Ho scoperto Etty a casa di un’amica, circa dieci anni fa. Quando mi capita di entrare in un appartamento per la prima volta mi piace far scorrere lo sguardo fra i libri sugli scaffali, trovo sia un modo non insolente di dare una sbirciatina all’anima di chi ti accoglie. All’epoca questa particolare anima viveva fra la Spagna e l’Italia; perciò, il contenuto della libreria era lo specchio di una vita trascorsa a dimensione di valigia: leggero ed essenziale. La versione ridotta del diario di Etty riposava in un angolo, il verde bottiglia dell’elegante sovraccoperta spiccava tra dorsi più anonimi. In genere mi limito a osservare, ma qualche tempo prima un’altra amica – quante cose accadono per colpa degli amici! – mi aveva accennato la storia di questa giovane donna, così la coincidenza di trovarmi di fronte al suo diario mi aveva spinto a prendere il volume tra le mani. Gli angoli erano lievemente consumati, alcuni passaggi sottolineati, segno di una lettura accurata. Scorrendone le pagine, il paragrafo che riporto qui sotto aveva immediatamente attirato la mia attenzione.

Una volta io mi immaginavo un futuro caotico perché mi rifiutavo di vivere l’istante più prossimo. Ero come un bambino molto viziato, volevo che tutto mi fosse regalato. A volte avevo la certezza – peraltro molto vaga – che in futuro sarei potuta diventare “qualcuno” e avrei realizzato qualcosa di “straordinario”, altre volte mi ripigliava quella paura confusa che “sarei andata in malora lo stesso”. Comincio a capire perché: mi rifiutavo di adempiere ai compiti che avevo sotto gli occhi, mi rifiutavo di salire verso quel futuro di gradino in gradino1.

È stata la prima volta che ho sperimentato la dirompente sensazione che ti avvolge quando trovi chi è in grado di dar forma a un pensiero o uno stato d’animo che provi e che fino a quel momento non ti era riuscito di esprimere; quando leggi o ascolti qualcuno e il cuore esplode in un “Ecco!”.

Avevo da poco concluso un master in sceneggiatura, dopo un cambio di facoltà e vari anni persi in un’università al solo pensiero della quale mi percorrevano brividi di inquietudine, e da qualche mese mi dibattevo tra fantasie di gloria e collisioni di realtà, incapace di compromettermi con la monotonia del lavoro quotidiano. Come Etty, volevo arrivare alla cima senza dovermi preoccupare di conquistarla gradino per gradino.

Leggendo quelle poche righe ho provato un’ondata di sollievo e mi sono sentita, al tempo stesso, riconosciuta. Qualcun altro era passato attraverso ciò che stavo passando io e aveva – probabilmente – trovato il modo di risolvere l’opposta tensione. Ero ansiosa di capire come, perciò ho preso in prestito il diario e l’ho infilato in borsa. L’ho divorato in un paio di giorni. La sensazione di riconoscimento mi ha accompagnata fino all’ultima pagina.

Sebbene sceneggiatrice ancora in erba, già vivevo la deformazione professionale di cercare una buona storia ovunque guardassi, e quella di Etty mi aveva colpita anche da quel punto di vista: ebrea libera nell’Olanda occupata dai nazisti, giovane donna alla ricerca d’identità in un tempo che aveva fatto di tutto per sradicarla, aspirante scrittrice che era riuscita a trovare la propria parolina – come direbbe lei – in un luogo in cui ogni parola era zittita dall’orrore. Come se non bastasse, questa ventisettenne inquieta e scarmigliata aveva avuto una relazione con il suo terapeuta, di parecchi anni più grande di lei.

Ce n’era abbastanza per fare della sua storia, della sua vita, un film.

Mi sono procurata l’edizione integrale del Diario, uscita presso Adelphi appena qualche mese prima, insieme alla raccolta delle sue Lettere, gran parte delle quali inviate dal campo di smistamento di Westerbork. Ero pronta a gettarmi su entrambi con la passione dei nuovi progetti, ingenuamente dimentica dell’aforisma coniato da Forrest Gump: «La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita».

Così, tre traslochi, un incidente e un nipote dopo, sono tornata su Etty solo due anni fa.

Ho letto Diario e Lettere durante le ferie estive – letture da ombrellone decisamente impegnative… –, integrandone lo studio con volumi di analisi e critica, compresi manuali di storia che potessero restituirmi il contesto e l’atmosfera che lei aveva respirato.

Ho capito fin da subito la difficoltà più grande cui sarei andata incontro una volta che mi fossi messa a scrivere. Come si fa, infatti, a dare concretezza visiva a un diario che è piuttosto l’espressione vibrante di un dinamismo interiore? I dettagli tangibili che costruiscono una giornata e si offrono come immagini da poter riprodurre erano centellinati e scarni, discretamente seminati qui e là fra le pagine di quegli undici quaderni, i cui sottili righini azzurri erano la rigida griglia entro cui mettere ordine nella sua anima, non l’anonimo appoggio su cui abbandonare il susseguirsi delle giornate.

