Pubblichiamo in queste pagine stralci dell’introduzione di Armando Torno a Fëdor Dostoevskij. Nostro fratello (Ares 2021, pp. 14, euro 160).

Mi sono convinto negli anni che per capire uno scrittore bisogna riuscire ad amarlo; occorre conviverci, litigare, discutere animatamente con la sua prosa e i trucchi che escogita, mandarlo al diavolo per avergli consegnato il nostro tempo, forse tradirlo, infine pentirsi dello sgarbo commesso. Gli amori letterari non vanno confusi con quelli alimentati dai sensi, anche se entrambi nascono dopo un primo incontro, e si solidificano o consacrano con qualcosa di simile a quella che un tempo era la notte seguente le nozze (ora chi ne parla senza riderne di buona maniera?). In genere, i sentimenti umani si adagiano sulle abitudini, e da esse si lasciano governare; quelli letterari cercano il più delle volte di evitarle, perché in ogni circostanza sono a caccia di una situazione o carattere o problema di cui sospettavano l’esistenza, e ne inseguono guardinghi le prove. Perché entrare nei testi, cogliere questo o quell’aspetto, un’idea, il fallimento di un progetto o qualcosa di simile assomiglia a un disperato atto d’amore, soprattutto verso sé stessi. Insomma, le nozze evocate c’entrano rarissimamente; possono anche capitare, ma restano un’eccezione. Non è il mio caso, lo ripeto: mi sono occupato di Fëdor Michajlovič prima per diletto (e non nego di essere in tal materia un dilettante), poi affascinato dalla sua ingegneria narrativa, infine perché è un autore che spiega meglio di numerosi altri i problemi che assillano la società contemporanea. Non desidera offrire soluzioni, che forse sono introvabili, ma indica la via per porle in evidenza o identificarle senza finzioni. Si direbbe che tutta l’opera di Dostoevskij sia stata scritta seguendo una risposta che Eckermann registrò nei suoi Colloqui con Goethe: «L’uomo non è nato per risolvere i problemi del mondo ma per cercare dove il problema comincia, al fine di tenersi nei limiti dell’intelligibilità».

Un incontro folgorante

Preciso comunque che l’incontro con l’opera di Fëdor Michajlovič avvenne nell’altro millennio, trasformandosi in impegno nei primi quattordici anni del corrente secolo. Era un tempo in cui mi recavo pressoché mensilmente in Russia per realizzare servizi per il Corriere della Sera, il giornale di cui ero editorialista e, in un primo tempo, responsabile delle pagine culturali. Dostoevskij, per dirla in termini semplici, fu un autore cui mi avvicinai lentamente. Mi occupai di lui in una fase iniziale dei miei servizi con articoli sulle sue case, quella di Mosca e l’ultima, a San Pietroburgo; poi Giovanni Reale – dopo che descrissi la copia dei Fratelli Karamazov appartenuta a Stalin, quando ne visitai i resti della biblioteca – m’invitò ad approfondire e ripensare tale autore nei giorni che trascorrevo in quella terra infinita che più di ogni altra sa rubare il cuore. Va aggiunto che Reale considerava Dostoevskij un filosofo e lo definiva scrittore d’idee. Inutile aggiungere che aveva valide ragioni. E che era in anticipo su altri.

