Tre donne intorno al cor mi son venute… Con la mente a padre Dante, la nuova scelta di testi da leggere e sottoporvi questa volta l’ho compiuta a occhi chiusi, attingendo al banco più ampio di tutti, dove il mio libraio mette in mostra centinaia di novità e ristampe d’autrice di ogni parte del mondo, con un aggiornamento così pignolo da cogliere in castagna anche i lettori più consumati. Essendomi rivolto al settore delle narratrici di casa nostra, i titoli finiti in busta sono: Il gioco delle ultime volte di Margherita Oggero (Einaudi, Torino 2021, pp. 176, euro 18), Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi, Torino 2020, pp. 168, euro 18) e Il grembo paterno di Chiara Gamberale (Feltrinelli, Milano 2021, pp. 224, euro 18). Da un mare così pescoso, qualche buona scoperta dovrebbe pure saltar fuori.

Una madre paterna

Vediamo dunque insieme. E cominciamo da Chiara Gamberale, la scrittrice più giovane della comitiva (Roma, 1977) anche se ha già pubblicato con successo una buona serie di titoli, che vanno da Una vita sottile a Le luci nelle case degli altri, da L’amore quando c’era ad Avrò cura di te e a L’isola dell’abbandono. Titoli di una dilettante di lusso – non è Virginia Woolf, ma ci prova – sempre più disinvolta e ben sostenuta mediaticamente, grazie anche a una personale notorietà come voce affermata della radio e conduttrice televisiva. Gamberale è stata sposata fino al 2011 a uno scrittore, Emanuele Trevi (vincitore dell’ultimo Strega), e qualche anno dopo la separazione è divenuta madre di una bambina, Vita. Non è un caso, dunque, che il libro si avviti attorno al tema della maternità, anche se il titolo mostra di riconoscere ed esaltare, per ogni destino in formazione, l’apporto non meno fatale del secondo polo della coppia, il padre.

Il libro è del tutto privo di virgolettato. Intendo dire che la narrazione si annette continuamente pensieri e brani di dialogo dai personaggi più vari, e fra incontri e contrasti la storia di questa eterna adolescente sbatte contro menzogne e tradimenti, riuscite professionali e febbrili distacchi. Uno dei nodi della storia è proprio il rapporto con il padre, che la giovane Adele in qualche modo sembra replicare nella relazione sentimentale con il pediatra di sua figlia, Nicola, sposato e di alcuni anni più anziano: «Il classico puer aeternus che allude, illude e delude – si immischiano le amiche – un magnifico esemplare di narciso delusivo». La furiosa bulimia di cui Adele ha sofferto e soffre pare anche lo specchio della sua natura di ragazza caparbia, indipendente e ribelle.

«Un romanzo che ci insegna quanta fame si può avere di affetto e di parole» ha commentato Giulia Caminito. E Teresa Ciabatti: «Anatomia degli affetti e dei desideri. Spudorato, mai reticente, emozionante, magistrale». E Silvia Avallone: «Gamberale si spoglia di ogni difesa, reinventa la lingua, la tende a uno scopo: affrontare il Problema, perdonarlo. Ci racconta una verità disarmante, che i padri hanno un grembo, e non sono meno irreparabili delle madri». Al coro di osanna, ovviamente orchestrato dall’editore per il lancio del libro, non si sottrae neppure il professor Walter Siti: «Gamberale ha finalmente affrontato il suo Grande Fantasma, trovando una lingua nuova; oltre la geografia dei sentimenti, ci consegna un vero e proprio romanzo di formazione».

Per quel che mi riguarda, dissento purtroppo da questi giudizi e sarei assai meno esultante. Gamberale ha compiuto con apprezzabile furia lo sforzo di mettersi a nudo, di confessare qui tutti i suoi rancori i suoi appetiti, ma a mio avviso non riesce a persuadere fino in fondo i suoi lettori con questo ritratto di giovane madre e donna indomita, sempre desiderante e respinta. Che risulta, appunto, un «personaggio da romanzo» tra virgolette, cioè qualcosa di pesantemente costruito sul modello del proprio io, piuttosto che l’amaro portato di una adolescenza senza fine.

Arminuta II

La nostra seconda narratrice è la teramana Donatella Di Pietrantonio (Arsita, 1962), che esercita a Penne, nel suo Abruzzo, la professione di dentista pediatrico. Esplosa letteralmente nel 2017 con il suo terzo romanzo, L’Arminuta (Premio Campiello), poi reinventato in un bel film neorealista diretto da Giuseppe Bonito, ora ne propone in Borgo Sud – dal nome del quartiere marinaro di Pescara – il secondo tempo, cioè gli anni e le vicende della maturità delle protagoniste, che sono due sorelle: Arminuta, che fu da piccola affidata a un’altra famiglia, e Adriana, dal carattere forte e inarrestabile, con il suo uomo Rafael e il loro figlio Vincenzo.

«C’era qualcosa in me che chiamava gli abbandoni» concluderà aspramente Arminuta (questo il nomignolo che si porta dietro da piccola), dopo aver evocato i passaggi della propria esistenza, la morte amara della madre, il misterioso incidente di Adriana e la sofferta separazione dal marito Piero. Ed ecco che il racconto di una storia di famiglia, ambientata tra l’Abruzzo e Grenoble – dove infine la protagonista si stabilirà con il suo nuovo ruolo di docente – si snoda classicamente come la trama di una tragedia dell’amore non corrisposto (o mal corrisposto) tra chi si è amato e forse ancora si ama, e chi forse non si è amato e tuttavia vuole ancora restarci accanto, oltre ogni scontro o separazione.

In questo clima, che azzarderei a definire neoverista, la narratrice – letterariamente assai fine e acculturata – governa con sapienza le proprie emozioni e le nostre, fissando il tono della pagina con minime colorazioni e soprattutto con la scelta di tacere, senza spingersi innanzi, quando la tensione o la sensibilità morale per sé lo richiedono. Si esce da questo libro con l’impressione di aver sperimentato un animo femminile forte, un carattere trepido e fiero che accetta il mondo e le persone con saggezza, così come sono, anche se infinitamente distanti da come i nostri occhi le avevano sognate.

Riprovaci Margherita

E finalmente eccoci a Margherita Oggero (Torino, 1940), lunga carriera di insegnante e narratrice alle spalle. La prima impressione, ahimè, è che la brava Margherita qui semini a spaglio campioni della sua prosa torrentizia – dove si inseguono tic del parlato, parolacce travestite, sessioni di autocoscienza, rabbie furibonde, sbronze e sbuffi vari in inglese – credendo così di destreggiarsi in una trama aggrovigliata, che pare sempre di afferrare mentre scappa da ogni parte, e che invano le frasi sibilline della manchette fingono di sunteggiare a uso dei lettori più volenterosi.

Insomma, c’è francamente da perdersi in questo svolìo di post-it psicologici, domestico-turistici, narcisistico-sessuali, quando non ridanciani e livorosi, che non ad altro sembrano parare che a un inquieto e insano vivere, di volta in volta presentato come modello di bella vita o personalissimo naufragio. Forse, dal momento che la Oggero è stata autrice per la tv di Provaci ancora prof, il miraggio di una simile scrittura, che sembra aver superato indenne le maglie di un editing sonnacchioso o latente, è di alimentare trame e sottotrame di una ennesima fiction di consumo generalista, per spettatori finti giovani dal palato grosso. Pollice verso, dunque, per la nostra solerte Margherita Oggero. I motivi del disaccordo scaturiscono proprio dall’andamento (posso definirlo «fumato» a costo di inimicarmi la matura docente?) di questo suo ultimo affondo narrativo.