Nel racconto Un brav’uomo è difficile da trovare, il Balordo, il losco figuro appena evaso da galera che stermina la famiglia Wesley, prima di spararle spiega convinto alla nonna: «Cristo è venuto a mettere tutto sottosopra». Un’affermazione cruda, in linea con l’efferatezza del personaggio, ma che comprende la ferma convinzione della scrittrice Flannery O’Connor che al centro della storia di ogni persona ci sia l’Incarnazione, intesa come evento storico e come messaggio spirituale che sollecita una risposta personale. Rispondendo alla prima lettera di Betty Hester, con la quale intesserà un’illuminante corrispondenza, O’Connor si definisce: «scrivo come scrivo perché sono cattolica, non benché lo sia».

Una dichiarazione che esprime la sua convinta certezza che narrare sia mostrare come il nichilismo di una fede ridotta a consolazione soggettiva non possa avere l’ultima parola quando il mistero spirituale irrompe nell’esperienza di ogni persona e offre la possibilità di un cambio di rotta, di una evoluzione che comprenda la redenzione. Per questo in tutte le sue storie i personaggi si muovono in «un territorio essenzialmente dominato dal diavolo», che però non riconoscono più in quanto tale, fino al momento in cui la grazia scardina le loro illusioni umane.

Questo è per O’Connor il momento epifanico, il momento in cui «spazio, tempo ed eternità si incontrano»: compiendo in piena libertà il gesto cruciale dal quale dipende il senso profondo della vita e della loro morte, i protagonisti devono scegliere se accettare o rifiutare la verità dell’Incarnazione. Questa tensione tra realtà terrestre e spirituale, tra evento concreto e mistero, è il fulcro delle storie di O’Connor e travolge tutti i suoi personaggi, adulti e bambini.

Nel panorama artistico di Flannery O’Connor i bambini sono presenze significative, sia quando agiscono da protagonisti, sia quando restano sullo sfondo delle vicende degli adulti. A loro la scrittrice rivolge un’attenzione insolitamente delicata, mai carica di ironia o sarcasmo: soffrono, si scontrano con gli adulti e ne subiscono le brutalità, bramano amore e attenzioni e lottano per ottenerli anche a costo della propria vita, ma la loro presenza suggerisce sempre un’innocenza originaria. Il filo conduttore di tutte le loro vicende è la convinzione di O’Connor che i bambini siano più saggi degli adulti, che il loro sguardo diretto sia in grado di penetrare oltre la realtà contingente e di intuire quelle «linee che creano il movimento spirituale», che rimandano al mistero intrinseco alla vita umana. Tale comprensione del valore intrinseco del bambino riecheggia il pensiero neotomista di Jacques Maritain.

I ricordi dell’infanzia

Flannery O’Connor trae la sua nitida idea di bambino in quanto agente mosso da processi interiori significativamente differenti da quelli dell’adulto dalla propria esperienza di bambina amata, rispettata e stimolata, dai suoi studi universitari che la avvicinano alle nuove teorie psicopedagogiche e dalle sue vaste letture in teologia e filosofia. L’infanzia ha per lei un preciso termine temporale: «Quando avevo dodici anni decisi che non sarei più cresciuta oltre (…) C’era qualcosa nel termine “teen” attaccato a qualsiasi cosa che mi ripugnava», scrive all’amica Betty Hester mentre ricorda gli anni sereni a Savannah che terminano in quelli dolorosi della malattia e della morte dell’amatissimo padre e del trasferimento a Milledgeville.

La scrittrice considera i bambini capaci di «affrontare verità teologiche al di là delle loro possibilità di comprensione», perché guidati da quella istintiva capacità (o con le sue parole «intelligenza naturale» e «sangue saggio») che permette loro di intuire che «l’inferno è mancanza di amore». In quanto adulta senza rapporti diretti con i bambini, O’Connor ammette: «non conosco molto i bambini, cioè non so cosa passi loro per la mente».

