Don Claudio Burgio, nato a Milano nel 1969, viene ordinato sacerdote nel 1996 e dall’esperienza nella parrocchia di Lambrate, quartiere milanese, a cui viene assegnato, nasce la centralità del rapporto con i giovani. Nel 2000 fonda l’“Associazione Kayrós”, che gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti. Dal 2005 è anche cappellano dell’istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano, proseguendo la scia del ruolo occupato per i cinquant’anni precedenti da don Luigi Rigoldi. Per parlare di giovani e carceri, Paola Uboldi l’ha raggiunto nella sede di Kayrós a Vimodrone, dove si è instaurato da subito un dialogo informale ma profondo.
Il titolo del tuo ultimo libro è Il mondo visto da qui (2024, Piemme), inteso dal carcere…
Sì, dal carcere, ma anche dalla comunità Kayrós, dove vivo. È un libro che cerca di proporre un itinerario, una chiave di lettura di quella che è la realtà giovanile che incontro. Parlando del carcere minorile va detto che la situazione di questi ultimi tempi è terribile. Non è sempre stato così, anzi: negli ultimi due anni c’è stato un sovraffollamento mai conosciuto in questo ambito; oggi parliamo di 620 ragazzi detenuti in tutta Italia, quindi sempre numeri limitati, però fino a un anno e mezzo fa erano 350. Le carceri minorili sono attualmente 17; pare che altre 3 stiano per essere aperte, a quanto so da notizie del Dipartimento della giustizia minorile, ma in questo momento i numeri sono oltre i posti consentiti, un po’ in tutte le regioni italiane. Il Beccaria, che è sempre stato uno dei carceri minorili più grandi, oggi ospita circa ottanta ragazzi a fronte di settanta posti disponibili, e questo è uno dei motivi per cui attualmente c’è molta tensione all’interno degli istituti penali minorili.
Inoltre, c’è stata un’ondata migratoria importante con molti minori stranieri non accompagnati che arrivano soprattutto da Egitto e Tunisia. Nelle ondate precedenti i ragazzi che arrivavano in Italia con i barconi dopo viaggi anche traumatici, a volte passando dalla Libia, venivano con un progetto migratorio che passava attraverso la scuola e il lavoro. Oggi no, questi sono ragazzi che arrivano e vogliono tutto subito, perciò sono più esposti a commettere reati e quindi finiscono rapidamente in carcere, tanto che costituiscono la grande maggioranza dei ragazzi detenuti.
Quindi c’è una maggioranza di stranieri rispetto ai ragazzi italiani in carcere e in comunità?
Sì, bisogna distinguere i minori stranieri non accompagnati, che quindi sono qui senza famiglia, dai minori di seconda e terza generazione, che sono nati in Italia, ma non hanno la cittadinanza e vivono in contesti molto disagiati, in quartieri gravemente degradati e iniziano a commettere reati anche come forma di “appartenenza”, di riscatto e di contestazione. Teniamo a mente che in queste situazioni si sentono discriminati, persone di serie B, e tutti questi vissuti inevitabilmente non li aiutano a stare bene.
Perché l’appartenenza (o meno) a una comunità, che sia la famiglia, lo Stato, fa la differenza…
Sì, hanno sviluppano una grande appartenenza al loro quartiere, anche sui social si rappresentano così, con il numero di Cap e cose simili, perché dà loro un’identità. Nel processo identitario che avviene nell’adolescenza, età di transizione, il quartiere può darti consistenza, visibilità. Il caso di San Siro, per esempio, a Milano, è sintomatico, perché si tratta di un quartiere molto degradato, dove non sono state mai pensate delle politiche, per dirne una, di assegnazione delle case con un certo criterio. Questo lo ha portato a essere un microcosmo di delinquenza vera, dove lo spaccio è continuo, notte e giorno. San Siro è il quartiere più popolato di minorenni a Milano, quasi tutti stranieri di seconda generazione, terza anche, ormai. E loro vivono il quartiere anche di notte perché non hanno l’idea di una famiglia come possono averla i nostri ragazzi italiani, la loro famiglia è il quartiere, per cui è normale che un bambino di sei o sette anni sia in giro di sera da solo, perché è un po’ questa famiglia-quartiere che pensa a lui.
