Per me è vero che tutto ha origine dal mare. Che tutto da esso ha inizio e fine. L’assoluto della potenza e della trasformazione. Niente sulla terra mi appare più vicino alla metafisica che raccoglie l’anima dei corpi, a specchio dello spirito. Liquida aria, liquida metamorfosi. Metafora e simbolo non solo del “Principio”, ma sopra tutto delle infinite sfumature della “differenza”: di ogni possibile distinzione all’infinito, della logica e della sua comprensibilità nella natura vivente, ben superiore al principio di non contraddizione. E insieme a questa percezione, non solo mentale, il senso del nutrimento e del valore: l’aisthesis: il piacere psicofisico corporeo che indica la gioia della poesia omerica: quello del cibo, dell’amore, del bagno, della danza. Quel piacere – terpein – impregnava tutto l’animo e il cuore. Ma era una gioia terribile, perché la poesia di Omero e di Apollo includeva la morte, che le frecce di Apollo scagliavano. Apollo era una luce che conteneva il suo opposto, la tenebra. Mentre thelgein, il piacere del fratello Ermes, nato dalla Notte, possedeva la luce più tenera di un fuoco moderato. Suo il regno dell’incanto e della magia, la seduzione del desiderio erotico, la cura e la mitigazione dei dolori: calma, quiete, suoni melodiosi: il sortilegio del sonno. E l’arte elusiva e inafferrabile dell’inganno, dissimulata in queste passioni irresistibili, come il potere pericoloso delle Sirene.

Un mare di simboli

Il mare è la mia Musa, perché nel mare ho scoperto i miei simboli: il disco del sole nascente, l’aurora e la madre, la luna e il firmamento, la vedetta sul porto (l’occhio glauco di Atena che fora l’orizzonte), il verde dell’erba sulla collina vicina, i giardini sotto le onde che ho sognato, i tesori delle pesche sottomarine, la rosa, Elena, e la soglia. Piccola, sola, uscivo dal cancello sulla sabbia, verso la riva. La luce riflessa sull’acqua, la prima emozione d’infinito, di sacro e di genesi, si estendeva alla collina che digradava morbida al mare, dov’erano nate le prime genti, posate come uccelli e fiori dei campi, trascolorate nel ruotare delle stagioni. Quel primo momento inafferrabile era un “sempre”: mai deluso, estasi e rimemorazione, fascino di storie fuse nel paesaggio, come se non fosse intervallo tra «la divinità e l’umanità», congiunte insieme in un solo soggetto, «formando una persona sola». (Leopardi, Zibaldone 3494-97, 22 settembre 1823).

“La mia Beatrice”

Fu quella del mare, l’esperienza della mia “natura originaria”. La mia “Beatrice” che mi fa ritornare sempre «da la santissima onda / rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda», come il principio della viriditas di Ildegarda, «quando tutte le creature erano verdi»: come la voce di Adamo nel paradiso perduto, che vuole «puro e disposto a salire a le stelle».

Lì sono i miei «interminati spazi» oltre la siepe della costa, i «sovrumani / silenzi, e profondissima quiete»: il momento di genesi di allucinazione e delirio, al quale segue «la sensazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo», la proiezione della vita che mi permette di impostare la poesia su lunghezze e ritmi percepibili fisicamente in totale libertà, senza paura di niente.

Lì la mente si congiunge con l’Anima del Mondo, con il giardino della Memoria del Mondo: il mare immortale dove germinano tutte le immagini vere. Lì sono nati i miei sogni marini, popolazioni alle quali devo la mia vita, insieme al respiro. Sognavo sempre il mare, le sue superfici, i fondali che percorrevo a piedi asciutti, raccogliendo tesori; il mare li celava e rivelava, dai suoi abissi ritratti: gli spazi della mente che cerca sé stessa, e si incanta sulle conchiglie, sui pesci, prima di cogliere l’oro.

Negli spazi della mente ci sono due ritmi primari, sui quali si accordano tutti gli altri. Nessuno dei due ha la precedenza. Sono sincroni. O meglio, ho adattato me stessa a loro. Sono stata un pesce, lo ricordo. Ma sono stata anche un uccello. Perciò sono diventata una nuotatrice. Come quei sognatori che quando sognano di volare non si mettono ali, né si infilano in un aereo o in macchine surrogate delle ali mancanti, volo con la forza delle braccia, delle reni, delle gambe, di tutto il corpo. Nel nuoto perdo ogni peso come volando. Non c’è cosa al mondo che io ami fare di più. Su tutto il corpo sento il contatto liquido, solido ed etereo insieme, del fluente sale, dove si è consolidato uno specchio dell’infinito. Lo sento tutto intorno a me e dentro di me; parte di me di cui sono parte, è il mare.

