Mark Bosco, S.J. è vicepresidente della Mission & Ministry alla Georgetown University di Washington, negli Stati Uniti, dove insegna nei dipartimenti di Inglese e Teologia. Il suo ambito di studi e ricerca si occupa principalmente dell’estetica teologica e dell’intersezione tra religione, cultura e arte soprattutto per quanto concerne la tradizione letteraria cattolica del ventesimo secolo.
È autore di numerosi studi critici e in particolare è coproduttore e co-regista del premiato film-documentario sulla scrittrice Flannery O’Connor, che è stato anche trasmesso a inizio 2021 dal canale pubblico nazionale nella serie American Masters.
In collaborazione con la Civiltà Cattolica ed il suo ex direttore padre Antonio Spadaro ha organizzato “The Global Aesthetics of the Catholic Imagination Conference”, giornate di studio e confronto sul tema che si sono svolte a Roma dal 25 al 27 maggio 2023.
I libri che ha scritto e il film documentario “Flannery”, che ha diretto con Elisabeth Coffman e che ha vinto un importante premio dalla Biblioteca del Congresso, rivelano la sua profonda conoscenza della vita e dell’opera della scrittrice: cosa l’ha inizialmente attratta e cosa ancora la affascina di F. O’Connor?

Sono stato attratto e qualche volta posso dire anche perseguitato da Flannery O’Connor fin dall’università. Quando ho iniziato a interessarmi e a fare ricerca sulla tradizione letteraria cattolica degli scrittori inglesi e statunitensi, ho scoperto che il lavoro di O’Connor è sui generis.

Nel Ventesimo secolo non c’è nessuno come lei, su nessuna delle due sponde dell’oceano Atlantico. Lei non è solo una scrittrice a cui capita di essere cattolica: è una scrittrice con un’immaginazione profondamente e strutturalmente teologica. Gran parte del piacere nel produrre il film-documentario è stato mappare il suo lavoro ponendolo in relazione alle opere che stava leggendo e alle lettere che scriveva agli amici. Mi ha lasciato allibito la sua libreria personale: contiene libri di Tommaso d’Aquino, ma anche di Karl Barth; c’è santa Caterina da Genova, ma anche Martin Heidegger. E ha scandagliato l’opera di Pierre Teilhard de Chardin.

Infine, sono ancora affascinato da quanto il suo lavoro sia trasgressivo benché le sue storie abbiano origine in una comprensione intellettualmente ortodossa della fede cattolica.

Come per esempio, alla fine del racconto Un brav’uomo è difficile da trovare rimangono sul terreno molti corpi assassinati, e tuttavia c’è questo momento di grazia fra la nonna e il Balordo. O anche, nel racconto Il Tempio dello Spirito Santo è l’ermafrodita il personaggio che porta la profondità simbolica della visione cristiana della dottrina dell’Incarnazione.

O’Connor ci costringe a vedere che se si cerca il corpo di Cristo nel mondo di oggi, lo si trova molto più facilmente in ciò che lei chiama “freak” e che noi potremmo definire come coloro che sono marginalizzati e incompresi dalla società.

Il film documentario svela anche quanto lei si sia avvicinato a testimonianze che mostrano aspetti poco conosciuti della vita personale e professionale di O’Connor. Nelle poche pagine del diario di adolescente che lei ha pubblicato sulla rivista Image (numero 94, autunno 2017), O’Connor dichiara sicura «Oggi mi dedico al realismo. Diventerò una realista. (…) Devo scrivere un romanzo». Qualche anno dopo, nel Diario di Preghiera, implora «Non farmi nemmeno pensare, caro Dio, che io non sia altro fuorché lo strumento della Tua storia – proprio come la macchina da scrivere lo è per me». Sono solo le parole di una giovane Flannery che sta cercando la propria voce, o sono i pilastri portanti sui quali poggia la sua vocazione a diventare un’artista?