Questo porta a un disagio molto profondo, ma anche a quel sentimento di familiarità che cercano: fin da bambini si sentono unicamente appartenenti al quartiere. E se, come è successo, ci si entra con nove blindati della polizia, si capisce perché scatta la sassaiola; è come se dicessero: «Io difendo il mio territorio, voi non ci avete dato nulla, non ci avete aiutati in nulla, adesso venite anche qua sul nostro territorio?».
Di che età si parla quando parli dei tuoi ragazzi?
Per noi vuol dire dai 14 anni in su, perché in Italia si è imputabili da quell’età; al Beccaria e qui in comunità parliamo di ragazzi dai 14 più o meno ai 21 anni. Però, per esempio, nel quartiere di San Siro dove operiamo, anche con una sorta di “educativa di strada”, abbiamo anche ragazzi molto più piccoli e più grandi.
La frase “non esistono ragazzi cattivi” colpisce sempre tanto; verrebbe da chiedersi: allora tutto il male che fanno, anche a loro stessi, da dove viene e che significato ha?
Il mistero del male ha sempre molte sfaccettature, non c’è mai una spiegazione semplice o univoca, ma è sempre data da più fattori, secondo me soprattutto ambientali, perché ritengo che una persona, un bambino, non nasca cattivo. Viene da un ambiente, innanzitutto famigliare, ma poi appunto anche quello del quartiere, degli amici, del gruppo, dei social: tanti fattori, una serie di concause che, unite poi alle qualità del soggetto e alla sua situazione personale, generano dei vissuti. Se dovessi usare una parola direi che c’è in questi ragazzi un malessere esistenziale, che poi magari nella loro consapevolezza si riduce alla mancanza di soldi, del bene-avere. In realtà è proprio un vuoto di senso: «Io perché sono al mondo?». È una profonda solitudine che rischia di diventare isolamento e che poi degenera in tanti vissuti. Anche le sostanze sono un altro fattore – di cui si parla tanto, ma sempre troppo poco, perché ci si è abituati – che fa degenerare veramente tutto. A partire dalle “canne”, che sono sempre poco considerate ma dicono di un quadro depressivo, e se poi intervengono altri fattori della vita possono portare ad altre sostanze.
La depressione è un tema presente, sono sempre più frequenti episodi psicotici nei ragazzi, anche al Beccaria. Solo che poi noi Istituzioni e adulti ultimamente ricorriamo spesso a un contenimento coercitivo: il carcere già lo è, ma mi riferisco soprattutto alle cure farmacologiche. C’è secondo me un’eccessiva medicalizzazione dei minorenni. Per esempio, ero qui poco fa con un ragazzo di tredici anni che semplicemente non riesce a stare da nessuna parte, quindi esce sempre. Però ragiona benissimo, i motivi per cui non riesce a star bene li esplicita, quindi io mi stupisco quando l’unica soluzione diventa un Tso. Penso che comunque l’ospedale lo dimetterebbe il giorno stesso, perché non ci sono elementi per dire che ha avuto un episodio psicotico importante, grave, che giustifichi la decisione di trattenerlo. C’è una tendenza nei servizi sociali, anche nel mondo educativo a volte, a pensare che molti ragazzi siano semplicemente da contenere.
Quindi un trattamento farmacologico ancora prima che, magari, un percorso di psicoterapia?
A volte non ci sono neanche delle diagnosi conclamate, come si fa una diagnosi a tredici anni? Si può fare, però se leggi la sua biografia, ti fai raccontare la sua storia per come la può capire lui, è chiaro che c’è già tutto. E allora capisci che non è facile intervenire, quello è un ragazzo sicuramente destinato al Beccaria appena compiuti i quattordici anni. Però bisogna comunque provare, e non subito solo con la forza, come a dire: o il Beccaria o le medicine.