Avvolta e pervasa nello slancio, nello struggente movimento della madre vivente che è il mare, è una gioia grandissima. L’erotismo non è sessuale, ma sensuale. Nasce nell’utero materno, quando nuotiamo nell’amnios. Perciò io penso al mare come a mia madre. Ma la sua esperienza – ecco l’altro ritmo – si accompagna con quella del sole e degli astri. Sperimenta il mare nelle ore e nelle luci differenti, nelle stagioni che ruotano: il mare sempre mutevole, mai uguale, sebbene aequor si chiami dalla sua acqua che tende a colmare i vuoti e le conche dei grandi alvei tra le terre, in una distesa pari, senza dislivelli. Il mare è la mia energia, più segreta e lontana.

Ho conservato dentro di me ogni impronta di quella presenza marina, dal ritmo fisico e astrale, tanto più perché nell’infanzia abitavo su una spiaggia equidistante tra il Porto, orientato a est, e una località chiamata Alba. Nelle levate aurorali per la pesca, vedevo sorgere il sole, cinto dalla sua aureola rosata, al di là del Porto. L’Alba era alle spalle, in un’ombra bluastra. Il primo momento del giorno era scandito da uno scambio di ruoli (sebbene il porto sia non solo luogo di approdo, ma anche di partenza). Questa disposizione di terra, mare e sole, entrò nella mia vita profondamente. Anche ora, se penso a una Madre, è un’Aurora, una Madre dei porti. Tutti i sogni sono stati condizionati da quell’oscillare di passi, da quello sfilare del corpo nell’acqua durante il nuoto, nella duplice direzione della sorte della nascita e della morte. Per di più il porto, nei sogni di ragazza, conservava la brillantezza delle acque trasparenti del mattino. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta era ancora piacevole, quasi avventuroso, tuffarsi dalle palate del molo.

L’Assoluto in un tuffo

Oh, il tuffo, un altro dei movimenti assoluti dell’anima, oggi proibiti dall’insana protezione civile che ha eliminato i trampolini e permette motoscafi e kitesurf troppo vicini alla costa. Ecco la truffa della risibile società attuale, nemica della libertà anche nei suoi simboli. Ti inseguono mentre nuoti placida in un mare in burrasca risibile, mentre l’unico tuo pericolo, oltre ai motoscafi e ai kitesurf, è la discesa di coli, batteri, nitrati, plastiche. E, a proposito di simboli: oggi con maggiore veemenza, con ipocrisia e ignoranza, si invocano le pale eoliche nell’Adriatico, questo piccolo mare lacustre, con il pretesto della necessità vital-economica, unica legge moderna, che si è appropriata delle deboli menti dei finti ecologisti. Nessuno pensa di violare una cosa sacra: il nostro simbolico infinito acqueo, più vivo della vita. Quello che manca oggi sempre più, è il senso della libertà espresso nei simboli e nelle forme, nella natura da cui nasce ogni simbolo vivente.

Il ritmo era assecondato dall’alternanza stagionale di pieno-vuoto delle stagioni balneari. Il tempo non era precipitato ancora nella Stagione Unica colma di fiere, divertimenti, convegni, mostre, illuminata da soli artificiali. Divisa tra stagioni vive e morte, tra silenzio-solitudine, e folla-clamore, anche le notti e i giorni ne registravano l’acme. D’inverno intorno a noi non abitava nessuno: Riccione dormiva in silenzio. Uscivo dal cancello di ferro battuto che si spalancava sulla sabbia, e che veniva riparato con assi grigie dalla furia del mare. Correvo verso una spiaggia tutta luce, e vuota. Sulle dune della spiaggia, coperta di lappule e arkeion, avanzavo verso l’acqua. Non c’era nessuno. Mi era compagno solo il mare, con la luce del sole riflessa sull’acqua nelle aurore d’estate, quando la conca dell’Adriatico, recinta a est dal promontorio di Gabicce e della Focara, sembrava un mattino perenne.