Allo stesso tempo, è però convinta che «tutto il peso dei secoli grava sulle loro spalle»: un’affermazione che rimuove ogni immagine di leggerezza e spensieratezza attribuite per tradizione al periodo dell’infanzia e suggerisce una visione in cui i bambini sono costretti a districarsi nel mondo che gli adulti predispongono. Quest’idea è esplorata fin dal primo romanzo La saggezza del sangue, l’inquietante storia della dolorosa fuga dalla redenzione che Hazel Motes inizia bambino quando si autopunisce camminando con le scarpe piene di sassi per provocare Dio, dal quale si sente perseguitato.

Contrapposto al coerente nichilismo di Hazel, O’Connor propone il consumismo materialista di Jay Holy, che in una irriverente imitazione di Motes predicatore della «Chiesa senza Cristo», la chiesa «che Gesù non insozza con il sangue della Redenzione», si finge profeta e predica l’immagine di sé bambino come una rosa che le avverse circostanze hanno lentamente rinsecchito, impedendole di esprimere la sua bellezza. Se Jay Holy si è lasciato sopraffare dagli eventi, non perché non fosse «dolce», ma perché non aveva «mai capito come dimostrare la naturale dolcezza», altri piccoli protagonisti vi reagiscono con determinazione, decisi a conquistarsi l’amore che rende le loro esistenze degne.

In realtà, fra tutti i bambini che si incontrano nelle storie, solo otto sono messi nelle condizioni di compiere quella scelta radicale che permette loro di rifiutare “l’inferno” e tre di loro persistono nella loro decisione fino a trasformare il momento della loro morte fisica nel momento della loro redenzione e rinascita spirituale.

Gli altri sono presenze secondarie, indispensabili per catalizzare l’attenzione su alcuni tratti peculiari degli adulti. Per esempio, ne Il cielo è dei violenti, la tormentata storia dell’adolescente Francis che deve scegliere tra la missione profetica affidatagli dal prozio fondamentalista e il razionalismo intransigente dello zio maestro Rayber, la piccola Lucette Carmody, agghindata come la madre, predica da un palco.

Più che le sue parole, è il suo atteggiamento a catturare l’adulto Rayber: rispecchiandosi in quella che considera una bambina sfruttata dagli adulti, ripercorre alcuni momenti della propria infanzia abusata ed è costretto a rivalutare le scelte compiute. Nel racconto Punto Omega Carver, l’unico bambino nero chiamato per nome, sull’autobus che corre sulle strade di un Sud infuocato dalle rivendicazioni dei diritti civili per i neri, diventa il punto focale che provoca lo scontro tra la giovane madre e l’anziana signora bianca ancorata alle proprie abitudini segregazioniste.

Ne Il Profugo la presenza dei due fratellini polacchi, appena emigrati con i genitori nella fattoria della signora McIntyre, sottolinea l’incomunicabilità tra le due diverse realtà sociali e addita alla possibilità di un suo superamento a opera delle nuove generazioni.

L’esempio di Maritain

Gli esempi potrebbero continuare, tuttavia alcuni tratti accomunano tutti i bambini: indipendentemente dall’essere maschi o femmine, protagonisti o figure secondarie, sono sempre solitari, seri, testardi e polemici, sorprendentemente somiglianti a Flannery O’Connor bambina e molto diversi dalle immagini stereotipate proposte nel Sud degli anni Cinquanta. Se tutti soffrono e affrontano la violenza che gli adulti perpetrano fisicamente o psicologicamente nei loro confronti, anche fino a quella estrema della morte, li distingue invece «il modo con cui si liberano dalla crosta opprimente» (usando le parole di Maritain) delle proposte inadeguate degli adulti compiendo la scelta che per O’Connor costituisce il cardine di tutte le sue storie e che il filosofo postula come “primo atto di libertà”.

Maritain descrive l’uomo dotato di autoconsapevolezza e autodeterminazione, limitato nei suoi tratti terrestri e illimitato nella sua speranza di eterno, sempre sul confine tra finito ed infinito. Nella prospettiva del filosofo, ogni individuo è libero di progredire verso la piena realizzazione della persona che Dio ha progettato oppure di indirizzare la propria esistenza in altra direzione. Durante questo processo evolutivo, che è allo stesso tempo materiale e spirituale, individuale e sociale, solo la grazia divina garantisce e supporta la coerenza con la quale una persona conquista la sua autentica libertà in Dio.