Penso che i due diari siano un poco tutte e due le cose: O’Connor sembra provare il genere letterario del diario per comporre i suoi pensieri, per articolare in parole la sua vocazione di scrittrice. Mentre sperimentava la propria voce, stava anche trovando e definendo la propria vocazione. In quei momenti il diario rappresenta per lei la forma stilistica più adeguata e l’esercizio migliore per scoprire che tipo di scrittrice sarebbe diventata: devota al realismo e immersa nella teoria letteraria imperante in quel momento, il New Criticism.

Tutta l’intensa attività concreta di scrivere è portata avanti nel mezzo della sua chiamata spirituale. Persino da molto giovane, O’Connor è una degli autori più autoconsapevoli che abbia mai letto. Era perfettamente cosciente di quanta ambizione e talento ci fossero nei suoi pensieri e nel suo sogno di diventare un’artista, e comprese quanto disordine ci fosse in tutto questo.

Penso che sia il diario scritto durante i suoi giorni al college sia il diario di preghiera tenuto mentre era a Iowa al corso per scrittori ci mostrano una O’Connor intenta a ordinare la sua vita e le sue ambizioni verso Dio, verso il trascendente. Lei combatte con le sue motivazioni, con la sua disposizione interiore e prega di riuscire a fare qualcosa che vada oltre il suo intendere la notorietà e la fortuna. Come T.S. Eliot nota nei Four Quartets: «il più grande tradimento è fare la cosa giusta per la ragione sbagliata», ritengo che O’Connor volesse comprendere il profondo senso dei suoi talenti per poterli usare per la ragione giusta, ordinati per la gloria di Dio e non per il suo proprio ego.

Flannery O’Connor era perfettamente consapevole che «le due circostanze che hanno dato carattere alla mia scrittura sono l’essere cattolica e del sud», come si intersecano questi due aspetti nelle inquietanti storie che scrive? Cosa significava per uno scrittore degli anni Cinquanta essere del Sud? Quale importanza ha per O’Connor essere del Sud?

La fede cattolica ha offerto O’Connor un luogo intellettuale e storico da cui osservare lo smantellamento della segregazione razziale nel Sud in cui viveva.

Il suo cattolicesimo l’ha aiutata a dar forma all’arco drammatico delle sue storie, storie che prendono sul serio la teologia dell’incarnazione, per cui se Dio in effetti diventa carne, allora qualsiasi cosa può rivelare Dio.

I suoi racconti, in particolare, riflettono le dinamiche della parabola, in cui le opinioni e le credenze precostituite dei personaggi (e dei lettori) vengono ribaltate o suscitano il senso del mistero che è al cuore della condizione umana.

Le sue storie narrano tutte atti di redenzione, illuminando il momento in cui un personaggio intuisce qualche consapevolezza di sé stesso o è degradato a causa delle proprie presunzioni e atteggiamenti ipocriti. A questo fine, O’Connor utilizza la geografia del Sud che conosce, le cadenze del razzismo e del classismo che supportano le maniere culturali del Sud del suo tempo. Molti dei suoi personaggi sono persone del Sud che hanno osato avventurarsi nel mondo “moderno”, che spesso è identificato con il Nord degli Stati Uniti o l’Europa della Seconda Guerra mondiale, e lo hanno trovato strano e sconvolgente, non importa se costoro sono veterani di guerra o studenti universitari infelicemente bloccati a casa. Tutti i suoi personaggi mostrano un forte senso di angoscia esistenziale verso i cambiamenti nello stile di vita del loro Sud.

Nell’American Poets’Corner della cattedrale di St John the Divine a New York è stata posta nel 2014 una lapide in onore di Flannery O’Connor che riporta la frase considerata più rappresentativa dello spirito della scrittrice: «Posso considerare, con un occhio guercio, tutto questo una benedizione». O’Connor l’ha scritta in un momento molto doloroso e complicato della sua breve vita: in che maniera effettivamente la malattia ha inciso nella sua esistenza e nel suo praticare la scrittura?