I colori dell’Adriatico

Dall’Adriatico ho appreso la sottigliezza delle distinzioni e delle sfumature. I nostri colori marini sono velati. Si confondono con l’aria, l’orizzonte e il cielo, nel trascolorare lieve di azzurri e celesti, di malva e di grigi, di acquemarine e di verdi dallo smalto così chiaro che è possibile solo qui. Quasi non sono colori ma sfumature perlacee di luci impercettibili. Le diresti scolorite se non fossero lucide, trasparenti, infinitamente mobili e cangianti: un impossibile nella base della luce. Spesso il mare è grigio come il cielo. Le acque si muovono dolcemente, con una eleganza irreale, come distaccate dal resto del mondo. Sembrano essersi ritirate da un’altra parte, dove possono vivere come in un sogno sulla striscia sabbiosa che le raccoglie. Non sembra appartenere ai romagnoli questo meraviglioso grigio di perla, dove si stemperano i colori dell’anima, dove ti perderesti, con assoluta quiete, senza urti. Per i romagnoli bisogna evocare un grigio più nascosto, più plumbeo e oscuratore. Si attribuisce ai romagnoli la ferinità delle passioni. Ha un senso quanto mai letterale in Romagna l’anima che Omero colloca nei precordi, e che esala «uscendo dalla chiostra dei denti». Ogni battaglia di amore e di guerra avviene nei visceri. In questa terra sentimentale e materiale, si scatenano battaglie di cuore e fegato, di gastèr e di intestini, di milza e di bile, dove il “coraggio” dei combattenti è estratto dalle vivande. L’anima si aggira e ritorce, si espande e si contrae intorno a un ombelico mai tagliato: intorno al nutrimento della madre, la datrice della vita e delle proteine: Nemesi e Matuta, Carna e Anna-tutto-il-cibo. Al termine dei combattimenti, l’occhio obnubilato e saturnino, l’ebrezza dei satollati diventa una nebbiolina appannante, simile a quella che sale dalle basse coste sabbiose stendendo un velo uniforme, e in quell’umidità confusa si riassume l’indifferenza tra divorato e divoratore. Anche letteralmente non c’è saggezza. Infatti, è stato scritto che l’anima secca è la più saggia.

La memoria dell’acqua

Ma il ritmo dell’accessus e recessus, quando gli astri muovono le maree, e la luna risucchia le acque, è l’alternanza del peso e della leggerezza, della gravità e della levità. Quando nuoto la mattina presto, e il sole proietta una lunga lama sul mare, disperdendo il buio delle profondità, e sollevando la radiosità dell’acqua, provo la maggiore leggerezza che mi sia concessa. Galleggiare senza peso nella luce che si espande, mentre dal basso un pulviscolo dorato risale verso la superficie; sentire il velluto liquido dell’acqua dove mi fondo; vedere attraverso il pelo dell’acqua che la sua prima falda vibrante si confonde con l’aria, l’orizzonte, e su su con il cielo, negli impercettibili colori che sfumano l’uno nell’altro, velo dopo velo, come quello di Elena che sfugge, pulviscoli di gradazioni come di nuvole, la vernis des maîtres che nasconde la nettezza delle singolarità e dei contrasti, unità di nuances che pare possibile solo sull’Adriatico: quel colorismo di toni e dolcezze che fu dei pittori veneti; scivolare in questa materia viva inafferrabile senza fatica, godere di un’esperienza contemporanea dei sensi che disperde il cupo dei pensieri, li solleva verso la stessa radiosità del mare-luce-corpo-orizzonte – uno sgorgare di bolle d’argento sott’acqua a ogni bracciata, che prorompe verso la luce – la mente che si rinfresca e diventa limpida, fa riaffiorare i problemi, li riordina, passa veloce da un nodo all’altro, scioglie, sistema, progetta architetture dinamiche con una capacità di estensione che pare senza limiti; la durata che diventa un tempo liquido-aereo sganciato dalla terra, la facilità con cui pensieri e corpo si tendono e volano, acquistano proprietà ed eleganza, come se la loro natura, finalmente, fosse solo quella della danza, una cosa ottenuta senza sforzo, senza aiuti, senza artifici, senza costo e dispendio, con la sola natura del mare-corpo: questo galleggiare, sentire, fondersi, vedere, provare l’impossibile, sganciarsi, liberarsi di corpo e mente in un piacere assoluto, è l’emblema della leggerezza alla quale sono devota. Se non fosse paradossale, direi che io respiro attraverso il mare, il suo sale e la sua acqua nutriente, il vento e la luce che lo investono e lo vivificano in un trascolorante, perenne rinnovamento.