Nella visione del pensatore francese, tutto inizia nell’infanzia, esattamente quando il bambino, qualsiasi bambino, compie il “primo atto di libertà”. Questo è per il filosofo il momento in cui, seppur in modo intuitivo e confuso, il bambino da solo rifiuta di compiere un’azione sbagliata, non per timore di una punizione, ma perché «ritiene che non sia bene farlo». Incontra così «il bene morale con tutto il mistero che ne consegue».

Maritain precisa come questo sia un atto autonomo, assolutamente spontaneo che, seppur determinato dalle circostanze esterne (quali la volontà stessa del bambino, la presenza di adeguate figure educative e l’influenza dell’ambiente) nasce «dalle profondità interiori dove lo spirito risiede» senza che il bambino ne abbia consapevolezza razionale. Compiendo quest’atto il bambino «conosce Dio, perché in virtù del dinamismo interiore della scelta del bene in quanto bene» egli stesso ha posto in essere «il suo amore per il Bene Supremo in quanto finalità ultima della sua esistenza».

Maritain puntualizza che la decisione del bambino è e rimane un atto della sua libera volontà, ma che è autenticamente compiuto solo se supportato dalla grazia divina, che viene elargita nel momento stesso in cui il bambino decide. Così, quando il bambino compie il suo primo atto di libertà non solo «prende la propria vita in mano [ma] in modo pratico, non concettuale, acquisisce una primordiale non-razionale conoscenza di Dio, che può coesistere con la sua ignoranza teoretica di Dio».

Se si leggono le storie degli otto piccoli protagonisti di O’Connor alla luce delle considerazioni del francese si evince come tutti loro procedono verso il “primo atto di libertà” (Box 1). Va, comunque, riconosciuta una differenza strutturale tra i cinque bambini che nei racconti sopravvivono e i tre che muoiono: mentre per i primi l’atto di libertà è il momento conclusivo della narrazione, per i secondi diventa la svolta verso l’esperienza della morte come evento redentivo.

Inserendosi nel dibattito psico-pedagogico del secolo scorso, Maritain ritiene determinante (ma non decisivo) l’ambiente in cui il bambino cresce e assegna all’autentico educatore il ruolo di guida. Nella sua visione l’adulto ha la responsabilità di insegnare al bambino a usare la propria intelligenza, le conoscenze che via via acquisisce, le competenze sociali per diventare una persona perfettamente consapevole del significato spirituale intrinseco alla propria esistenza.

L’ambiente in cui tutti i bambini di O’Connor si muovono è il Sud che lei penetra e narra con “l’occhio guercio” della sua incorruttibile fede cattolica: una regione in cui gli adulti arrancano per approfittare dei vantaggi dello sviluppo tecnologico senza rinunciare alle tradizioni, rinnegando la propria identità storica.

Tranne in due casi, tutte le figure parentali proposte da O’Connor sono figure di riferimento egoisticamente concentrate su sé stesse, presenze inadeguate, totalmente opposte all’idea di educatore postulata da Maritain. Nonostante Mason, ne Il Cielo è dei violenti, sia un personaggio controverso, assurdo, un vero fanatico disadattato nel più profondo senso o’connoriano (fallisce con sé stesso, tradisce Rayber, alleva Francis nella solitudine di una catapecchia nel bosco) è paradossalmente un autentico educatore come inteso da Maritain e offre a Francis un’“educazione appropriata”.

Il vecchio cucina per il bambino, lo istruisce utilizzando la Bibbia come libro di testo, durante le loro aspre discussioni insegna al bambino la libertà di pensiero e lo indirizza verso la meta finale di diventare «un uomo ricco, che conosce la Verità, nella libertà di nostro Signore Gesù Cristo», perché l’essere liberi «ha a che fare con Gesù».