Dostoevskij non è autore facile. Non possedeva la capacità narrativa o la forza epica di Tolstoj, né sapeva calcolare i silenzi o anatomizzare gli sguardi dei personaggi al pari di Čechov, ma la sua opera sfugge da ogni teorizzazione. Anzi, è lui stesso che fa perdere le tracce alle idee che mette in gioco, perché l’unica che sembra lo interessi veramente è quella di Dio. Le azioni umane non sembrano intelligibili senza di Lui. Fëdor Michajlovič riprende il tema romantico della doppiezza, ma lo esaspera; cerca le situazioni estreme, denuda impietosamente la coscienza dei suoi eroi lacerandola, crea senza requie uno spasmodico crescendo utilizzando i conflitti dei pensieri. I personaggi non li lascia tranquilli e si direbbe che in ogni pagina stiano lottando con la propria mente. A un moto dell’animo contrappone l’opposto, non evita il demoniaco, né l’allucinazione. Qualcuno testimonia che spesse volte davanti ai fogli di carta bianchi piangesse, perché credeva che tutto fosse stato già scritto. Tuttavia, quando parla di Cristo la sua sintassi si fa originale, chiara, riverente, ma riesce ad avvertire il lettore che il Figlio di Dio è anche frutto d’infinita ricerca, di angoscia. E in questo suo dibattersi, si trova davanti la Chiesa. Che volto ha questa istituzione per Dostoevskij? Quello del Grande Inquisitore che ricondanna Cristo? O quello che ha saputo ispirare esperienze monastiche di cui fanno parte, restando nei Fratelli Karamazov, le figure di Alëša e dello starec Zosima?  Di certo la sua fede non è qualcosa di definito, di sicuro cui aggrapparsi. È dubbio, ricerca esasperata, che talvolta si trasforma in tormento. Fëdor Michajlovič si pone interrogativi che di frequente si trasformano in disperazione. Non è un ortodosso osservante, ma ritrova una sua religiosità quando sconta la pena in Siberia; comunque è bene non considerarlo al pari di un fedele praticante, nel senso che si può dare a questo termine. Nell’Adolescente, del 1875, appare Versilov, rappresentante del ceto colto russo: è favorevole a concezioni appartenenti all’ateismo e Dostoevskij sembra giungere a rivalutazioni del nichilismo criticate nei precedenti Demoni. D’altra parte, le frasi che non mancano nelle sue opere riguardanti la luce recata da Cristo, e si trovano anche nelle lettere, devono essere continuamente pensate in contrapposizione con angoscianti domande che si pone e che sembra urlare a Dio stesso in attesa di una risposta che non giunge. Come questa: «Signore, perché i bambini muoiono?». Non trovando ragioni, dopo aver rifiutate le attenuanti, tale quesito, come altri di notevole forza, lo ripresenta sotto forme diverse o camuffate, sino a provocare i brividi al lettore. L’uomo sembra creato non per la felicità dell’ordine e della quiete, ma per una salvezza in Dio, pagata con il male, l’odio, la bassezza, la disperazione, il delitto.

Si giunge a una regola, che governa tante pagine di Dostoevskij: occorre tener sempre conto di Dio e, al tempo stesso, dubitarne, interrogarlo, non arrendersi dinanzi al suo silenzio. Il dramma che egli vive continuamente e alimenta senza posa si trova in una sua frase, una sorta di messaggio in bottiglia che lascia ai posteri: Fëdor Michajlovič si sente «tormentato da Dio». Per questo oscilla tra il Cristo che si presenta con l’amore che forse lo ha costretto a rivelarsi e l’ateismo che desidera trovare pace nel mondo delle assenze. L’uomo sulla croce spesso diventa la sua via di fuga dalle incalzanti questioni del nichilismo. Nei Fratelli Karamazov Ivan non accetta l’idea che Dio possa servirsi della sofferenza per realizzare quella riconciliazione della fine dei tempi che si attende. Rifiuta tutto ciò perché – osserva ancora tale personaggio – se per raggiungere quell’armonia finale occorre anche una lacrima di un solo bambino, non è possibile accettarla. Già, una lacrima: è questo semplice rivolo a dimostrare l’assurdità del mondo, l’inesistenza di Dio, il fallimento della redenzione. Poi Ivan, che riflette anche i tormenti di Dostoevskij, si accorge e giunge a comprendere che se Dio non esistesse «tutto è permesso».