Una terza via?
La via è quella di avere con lui un rapporto, perché il problema è la solitudine. Per esempio, un ragazzo della Comasina, che non ha nessuno, non ha famiglia, si è tuffato nel quartiere e il quartiere è diventato la sua famiglia. Ci sono delle persone che sono state in carcere, che adesso hanno quaranta o cinquant’anni, che sono la sua famiglia. Capisco che per un assistente sociale, per noi benpensanti, non sia concepibile. Il problema è che questo ragazzino ha avuto solo queste come figure familiari, cioè per lui qualcuno che gli compra le scarpe, o che lo ospita a dormire, è come una famiglia. Chiaramente non va bene, soprattutto per un ragazzo di tredici anni, ma non puoi non ascoltarlo nelle sue ragioni, nel modo in cui ti racconta la sua storia. E vuol dire che non c’è stata nessun’altra figura positiva vicina; perciò, se neanche qui incontra delle figure adulte che se lo prendono a cuore, che stanno con lui… Non mi stupisce per esempio che adesso sia uscito e tornerà stasera. Lui ha proprio bisogno dell’attenzione dell’adulto. I tentativi si possono fare, però poi bisogna avere gli adulti giusti. E questo è un altro dei problemi della comunità.
Non ci sono questi adulti giusti?
Non è facile trovare educatori, in questo periodo è veramente difficilissimo. Soprattutto educatori di personalità, non per forza con esperienza, ma che abbiano una personalità educativa.
In condizioni di restrizione e di condivisione forzata, come viene valorizzata l’unicità e la dignità di una persona?
Innanzitutto, si passa da una cura. Una cura fatta di bisogni primari, ma anche di altro. L’ascolto, stando in questa comunità e al Beccaria, per me è fondamentale. Se un ragazzo non si sente visto e ascoltato, difficilmente si consegnerà, si fiderà e di conseguenza potrà immaginare un percorso progettuale. È fondamentale creare le condizioni che poi aiutino a incrementare la fiducia. L’azione fondamentale è la presenza, l’accompagnamento, anche nelle cose più informali, più normali, anche negli aspetti accuditivi, a seconda poi dell’età del ragazzo.
L’ascolto è essenziale. Non è scontato, perché vedo spesso l’interventismo dell’adulto che si sovrappone, non lasciando neanche parlare il ragazzo. I ragazzi a volte ti raccontano, magari facendo narrazioni improbabili di come sono andate le vicende, però il vero accompagnamento è quello, comunque, di prendere sul serio le cose che ti dicono e poi provare con loro a rileggerle in un’altra maniera. Per esempio, se dicono: «Ho fatto un reato perché volevo aiutare mia mamma, perché siamo solo io e lei», questo va ascoltato. Il bisogno di dire che sono in una situazione di povertà e difficoltà va ascoltato per cogliere anche l’aspetto di bontà di un desiderio del genere, e questo bisogna riconoscerglielo, prima ancora del reato. Dopodiché, rileggere insieme significa dire: «Magari, questo stesso obiettivo nobilissimo e legittimo può essere raggiunto in un altro modo. Senza che ti dica io, adulto, qual è il modo, proviamo a cercarlo insieme». Allora il ragazzo è disposto anche ad ascoltarti, e magari è lui che ti chiede: «Ma perché, tu cosa avresti fatto?». Il dialogo quindi parte da una reale stima di quello che i ragazzi dicono, anche se, chiaramente, te lo dicono con le loro possibilità, non solo linguistiche.
Molto spesso il reato stesso è un’invocazione d’aiuto, quindi anche leggere con loro il perché, il come è andata la faccenda, è importante, perché il reato è un dato oggettivo; quindi, non ne parli con lui per infierire o per giudicarlo. Per esempio, qui al Beccaria io lo dico ai ragazzi che il reato è indice di qualcosa, che quindi va decifrato e rintracciato. Questo è possibile farlo quando un ragazzo non si sente giudicato, ma si sente ascoltato e allora è anche in grado di dirti cosa è successo, cosa voleva fare, com’è andata. A quel punto dal reato, dal racconto, si può costruire insieme un rapporto educativo e anche una confidenza, una fiducia che poi può aiutare.