Altrettanto ambiguo è anche il ruolo che il ricordo della mamma morta gioca per Norton: l’assenza fisica della genitrice diventa per il bambino presenza spirituale, in senso traslato la sua autentica educatrice. Se da un lato il bambino si rifiuta di dimenticarla e ne soffre, dall’altro la presenza nel ricordo lo conforta, lo supporta e lo guida nel suo percorso verso la libertà spirituale che il padre gli nega. Una presenza che è metaforicamente interpretabile sia come la grazia divina alla quale «la nostra natura caduta è esposta, come i corpi stanchi lo sono ai raggi del sole» –come scrive Maritain – ma anche come la forza interiore che attrae Norton verso il suo Punto Omega, secondo l’innovativa teologia di Teilhard de Chardin, che O’Connor andava scoprendo.

Fondamentale, comunque, per Maritain rimane quelle complessa combinazione di intuitività, spontaneità e immediata non-razionale consapevolezza, la stessa che O’Connor definisce “intelligenza naturale”, con la quale il bambino percepisce il mistero oltre la realtà concreta che lo circonda.

I bambini sopravvissuti

Pur nella varietà di reazioni a situazioni contingenti molto dissimili, vi sono alcune analogie tra i cinque bambini che sopravvivono, che permettono di associare Sally, Virginia e Nelson da una parte, e Ruller, Mainley e La Bambina dall’altra. (Box 1).

Sally vive con la madre in una fattoria ordinatamente funzionante e Nelson con il nonno in una capanna nel bosco, eppure le due figure parentali sono ugualmente orgogliose e convinte di essere il giusto esempio di cui i bambini hanno bisogno. I due bambini polemicamente si difendono dall’invasione dell’adulto, ma non lo estromettono dal proprio panorama.

In opposizione alle sicurezze della mamma, Sally usa dei vecchi vestiti da uomo per travestirsi da cow-boy e andare a giocare nel bosco, ma quando il fuoco, vendicativamente appiccato dai tre giovinastri ospiti non graditi, distrugge la fattoria partecipa alla disperazione della madre. Tuttavia, mentre il fuoco annichilisce la genitrice, Sally alza lo sguardo oltre le fiamme, verso il cielo sopra le cime degli alberi: un gesto spontaneo che rivela come abbia intuito e accettato la distruzione come evento liberatorio.

Anche Nelson, durante la sua prima giornata in città, polemizza con il nonno, ma ne assimila i pregiudizi razzisti. È il tradimento perpetrato dal vecchio che rifiuta di riconoscerlo come proprio nipote a devastarli e a permettere a Nelson una diversa visione: solo, davanti alla statua in gesso di un servo nero, il bambino comprende il senso profondo della sofferenza imposta dall’egoismo altrui. Accetta quindi di tornare a casa con il nonno che ha compreso il proprio errore e di reimpostare il loro complicato e animoso rapporto. Al sicuro, Nelson dichiara «in città ci sono stato una volta e non intendo tornarci più»: metaforicamente, compie così la scelta decisiva che mostra come abbia compreso il significato profondo di ciò che ha vissuto, ne rifiuti la sofferenza fine a sé stessa e si predisponga a nuove prospettive.

In modo molto diverso, Ruller, Mainley e la Bambina evolvono verso il gesto cruciale solo grazie alle proprie capacità di pensare, sognare e fantasticare. La storia di Mainley, inedita fino al 1988, è una rielaborazione dell’originale Il tacchino, in cui il bambino appare come la versione più matura di Ruller. In entrambe le storie, l’arrivo di un tacchino selvatico ferito nel bosco dove di solito giocano risveglia in loro il desiderio di catturarlo come occasione di riscatto nei confronti di genitori assenti. L’orgoglio per averlo sulle spalle induce, soprattutto Mainley, a ritenersi potente come Dio e a sfidarlo con un ricatto: un atto che O’Connor specifica dettato dalla ragione, che ancora domina il sentire del bambino, e che Maritain considera una realistica possibilità di scelta.