Cercatore di contraddizioni

Al pari di Nietzsche cerca le contraddizioni, evita continuamente di risparmiarle e le mostra in tutta la loro problematicità. Non è autore di un sistema di pensiero che riesca a spiegare o giustificare i fatti. Per tal motivo non conviene tentare giudizi definitivi sulle concezioni di Dostoevskij, ricordandosi che per lui i contrasti aiutano a pensare, a dubitare, a comprendere che la vita umana e la società avranno sempre zone oscure e inesplorabili. Leggendolo ci si accorge che non scrive per accattivarsi il lettore; piuttosto cerca di scuoterlo, interrogarlo, portandolo dinanzi a situazioni difficili, cruciali. Per questo assomiglia a un fratello maggiore che desidera educarci e ricorda in ogni occasione quanto sia difficile capire le vite e le cose. Le storie a lieto fine non fanno parte del mondo che descrive. E se si dovesse scegliere un genere per inserire la sua opera, dovremmo indicare la letteratura poliziesca, senza però alla fine pretendere di scoprire il colpevole. Incendi, stupri, assassini, stati vari di pazzia, situazioni morbose, intrighi, lettere anonime, sostituzioni di persona et similia sono le coordinate in cui si consumano le sue pagine. La legge, lo Stato, le istituzioni sono sullo sfondo, ma non c’entrano con la verità. Si prenda per esempio la trama di Delitto e castigo (1866), uno dei suoi libri più fortunati: ci si trova dinanzi all’idea – uso le sue parole, tolte da una lettera – che «la pena giuridica comminata per il delitto spaventa il criminale molto meno di quanto pensino i legislatori, in parte perché anche lui stesso, moralmente, la richiede».

Autore lontano dai romanzi che si evolvono con prosa fluente, Dostoevskij non è nemmeno un moderato protagonista di cronache mondane o follie sentimentali. Byron o D’Annunzio sono, per que­st’ultimo aspetto, i suoi opposti. Non doveva essere un bell’uomo, nemmeno uno di quei brutti che piacciono; seguendo i suoi giorni si scopre che fu malinconico, solitario, epilettico e che i pochi amori – poi addossati ai suoi personaggi, siano essi Rogožin o Myškin – sono chiamati a vivere i problemi, a volte maledetti, che i sentimenti celano in sé. Nel Giocatore, scritto in meno di un mese, anzi dettato alla futura moglie Anna Grigor’evna Snitkina, descrive un vizio che ben conosceva e che lo aveva divorato. In tal caso egli offre al lettore un’analisi insuperabile del gioco, un’istantanea dei modi e della forza con cui il demone dell’azzardo sa possedere gli esseri umani. In queste note, ve ne sarete accorti, ho cercato di raccogliere i pensieri di anni, alcune impressioni che mi hanno accompagnato nel tempo durante la stesura dei testi. Ho evitato gli aspetti politici, o almeno li ho accennati solo occasionalmente, perché si dovrebbe affrontare una serie di tematiche complesse della tradizione slava. Dostoevskij comunque sfugge. Spiace ammetterlo, ma sovente è impossibile inseguirlo tra difficoltà finanziarie e cattive condizioni di salute, nel continuo peregrinare e nella stesura delle sue opere. Le quali, a cominciare dalle Memorie del sottosuolo (1864), assumono sempre più forza, si caricano di problematiche, portando l’autore verso una concezione tragica del mondo in cui spicca la sofferenza. Prima di quest’opera Fëdor Michajlovič ci offre pagine permeate di socialismo umanitario: si trovano in Povera gente (1846), in Memorie di una casa di morti (1861) e in Umiliati e offesi (1862).

Dopo le interpretazioni di Nietzsche i romanzi del sommo russo cominciano a essere studiati per il loro contenuto filosofico, che si potrebbe sintetizzare sostenendo che essi testimoniano espressioni del nichilismo; gli esistenzialisti si accorsero che c’era anche altro, come per esempio l’appello al subcosciente o alla dialettica dell’anima. I personaggi dei libri di Dostoevskij si prestano anche a ulteriori interpretazioni, giacché si direbbero imponderabili, mossi da qualcosa che li spinge al fanatismo. Il tema dell’irrazionalità è sempre da tener presente, perché la prosa interroga e tormenta ogni situazione.

Fëdor Michajlovič scrive anche una nuova pagina sull’eterna questione del male, giacché l’assurdità e lo scandalo che esso rappresenta si possono giustificare credendo che Dio lo abbia preso su di sé, venendo sulla Terra e soffrendo come un uomo, subendolo insomma, non lasciandolo soltanto alle sue creature. Se non è possibile rispondere alla domanda «Perché c’è il male?», si riesce almeno a credere che Dio ha deciso di condividerlo con noi, rivelandosi. Senza l’incarnazione, il male – tiriamo le estreme conclusioni – rientrerebbe addirittura nella natura di Dio. Per questo se si toglie l’idea del trascendente e della rivelazione, si fa spazio inevitabilmente agli aspetti demoniaci; anzi i demoni sono coloro che cercano di costruire una società perfetta senza Dio.