O’Connor ha vissuto l’esperienza della morte del padre a causa del lupus, e ritiene di avere solo un breve periodo di vita davanti a sé, anche se conviverà con la malattia ben quindici anni, molto più dei tre anni del padre. In effetti sì, penso che la lotta di O’Connor con la malattia abbia intensificato il suo senso di vocazione a essere una scrittrice e, forse, abbia rafforzato la sua risoluzione a rendere la scrittura la sua unica occupazione, soprattutto dopo che i suoi sentimenti per il rappresentante editoriale danese Erik Langkjaer rimasero non corrisposti. Da quel momento in poi, sembra esserci uno sforzo concertato a dedicare ogni cosa alla disciplina dello scrivere. Ritengo che la disciplina creativa e immaginativa dello scrivere fu per lei grazia salvifica.

Flannery O’Connor non ha scritto solo narrativa, ma anche saggi e moltissime lettere raccolte in un primo corposo epistolario al quale negli ultimi anni si sono aggiunti altri volumi: quale ritiene sia la forza che emerge dalle parole che O’Connor ha affidato a queste pagine?

Leggere le lettere di O’Connor è ogni volta una rivelazione per me. Credo davvero di essermi innamorato delle storie di O’Connor solo dopo aver letto l’epistolario curato ed edito dall’amica Sally Fitzgerald. Nella sua corrispondenza con così tante persone diverse si fa esperienza del suo acume e della sua saggezza. C’è una generosità di spirito in tutte le lettere agli amici e ai colleghi.

E l’amicizia, si nota, è davvero tutto per lei, soprattutto mentre è sempre più costretta a risiedere ad Andalusia, la fattoria. L’amicizia è tutto per lei e la dedizione verso gli amici mi sorprende e mi spiazza.

Sappiamo della forma profondamente teologica della sua vita dalle lettere a Betty Hester. Quando Hester le rivela le proprie inclinazioni sessuali o lascia la Chiesa cattolica, O’Connor non permette che questi aspetti interferiscano nel profondo legame d’amicizia che le unisce. E le lettere di O’Connor a Maryat Lee ci permettono di cogliere sia il profondo senso ironico che condividono, sia le sfide che il razzismo e il movimento per i diritti civili, che sconvolgono gli Stati Uniti negli anni Sessanta, pongono alla loro amicizia. Infine, per quanto riguarda i suoi saggi, so che sono ancora tutt’oggi studiati e usati nei corsi di scrittura, perché in essi ha composto il vocabolario del realismo cristiano sia per l’artista che per il lettore.

Per un lettore alle prime armi, da cosa consiglia di iniziare? Ma soprattutto, perché consigliare di leggere la O’Connor ancora oggi?

Penso che uno debba sempre iniziare dai racconti, perché è ciò che ha fatto meglio ed è ciò che continua a essere antologizzato nelle raccolte di racconti in America e in gran parte del mondo. Se dovessi indicare alcuni dei miei preferiti, sarebbe davvero difficile. Comunque, al momento i quattro che sono al top della mia classifica personale sono: Un brav’uomo è difficile da trovare e Il profugo della prima raccolta e Punto Omega e Rivelazione della seconda. In seguito, arriverei ai romanzi e alle lettere.

Ritengo che O’Connor dovrebbe essere diffusamente letta ancora oggi, perché ci sono ben pochi scrittori che parlano così bene e in maniera così corretta della condizione umana. Lei crea un mondo che al primo sguardo ci sembra estraneo e grottesco, ma che in fondo, riflette perfettamente le disfunzioni dell’uomo del nostro tempo. E per concludere, è un’autrice che non ha paura di guardare nell’oscurità della nostra condizione umana, ma che offre sempre un barlume di speranza, di grazia, di trascendenza.