Tuttavia, la conclusione del racconto riporta i protagonisti nella condizione di compiere l’atto in modo autentico: dopo che il tacchino viene loro rubato, corrono verso casa terrorizzati dalla certezza che “qualcosa di terribile” li stia inseguendo. La loro trasformazione da predatori in prede indica la completa rivoluzione del loro stato e simboleggia il ribaltamento spirituale per mezzo del quale, anche se in modo germinale e confuso, riconoscono che la vita è un mistero razionalmente insondabile in relazione a Dio.

Più che una scelta, la loro è un’intuizione come lo è inizialmente per La Bambina. Scorbutica e impertinente, cosciente di possedere insolite capacità intellettive, si considera migliore di chi le sta attorno, soprattutto delle due cugine adolescenti che inconsapevolmente le “regalano” l’espressione paolina secondo cui il corpo è “il tempio dello Spirito Santo” (1 Cor 6, 19), di cui coglie il valore intrinseco, parole che rimbalzano in lei come un rompicapo irrisolto. Di ritorno dalla fiera locale, involontariamente le cugine alludono all’ermafrodito nel tendone delle curiosità e le riportano le sue parole:

«Dio mi ha fatto così e io non lo metto in discussione». Le cugine si rifiutano di soddisfare oltre la curiosità della bambina che si addormenta e sogna, un momento che Maritain considera decisivo per i bambini più grandi perché permette loro di ricomprendere l’atto compiuto da piccoli: è lei, ora, il fenomeno da baraccone che risolve l’enigma del suo corpo non voluto e lo accoglie come dono di Dio.

E quelli che muoiono

Tra i bambini che la scrittrice crea, sette muoiono. O’Connor e Maritain condividono la dottrina cattolica della morte come il momento in cui una persona ritorna «all’innocenza perduta a causa della caduta», se la sua esistenza è stata una partecipazione «alla Redenzione a opera della morte di Cristo».

Mentre il filosofo vi accenna solo, O’Connor affronta il tema della morte infantile nell’Introduzione alla biografia di Mary Ann, una bambina morta di cancro facciale dopo anni di sofferenza. La scrittrice riconosce come la morte di un bambino diventi comunemente l’occasione per screditare la bontà di Dio, e propone di affrontare l’esempio lasciato dalla piccola da una prospettiva inversa: la domanda che ritiene giusto porre non è «perché è morta?», bensì «perché Mary Ann è vissuta?».

E vi trova un’unica risposta: la vita della bambina è stata «ricca e piena», perché grazie alla sua «intelligenza naturale» e all’«appropriata educazione» ha saputo trasformare le sue difficoltà in occasioni per rendere la propria esistenza «un’azione creativa in preparazione alla morte in Cristo». Questo stesso pensiero è rintracciabile nelle vicende dei tre piccoli protagonisti che muoiono, storie che, essendo state scritte e pubblicate anni prima delle riflessioni su Mary Ann, testimoniano come le convinzioni di O’Connor non siano mai radicalmente mutate, ma si siano solo arricchite nel corso del tempo.

Già all’inizio della carriera aveva lasciato allibito un intervistatore con la sua affermazione che la morte di Harry/Bevel, che a cinque anni si annega convinto di raggiungere il luogo in cui «davvero conterà», lo aveva salvato dal ben peggiore destino di diventare come i suoi insulsi genitori, che di nome fanno Ashfield.

Se Harry/Bevel patisce per la disattenzione, Mary Fortune subisce le rabbiose percosse del padre che sfoga su di lei il livore verso il suocero e Norton sopporta la violenza psicologica del padre che gli nega la possibilità di ricordare la mamma morta. Contesti specifici ai quali i bambini reagiscono in modi diversi, ma seguendo lo stesso copione: autonomamente compiono l’atto che indirizza le loro esperienze verso l’autentica libertà di cui hanno percepito l’esistenza, e la perseguono fino alla morte.

Mary Fortune è straordinariamente simile al nonno, tanto che questi la considera una replica di sé, fino al giorno in cui la bambina rivela di avere una propria solida personalità e si oppone alla decisione del nonno di vendere un pezzo della loro proprietà terriera a un’impresa edile perché questo impedirebbe di continuare a godere della vista del bosco.

