell’irrilevanza della meritocrazia. La corruzione prosciuga anche i flussi finanziari provenienti da aiuti umanitari.

Questo drammatico scenario impedisce ai giovani di considerare la possibilità di costruirsi un futuro nel proprio Paese, e ai Paesi africani di avere adeguati residenti autoctoni su cui strutturare un’autonomia politica ed economica che li liberi dalla soggezione a vincoli neocoloniali. I giovani africani, se hanno ambizioni e le somme necessarie, alimentano gli esodi verso l’Europa mediterranea, necessariamente clandestini mancando canali legali di immigrazione; rimangono in Africa gli indigenti, ai quali la mancanza di mezzi economici preclude i viaggi clandestini, e chi invece si alimenta della complicità con i potentati della corruzione.

I Paesi occidentali per frenare questo esodo potrebbero promuovere nei Paesi africani la creazione di opportunità che motivino i giovani a desistere dal migrare. L’inflazionata intenzione di aiutarli a casa loro non dovrebbe rimanere un’affermazione di principio, ma dovrebbe tradursi nella volontà seria di porre le premesse per interventi finalizzati a rendere i potenziali migranti realmente liberi di scegliere se restare o partire.

In proposito la destinazione di aiuti finanziari non produce effetti positivi se i flussi di denaro non sono strategicamente orientati. In particolare, il sostegno al reddito individuale incoraggia le partenze, mentre gli investimenti nei servizi e nelle infrastrutture – soprattutto nel campo delle energie rinnovabili, nella sanità, nei trasporti, nell’istruzione, nello sviluppo tecnologico della rete Internet – inducono la popolazione a restare. Deve essere inoltre protetto il funzionamento dei mercati interni, al fine di favorire lo sviluppo di un’economia circolare basata sul consumo della propria produzione. Al contrario si privilegia il ricorso al libero scambio, che di fatto favorisce l’esportazione dei beni di prima necessità, che in questo modo sono sottratti al consumo interno e che vengono riacquistati dopo essere stati lavorati dalle industrie occidentali. Questo circolo vizioso paradossalmente rende più ricco di risorse anche il continente più povero.

A questa povertà contribuiscono anche forme di neocolonialismo legalizzato, come il land grabbing: gli agricoltori, estromessi dalle loro terre e privati di mezzi di sostentamento, considerano la prospettiva di abbandonare il proprio Paese.

I flussi migratori sono favoriti anche dai frequenti conflitti fra i Paesi africani, non raramente alimentati dalle industrie belliche occidentali. Per l’acquisto di armi vengono cedute risorse minerarie ed energetiche, e questo è causa di un ulteriore impoverimento.

Il dibattito in àmbito europeo

L’Unione Europea afferma programmaticamente di aspirare a una politica migratoria lungimirante e globale, fondata sulla solidarietà, che punta a stabilire un approccio equilibrato per affrontare i flussi migratori sia regolari sia irregolari. Le attuali politiche migratorie dell’Unione Europea sono prevalentemente orientate a prevenire l’immigrazione irregolare, in particolare dai Paesi africani.

La base giuridica della politica comunitaria in materia di immigrazione sono gli articoli 79 e 80 Tfue (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) che attribuiscono all’Unione la competenza di definire le condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi; gli Stati Membri conservano la facoltà di stabilire i volumi di ammissione.

Per contrastare l’immigrazione irregolare l’Unione Europea adotta misure comuni per ridurre il flusso di irregolari; può stipulare accordi per disciplinare il rimpatrio nel Paese di origine di chi non soddisfa o non soddisfa più le condizioni di ingresso, presenza o soggiorno.

Nelle situazioni di emergenza si sensibilizza un consolidato dispositivo composito, ovvero il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne (dell’Ue), il contrasto e la repressione dei trafficanti di migranti, il rimpatrio di coloro che non hanno titolo per rimanere.

È necessario che si ricorra a un efficace approccio strategico, che dovrebbe innanzitutto rafforzare il sostegno ai Paesi africani affrontando alla radice le cause delle migrazioni. In questa prospettiva si deve investire su un reale ed efficace partenariato con gli Stati africani. I Paesi europei potrebbero fornire cooperazione e assistenza allo sviluppo, promuovendo un adeguato miglioramento delle condizioni socioeconomiche. Queste iniziative potrebbero includere attività di aiuto finanziario, scambi di conoscenze e tecnologie, investimenti nella creazione di posti di lavoro e nell’istruzione, nonché la promozione della stabilità politica e della buona governance; si dovrà evitare non solo la mancanza di coordinamento fra i vari programmi, ma anche la sola gestione delle criticità riguardanti esclusivamente le priorità degli Stati membri.

È necessario inoltre strutturare canali di esodo regolari e sicuri. La disciplina di un eventuale canale legale di immigrazione dovrebbe essere prevista e concordata nelle linee generali in sede comunitaria; potrebbe essere specificata successivamente mediante accordi bilaterali tra Paesi africani ed europei.

In questo àmbito saranno regolamentati anche i ricongiungimenti familiari e i casi di protezione internazionale. I corridoi umanitari, anche se non possono costituire la soluzione per la loro ridotta applicazione, tuttavia sono esempi di una pratica virtuosa che può fornire utili elementi in sede propositiva. La gestione delle frontiere esterne è un àmbito particolarmente sensibile, che ha assunto un aspetto prioritario a seguito della crescita esponenziale nell’ultimo decennio del volume dei flussi migratori. La principale agenzia responsabile è Frontex, che coordina le attività di sorveglianza e controllo delle frontiere europee, fornisce supporto tecnico e operativo agli Stati Membri, contribuisce allo scambio e alla condivisione di informazioni, promuove l’individuazione delle migliori pratiche. Nella sua attività Frontex si è trovata in alcuni casi in contrasto con organizzazioni non governative e associazioni umanitarie, che hanno denunciato iniziative illegittime lamentando il mancato rispetto del divieto di respingimento del rifugiato e del richiedente asilo provenienti da Paesi in cui la vita o la libertà sarebbero minacciate a motivo della razza, della religione, della cittadinanza, della appartenenza a un gruppo sociale o delle opinioni politiche.