Passaggi come il seguente mi riempivano di frustrazione per ciò che evocavano senza però avere la compiacenza di scendere in dettagli:

 

Giovedì mattina (30 ottobre 1941)

Paura di vivere su tutta la linea.

Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa.

Repulsione. Paura…2

 

A posteriori, credo che a frustrarmi fosse il desiderio di conoscere cosa avesse generato quello stato d’animo e come ne fosse uscita, piuttosto che la necessità di elementi concreti con cui costruire una scena. Avevo bisogno di sapere più su di lei perché sentivo mi avrebbe condotta a sapere più su di me. Come ho letto di recente nel volume Donna della parola. Etty Hillesum e la scrittura che dà origine al mondo di Antonella Fimiani, «la narrazione dell’altro dà risposta alla domanda nascosta nel cuore di ognuno: chi sono io? Ancora prima di rivelare il significato di un’esistenza, la biografia ne coglie il desiderio»3. Nel caso specifico, il desiderio colto e in via di maturazione era il mio.

Ho passato su Etty e gli orrori della persecuzione nazista nell’Olanda occupata circa sei mesi, prima di mettermi a scrivere. Ho letto pagine da far perdere il sonno e accapponare la pelle; ho avuto riprova che è tristemente vero come la capacità dell’uomo di commettere barbarie sia pari solo alla sua fantasia. Eppure, per quasi mezzo anno ho camminato passo passo con una donna che a quella barbarie è riuscita a trovare un senso e a forgiare la propria forma. Mentre il mondo e gli uomini combattevano gli uni contro gli altri, lei ha lottato ferocemente con sé stessa alla ricerca di un’autonomia interiore che la fondasse come donna. Adesso so che è questo di lei ad avermi attirata. La sua ricerca appassionata di una forma «tracciata dalla attitudine femminile ad accogliere il cambiamento per dare origine al nuovo in atto già nelle macerie»4. È ciò che avevo mancato di cogliere nel «trattamento»5 che ho scritto. Avevo concentrato tutti gli sforzi nel dare a Etty una forma filmica senza preoccuparmi che questa restituisse davvero la sua. Ed ero così tesa a circoscriverla in una cornice visibile da non accorgermi che aveva lei stessa cominciato a tracciare una forma per me. Mi stava accompagnando per il suo medesimo percorso; cosa che non avevo modo di capire fin quando non fossi arrivata dall’altra parte. Per riuscire a farlo, ho dovuto prima separarmi da lei.

Battuto l’ultimo punto, infatti, ero così prosciugata da non voler saperne più nulla di Etty, almeno per qualche mese. Ho iscritto il trattamento a un bando, dicendomi che avrei affrontato la stesura della sceneggiatura semmai avessi vinto, e ho smesso di pensarci.

Non è questo il luogo per raccontare quali altri eventi mi abbiano alla fine condotta dall’altra parte del mio percorso, citando ancora una volta l’ottima Fimiani si è trattato di quella «forma imprevista che porta alla luce l’inedito di ogni esistenza»6, ma trovo significativo che la mia seconda occasione con Etty arrivi proprio ora che anche io ho definito la mia configurazione. Quando cioè posso finalmente cercare di raccontarla in un modo che non le faccia torto e la tradisca. Non ho gli strumenti né le competenze per condurre analisi di tipo critico-letterario o storico/religioso/antropologico, il mio editore mi perdonerà se non oso avventurarmi in considerazioni di questo genere.

Vorrei invece che questo volume fosse la narrazione di come l’ho conosciuta e riscoperta. Stavolta consapevole a pieno che «la storia di ognuno può essere restituita dallo sguardo altro di chi la racconta»7, (mi auguro che questo mio sguardo possa restituire Etty nella sua forma più vera).

(…) Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere8.

Il desiderio di Etty era prendere parte alla storia di allora per dare agli altri un po’ di ciò che lei aveva imparato. Il mio è aiutarla a esaudirlo, nella speranza che questo volume possa restituirla alla storia di oggi e avvicinare altri a lei. Perché ciascuno possa trovare la sua propria forma.

1 Etty Hillesum, Diario, trad. it. Chiara Passanti e Tina Montone, Adelphi Edizioni, Milano 2012, p. 79. «21 marzo 1941». D’ora in poi E. Hillesum, Diario.

2 Ibidem, p. 220. «30 ottobre 1941».

3 Antonella Fimiani, Donna della parola. Etty Hillesum e la scrittura che dà origine al mondo, Apeiron, Sant’Oreste RM, 2017, p. 11.

4 Ibidem.

5 Il trattamento è il passaggio intermedio tra soggetto e sceneggiatura. Serve ad approfondire ed ampliare in forma più narrativa il soggetto iniziale ed è ciò da cui deriverà la sceneggiatura.

Un ringraziamento a Wikipedia per l’ottima definizione.

6 A. Fimiani, op. cit., p. 8.

7 Ibidem.

8 E. Hillesum, op. cit., p. 752. «15 settembre 1942».