In una famiglia che le ha insegnato solo rabbia, prevaricazione e sopruso, Mary Fortune risponde con la stessa violenza quando abbandona il nonno: è l’atto che la libera dalla sua presenza ossessiva e la conferma nella determinatezza a difendere la vista del bosco che, riprendendo i termini di Maritain, concretizza per la bambina la percezione non-concettuale di un bene superiore. Il nonno non si arrende e nello scontro finale, che diventa un attacco fisico, la uccide. La presenza della grazia divina concessale con l’atto di libertà e il suo persistere nella decisione di perseguire il bene trasformano Mary Fortune in una martire e la sua morte nel momento della sua rinascita in Dio.

Con la signora Connin, la babysitter che vive in campagna, Harry scopre un mondo completamente diverso da quello che conosce in città con i genitori e decide di cambiare il proprio nome in Bevel, in omaggio al predicatore che la signora stima e dal quale lo accompagna per essere battezzato. La donna fa scoprire al bambino che il cibo si cucina, che la casa può essere colorata e accogliente, il calore degli abbracci e soprattutto che è stato creato da Gesù. Il mattino successivo il bambino, mentre si aggira nella casa dei genitori vuota e sporca, rinviene le scarpe bagnate durante il battesimo al fiume e ricorda le parole del predicatore: «adesso tu conti».

Le scarpe sono il dettaglio che passa inosservato, ma che secondo Maritain diviene stimolo all’atto di libertà: il bambino abbandona l’appartamento e corre al fiume, perché è sicuro che il luogo in cui conterà, in cui verrà curato e amato si trova proprio lì, dove il predicatore l’ha immerso. Sforzandosi di rimanere sott’acqua il piccolo afferra «la mano gentile» della corrente, raffinata metafora della grazia divina, che lo conduce con sé. La descrizione del bambino, che avverte le paure e la sofferenza abbandonarlo, e del cielo sereno che sembra avere un’apertura nel mezzo compartecipano a creare l’immagine simbolica che la morte fisica sia solo il preludio al suo arrivo nell’agognato luogo dove «davvero conta».

Il delicato tema del suicidio

La storia di Norton è solo apparentemente molto simile a quella di Harry/Bevel, perché la maturità artistica e l’approfondimento del pensiero teologico di Teilhard de Chardin consentono a O’Connor di fornire dettagli simbolici che arricchiscono il significato della storia a ogni nuova lettura. Norton si trova a confrontare la conoscenza del cielo come spazio fisico esplorabile dall’intelligenza umana, proposta dal padre psicologo, con la comprensione biblica del cielo come luogo opposto all’inferno offertagli da Rufus, il ragazzo dell’orfanotrofio che il genitore accoglie in casa.

Quando Rufus, per rabbia nei confronti di Sheppard, conferma a Norton che solo morendo può raggiungere la mamma in cielo, il bambino compie l’atto maritainiano scegliendo di credere a Rufus. Nonostante le insistenze del padre, Norton non cede e i suoi occhi blu che acquistano sempre più vivacità e brillantezza confermano che la grazia divina è con lui mentre sfrutta il progresso tecnologico, il telescopio acquistato dal padre per stimolare l’intelligenza di Rufus, per i suoi fini spirituali: sondare il cielo e trovare la madre.

Quando la individua si impicca felice di poterla finalmente raggiungere. Nonostante i critici abbiano interpretato la morte del bambino come un espediente narrativo in funzione dell’evoluzione spirituale del padre, o come una inutile violenza, o anche come l’assurda conclusione per un racconto che la stessa O’Connor considerava poco riuscito, nessuno ha additato la possibilità che si tratti di un suicidio.

Nella precisione dei dettagli si coglie come Norton, pur nell’autonomia della sua decisione di morire, non pensa mai alla morte e non la desidera, ma la considera un mezzo, l’unico strumento a sua disposizione per raggiungere, o con de Chardin, convergere nell’“amore” che l’inferno del padre gli nega.