Ho letto recentemente i discorsi di don Primo Mazzolari sul carcere nel libro Oltre le sbarre, il fratello (2025, EDB Edizioni). Uno dei temi che tocca don Primo è quello del pentimento e del perdono, dicendo che quando una persona capisce di aver commesso un reato si apre un percorso interiore di ricerca del perdono. Magari, dice lui, qualcuno può obiettare che «nelle carceri non ci sono questi momenti di confronto e di pentimento», magari c’è più spazio per «pensieri di rancore e di rivolta», eppure a chi dice questo ribatte: «Bisognerebbe riuscire a cancellare l’uomo per togliergli dal cuore questa voce segreta che lo giudica senz’assolverlo, in attesa che un altro tracci su lui il segno del perdono». In definitiva, l’esigenza del perdono è inestirpabile, ma il pentimento c’è in tutti? Quanto in fondo bisogna arrivare per raggiungerlo?
Io ho a che fare più con ragazzi giovani, quindi il pentimento è frutto di un cammino. Ci sono ragazzi che si pentono subito, soprattutto quando hanno commesso reati molto gravi, però tendenzialmente su certi tipi di reati, come lo spaccio, non c’è un pentimento, perché si parte dalla precomprensione che tutti fanno così e che fondamentalmente è un modo per sopravvivere, quindi che male c’è? Magari anni fa, considerando la mia esperienza di vent’anni al Beccaria, capivano che era un reato, oggi non c’è nemmeno questa percezione, quindi il pentimento non è più il presupposto di un cammino, ma ne diventa quasi l’esito. Bisogna allora concedere un perdono a prescindere, in una condizione di benevolenza, che non è perdonismo, ma è proprio dire: accetto che tu sia anche così, che pensi sbagliato, che non ti penti nemmeno, però io ti guardo come una persona che potrà farcela, potrà sviluppare un pentimento vero. È un po’ come, nel caso dei minorenni, quello che si chiama il percorso di “messa alla prova”: un tempo, fino a un po’ di anni fa, la condizione perché un magistrato potesse accordare questa “messa alla prova” ai ragazzi era l’ammissione del reato, insieme alla consapevolezza del disvalore dell’azione. Oggi paradossalmente i giudici danno la “messa alla prova” anche se quella condizione non c’è, ma l’obiettivo si è spostato, il percorso diventa un tempo nel quale si spera che il ragazzo si renda conto del disvalore; quindi, non è più il presupposto ma l’obiettivo della “messa alla prova”. Per questo secondo me è importante, soprattutto con ragazzi che sono giovani e magari non hanno davvero la percezione di quanto è accaduto, sbilanciarsi nel perdono, in un amore che ha un significato alto.
A quel punto sono i ragazzi che dopo un po’ si chiedono: «Come mai? Cosa c’è sotto?». Questo precedere, questo perdono che accordi anche prima, in realtà muove delle domande e le domande sono secondo noi il presupposto per un vero pentimento. Perché quando un ragazzo arriva a interrogarsi e a dire: «Ma perché questa persona mi accoglie? Perché parla con me dopo che ho commesso un omicidio?»; quando vede la dedizione di una persona che lo dovrebbe magari solo condannare, giudicare o allontanare eppure, si chiede, «Perché si occupa ancora di me?». Questo, secondo me, è quel che smuove l’interiorità anche dei più giovani e che li conduce a una domanda. È la domanda che poi fa scattare un percorso: se io non mi domando nulla non posso cambiare, non posso neanche chiedere perdono, non mi interessa, e spesso arrivano così in carcere e a Kayrós. Davanti ai volontari in carcere alcuni si chiedono perché ci siano, o perché ci sia un prete, e lì non si tratta tanto di dare una risposta con parole o argomenti clamorosi, ma è proprio la dedizione che spendi anche senza parlare che forse convince di più.
