Dal 3 dicembre 2022 al 19 marzo 2023 si è tenuta presso le nuove Gallerie d’Italia di Napoli la mostra Artemisia Gentileschi a Napoli, incentrata sul lungo soggiorno napoletano della pittrice: un capitolo fondamentale nella sua vicenda biografica e artistica. La mostra, realizzata in special collaboration con la National Gallery di Londra e in collaborazione con il Museo e Real Bosco di Capodimonte, l’Archivio di Stato di Napoli e l’Università di Napoli L’Orientale, è stata occasione di aggiornamento degli studi scientifici, ma anche un evento imperdibile per gli amatori di Artemisia e del suo straordinario talento, che non manca mai di sorprendere.

Si può stare le ore a guardare l’Annunciazione di Artemisia Gentileschi, quella del 1630 conservata a Capodimonte. Poche volte la nostra pittura ha raggiuto una tale compenetrazione col soggetto, una simile espressione di ciò che è inesprimibile, tanta equilibrata bellezza. Qui vengono superate le sottigliezze del padre Orazio, s’impone l’irresistibilità e perfino la brutalità della forza di questa donna.

Il capolavoro del periodo napoletano

Siamo in uno spazio buio, in questo senso caravaggesco. Dall’angolo superiore sinistro irrompe una luce soprannaturale con lo Spirito Santo che scende, anzi punta in picchiata, le ali raccolte all’indietro. Magicamente illuminato da qualche altra fonte di luce, davanti a noi emerge l’angelo con un ginocchio a terra. Un giovane leggermente femmineo con una tunica giallo indiano (il giallo di Artemisia) che scende fino a terra piegandosi in affascinanti giochi di luce e semiluce. Allarga entrambe le braccia – l’abbondante camicia arrotolata fino ai gomiti – a formare un arco. Con una mano indica lo Spirito che discende, con l’altra regge il giglio della purezza. Maria, ci racconta, intatta la sua verginità, sarà madre per opera dello Spirito Santo. L’arco delle braccia dell’angelo si prolunga idealmente nel corpo curvo di Maria e nel drappeggio oscuro a formare un ovale. O forse un grembo. La Madonna è arretrata di un piano. S’inchina umilmente con una mano sul petto a rispondere «sì», ma con l’altra sollevata nella domanda: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».

Artemisia era così fiera di questo quadro che lo firmò in modo visibilissimo su un cartiglio: «Artemisia Gentilescha f[ecit] 1630».

Tutta la critica è concorde nel­l’affermare che l’opera rappresenta il punto più altro del periodo partenopeo della pittrice. E a quel periodo ora le Gallerie d’Italia di Napoli dedicano una accurata mostra (catalogo Gallerie d’Italia/Skira).

La presenza di Artemisia a Napoli, ultima tappa della sua carriera, è attestata tra il 1630 e il 1654, interrotta da una parentesi a Londra tra la primavera del 1638 e quella del 1640. A Napoli morì e fu sepolta nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Oggi la sua tomba e la sua lapide sono andate perdute.

Orgogliosamente donna

Di Artemisia si è scritto tanto ultimamente, anche in queste pagine. Limitiamoci perciò a segnalare ciò che la produzione napoletana rende ovvio: siamo di fronte a una donna con la professionalità, l’imprenditorialità e la capacità di lavoro che potevano avere i migliori pittori dell’epoca. E con una qualità pittorica molto spesso superiore. Basta passeggiare in queste sale. La vediamo, donna fortissima, nelle vesti di santa Caterina d’Alessandria in un autoritratto recente acquisito dalla National Gallery di Londra. O in quello come allegoria della pittura, e altri dipinti in cui si ritrae, determinata ma con un velo di malinconia. Si è troppo insistito sul processo per stupro subito in giovane età. Brutta cosa che il processo lo affronti la vittima anziché l’aggressore, che restò a piede libero, complice anche la viltà di papà Orazio. Ecco la ragione, si dice, per cui Artemisia dipinge tanto volentieri le eroine bibliche e pagane e arriva a un realismo inquietante nel soggetto di Susanna insidiata dai vecchioni. Sarà, ma non si può ridurre a una patina psicanalitica la complessa personalità della donna. Innanzitutto, appunto, era una donna e si doveva guadagnare qualunque cosa. Niente privilegi, nulla scontato, semmai il contrario. E riusciva al meglio quando poteva infondere nelle sue donne quel tono orgoglioso, fiero, sicuro di sé. Ecco Clio musa della Storia (1632), che sembra la dominatrice della storia. I dipinti “maschili” sono ben più deboli: il San Gennaro della Cattedrale di Pozzuoli sembra un povero mentecatto mentre la Giuditta di Capodimonte, intelligentemente illuminata da una candela, è un vertice di coraggio, furbizia e bellezza con quelle ciocche ribelli e l’apparato di gioielli sui capelli. Un’altra Artemisia-Caterina si trova a Stoccolma e guarda lontano in un paesaggio come ricordando il difficile cammino percorso.

È proprio il corredo della mostra, con opere di pittori napoletani dell’epoca, da Andrea Vaccaro a Jusepe de Ribera, a mettere in risalto senza pregiudizi la qualità della nostra artista. Una riscoperta recente, forse, ma un grande contributo alla storia dell’arte.