Senza nulla togliere all’ortodossia cattolica della fede di O’Connor, la morte del bambino acquista valenza spirituale anche quando letta secondo il pensiero di de Chardin: il ricordo della madre è per Norton il centro, la forza e il fine ultimo, è il suo Punto Omega. È infatti la presenza spirituale materna il motivo per ogni attività del bambino, il fulcro dei suoi interessi e la sua agognata méta finale. Così per Norton la morte diventa il «punto critico nell’evoluzione», la «trasformazione profonda», essenzialmente la sua metamorfosi dall’incompletezza di essere umanamente concreto alla completezza spirituale.

Una metamorfosi che la O’Connor prospetta già all’inizio della storia quando paragona il bambino chiuso nel proprio dolore a «una larva nel suo bozzolo»: una metafora che lascia presagire la bellezza dell’evoluzione finale.

Diversa, invece, è la lettura dei quattro bambini non protagonisti che muoiono. I tre fratellini Wesley vengono uccisi dal Balordo insieme ai genitori, ma la loro morte è contestuale e necessaria a quella della nonna. Dagli elementi descrittivi si può solo dedurre che O’Connor intendesse il loro massacro come un momento di passaggio a un altrove sereno, ma nulla consente un’interpretazione della loro morte come momento redentivo.

Bishop, il figlio mentalmente disabile di Rayber, pur non essendo un protagonista secondo la concezione narrativa di O’Connor perché non compie scelte e non si evolve, è il centro propulsore delle azioni di tutti i personaggi principali del romanzo: la sua vita – inutile secondo il padre psicologo, ma importante per il prozio profeta Old Mason – e la sua morte, perpetrata per annegamento dal cugino Francis, catalizzano e dirigono i pensieri e le scelte degli adulti attorno a lui a tal punto che è possibile leggere nella sua presenza una metafora di Cristo.

In una lettera, Flannery O’Connor confessa che tra gli otto e i dodici anni aveva l’abitudine di chiudersi in cameretta e di vorticare per la stanza con i pungi chiusi «nella speranza di colpire l’angelo custode o almeno di insozzargli le piume»: un ricordo potente che riecheggia la lotta spirituale che ha accompagnato tutta la sua vita e quella dei “suoi” bambini.

Note
Il quaderno speciale di questo fascicolo di Sc è dedicato alla scrittrice americana Flannery O’Connor (Savannah, 25 marzo 1925 – Milledgeville, 3 agosto 1964), tra le più importanti esponenti della letteratura del Sud degli Stati Uniti. Curatrice e autrice dell’approfondimento è Fernanda Rossini, insegnante, saggista e traduttrice, tra le maggiori studiose di O’Connor in Italia. Per Ares Rossini ha pubblicato la prima biografia in italiano di O’Connor (Flannery O’Connor. Vita, opere, incontri – 2020, pp. 360, euro 18) e l’invito alla lettura John Steinbeck. Voce inquieta del sogno americano (2023, pp. 232, euro 18), un viaggio nell’opera letteraria dell’autore della Valle dell’Eden e di Furore.
Nel primo contributo, Rossini esamina i protagonisti-bambini degli scritti di O’Connor, specchio per lei della vita degli adulti. Segue poi un’intervista di Fernanda Rossini con il professor Mark Bosco, che insegna nei dipartimenti di inglese e teologia della Georgetown University di Washington ed è co-regista del premiato film-documentario sulla scrittrice Flannery O’Connor. Chiude il quaderno il contributo di Alessandro Matone che ha compiuto un viaggio in Georgia nei luoghi dove ha vissuto Flannery O’Connor.

L’editrice romana Minimum Fax ripropone i testi di Flannery O’Connor: la raccolta di saggi e lettere Un ragionevole uso dell’irragionevole (2019) e, con le nuove traduzioni di Gaja Cenciarelli, i romanzi Il Cielo è dei violenti (2020), La saggezza nel sangue (2021) e Il geranio e altre storie (2023) e le raccolte di racconti Un brav’uomo è difficile da trovare (2021) e Punto Omega (2022). Il testo su Mary Ann è compreso ne Il volto incompiuto, a cura di A. Spadaro, Bur 2011.