Recentemente è stato raggiunto il consenso su un meccanismo di solidarietà obbligatoria: tutti gli Stati membri dell’Ue dovranno scegliere se accettare di ricollocare sul loro territorio una parte dei richiedenti asilo arrivati nei Paesi di primo ingresso, o se invece fornire un contributo finanziario pari a 20.000 euro per ogni migrante. Aver sancito questo principio nonostante l’opposizione di Polonia e Ungheria è un passo importante. Ma un reale salto qualitativo richiederebbe una comune strategia operativa.

La politica italiana

L’Italia per la sua posizione geografica è una delle principali porte d’ingresso in Europa per i migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente; pertanto ha il difficile compito di controllare le rotte migratorie del Mar Mediterraneo, in particolare quelle attraverso il Canale di Sicilia. Gli arrivi di migranti spesso richiedono operazioni di ricerca e soccorso. Da quanto premesso risulta evidente che per l’Italia la gestione della parte delle sue frontiere coincidenti con quelle dell’Unione è una questione particolarmente sensibile. La recente tragica morte di almeno settantasei persone a pochi metri dalle coste calabresi, nelle vicinanze di Cutro, impone una riconsiderazione critica dei dispositivi in atto.

In proposito la legge 5 maggio 2023 n. 50 ha convertito, con modificazioni, il decreto-legge 10 marzo 2023 n. 20, recante «Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare» (il cosiddetto Decreto Cutro).

Preliminarmente deve essere riconosciuta la natura strutturale e non occasionale e transitoria dei flussi di migranti dall’Africa – utilizzati sia da chi fugge da conflitti bellici o da altre gravi contingenze, sia da chi cerca migliori condizioni di vita – che richiede pertanto strategie a lungo termine. Quindi, rimandando a quanto detto in precedenza, è opportuno privilegiare, per quanto possibile, un approccio tecnico, e non politico, essendo quest’ultimo soggetto alla volubilità degli orientamenti ideologici. Com’è noto, con l’accordo di Schengen sono state abolite le frontiere interne tra i Paesi europei, lasciando però ai singoli Stati la protezione della propria parte di frontiera esterna.

L’Italia dovrebbe aspirare a una reale europeizzazione dei suoi confini “comunitari”, che diventerebbero realmente comuni solo attraverso la condivisione con gli altri Paesi membri di coordinate risposte operative e mediante un’equa condivisione degli oneri umanitari.

Al contrario, la Convenzione di Dublino (entrata in vigore nel 1997) e il relativo regolamento europeo del 2003 (“Dublino II”) e poi riformato nel 2008 (“Dublino III”), pur riconoscendo l’immigrazione come un problema comune, lasciano ai singoli Stati la responsabilità di gestire coloro che arrivano o approdano nel proprio territorio.

Nel Consiglio Europeo del giugno u.s. è stata ratificata l’intesa dei ministri dell’Interno dei Paesi dell’Unione Europea sull’opportunità di una riforma del regolamento di Dublino, ma i relativi progetti al momento non sembrano particolarmente ambiziosi, ovvero non apportano modifiche significativamente innovative.

Frontex è alle dipendenze dei singoli governi nazionali in quanto fornisce un supporto solo se richiesto. In proposito l’art. 19 del Regolamento del 2016 prevede che, persino nel caso di acclarata difficoltà di uno Stato membro a gestire una crisi migratoria, Frontex può intervenire solo «su proposta della Commissione europea e con l’approvazione del Consiglio dei ministri europei». In concreto questo meccanismo sconfessa il principio dell’europeizzazione delle frontiere comuni.

Questi arrivi coincidono con un preoccupante declino demografico nel nostro Paese; pertanto, alle problematiche correlate al contenimento dell’approdo di migranti, si sovrappongono valutazioni relative alla loro parziale e mirata accoglienza.

Al riguardo, secondo le previsioni di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, entro il 2100 la popolazione italiana si ridurrà di 8,8 milioni di individui, scendendo dai 59 milioni del 2022 a 50,19 milioni, comprensivi del saldo negativo fra nascite (29,9 milioni) e morti (57,5 milioni) e del saldo positivo fra emigranti e immigrati (18,7 milioni).

Le questioni dell’accoglienza dei migranti subiscono in Italia le contrapposizioni polarizzate della politica. Anche per l’integrazione dei migranti nella società italiana si richiedono politiche a lungo termine, ovvero non condizionate dall’incertezza arbitraria delle variabili ideologiche. Il perdurare delle criticità politiche ed economiche in Africa e in Medio Oriente induce a ritenere che la presenza straniera in Italia sia destinata a consolidarsi e a incrementarsi.

Un reale e concreto processo di integrazione, finalizzato a un generale welfare, che abbia come presupposto la valutazione della presenza multietnica come una risorsa e un’opportunità e non un problema da risolvere, ha come conseguenza concreta che programmi e provvedimenti delle istituzioni non avranno come fine il mantenimento o il ritorno nostalgico a un presunto pregresso ordine sociale felice, ma prenderanno atto di un’evoluzione della società in senso multietnico, che richiede un approccio nuovo e adeguato al cambiamento.