Bisogna prima spendersi, ed è quello che un po’ la cultura giustizialista di oggi non capisce perché dice: «Tu sbagli, tu paghi… Ti devo anche ascoltare? Ti devo perdonare, voler bene?», che è legittimo, perché quando uno è ferito da un torto subìto lo puoi anche comprendere, però è anche poco lungimirante come modalità di accompagnare. Oggi la società non è resa sicura dalle norme coercitive o dall’inasprimento delle pene, ma se recuperi delle persone che si riconciliano con sé stesse, con gli altri, con la società.
Perché poi escono dal carcere, per cui…
Esatto, e quindi la giustizia riparativa è un modello di giustizia assolutamente interessante perché ha tre attori, non solo l’autore del reato. Nella giustizia ordinaria oggi si condanna l’autore del reato, ma la giustizia riparativa rimette al centro anche la vittima, che ha pari diritti di essere accompagnata, aiutata, nella sua libertà, e il terzo soggetto, che viene sottovalutato, è proprio la comunità. Il percorso della giustizia riparativa non è semplicemente qualcosa che si gioca tra chi ha subìto e chi ha agito, ma diventa importante anche la comunità, la società civile, perché riconciliare due persone fa bene a tutti.
È un percorso che proponiamo anche qui a Kayrós, per esempio con i cancelli aperti giorno e notte, che è un simbolo: anche se li chiudi, non è che un ragazzo non sappia scavalcare questi muretti; quindi, è più una sfida simbolica per dire ai ragazzi: nessuno ti obbliga. Cioè, o capiscono che sono qui per il loro bene e quindi li trattiamo da adulti, senza infantilizzarli, cioè non partendo dall’idea che tanto non possono capire e quindi li dobbiamo chiudere dentro. Perché si tende a infantilizzare il mondo del carcere – anche quello degli adulti è connotato da parole infantilizzanti (“la domandina”) –, e invece la nostra idea è quella di dire: anche se hai quattordici anni la testa ce l’hai, per quante ferite tu possa avere, per quanti comportamenti bizzarri tu possa tenere, io non ti tratto da malato, e nemmeno da bambino, quindi per me sei un uomo. E come tale ti tratto, perché sei in grado di decidere.
E loro come rispondono, per esempio, ai cancelli aperti?
È quello su cui ci stiamo interrogando adesso, perché fino a due o tre anni fa funzionava molto bene, erano ragazzi però forse un po’ più grandi, forse non così coinvolti dai social e da tutto quello che sono il mondo e la cultura trap, e quindi erano più disposti a riflettere, erano quasi stupiti di questa libertà e se la giocavano bene, o quantomeno ci provavano. Adesso, negli ultimi tre anni, i ragazzi, soprattutto i minori stranieri, non riescono a percepire questa cosa. Non abbiamo un linguaggio comune, abbiamo approcci culturali diversi, per cui c’è un po’ di fatica, ma noi non abbiamo rinunciato lo stesso a questo metodo. Però in quanto a fughe non ne abbiamo, sì, qualche volta fanno la fuga notturna, lasciando le sagome nei letti, poi tornano alle sei. Purtroppo è chiaro che dobbiamo segnalare in questi casi perché sono in misura cautelare, però queste rimangono le cose dei bambini, dei più piccoli. Invece dopo si responsabilizzano, inevitabilmente, perché capiscono che non stiamo col fiato sul collo, e se non ti controllo in maniera coercitiva allora mi ascolterai magari anche di più, questa è un po’ l’idea.
Tu sei un prete, però immagino che la tua sia una vita diversa da quella che faresti in una parrocchia. Come vivi la Chiesa?
Hai detto bene, «sei un prete», perché se dovessi dire «faccio il prete», non sarebbe vero. Io ho anche una parrocchia, quindi le prassi, le mansioni del prete di parrocchia ci sono, però è chiaro che questo è un ministero che magari non ti permette di fare il prete, cioè di svolgere delle funzioni riconoscibili. In carcere non è detto che ti chiedano di Dio o che ti chiedano i sacramenti; capita che qualcuno chieda di confessarsi, però tendenzialmente non succede. A un certo punto, mi ricordo, negli anni mi sono detto: qui, come annuncio il Vangelo? Cioè, come faccio il prete? Perché annullate tutte quelle classiche mansioni da prete, cosa mi rimane? Quindi c’era la critica, o magari la perplessità, di dire: ma sto facendo l’assistente sociale? Invece mi sono convinto che i ragazzi percepiscono che sei un prete se lo sei, non solo se lo fai. Negli anni, per fortuna, ho anche capito che le domande di fede ci sono nei ragazzi, ma non sono domande istituzionali, prefabbricate, come in realtà può essere in un oratorio, in parrocchia. Qui infatti anche quello che ti chiedono non è abituale. L’ultimo caso, simpaticissimo: «Don, mi puoi benedire il motorino che ho rubato?». Capitano queste cose fuori dal comune, ma a volte ci sono domande più serie. Però il prete, per come lo vivo io, è uno che deve vivere una testimonianza cristiana senza avere la pretesa di fare le cose del prete e senza avere la pretesa che magari per anni uno ti recepisca come prete; è proprio un annuncio in totale perdita. Poi (è da venticinque anni che vado al Beccaria e che vivo qui in comunità) cominci a capire che ti hanno visto come prete, o che magari attraverso te e quel tuo modo di essere prete si sono posti delle domande di fede, o magari hanno fatto anche delle scelte. Io sono stupito, per esempio, quando alcuni dei miei ragazzi mi chiedono di sposarli o di battezzare i figli: è paradossale che io non ho fatto il prete con loro per moltissimi anni e poi sono loro a chiedermi di farlo. Quindi quello che forse è giusto è che noi dobbiamo essere credibili, poi non è sempre facile, ma bisogna avere la tendenziale coerenza che sappia di Vangelo: quella ancora la captano, la vedono. Per questo io dico che sono fortunato per il mio ministero, è una grazia perché sono quasi obbligato a essere un po’ più credibile. Anche perché loro si accorgono di tutto, e se non sei secondo il Vangelo te lo fanno capire subito, dalle cose anche più simpatiche, come quando è venuto un prete a cena, ha fatto il segno della croce prima di mangiare e poi allora anch’io l’ho fatto, e quello di fianco mi ha detto: «Don, ma se non lo fai mai». Anche su altre cose molto più serie come la morte, domande del tipo «Come te la spieghi?» oppure, «Dio dov’è? Nella mia storia io non credo in Dio perché Dio non vuole il mio male, quindi o non c’è, oppure perché mi ha messo in questa situazione?». È chiaro che molte sofferenze, molte situazioni di dolore parlano di un’assenza di Dio, allora l’essere prete è anche illuminare il dolore, dare un significato nuovo a quello che vivono.
Adesso per esempio c’è un ragazzo che purtroppo è andato in carcere per omicidio, proprio in questi giorni, chi se l’aspettava? Un ragazzo su cui io personalmente ho dato tantissimo, abitava con me, addirittura faceva l’aiuto educatore qui da noi. Poi una serata sbagliata, perché queste cose sono imponderabili purtroppo, e resti dentro. Come farà a recuperare? Sono domande che mi pongo anch’io nei suoi panni, e poi quando lo incontrerò inizieremo un cammino lo stesso. E lui è un ragazzo che non aveva una vita di fede, però che ha fatto tanta strada, ha vissuto prima nel suo paese in Polonia senza una famiglia, poi è stato adottato, ha vissuto molte difficoltà con la famiglia adottiva, per quanto abbia sempre fatto tutto bene – scuola perfetta, persino un anno di giurisprudenza –, per poi perdersi completamente… Perché? Come fai a dire da dove viene quel male lì? Ma chi sa cos’ha vissuto da piccolo? Per quello sostengo che non si può giudicare affrettatamente; certo che, davanti a un omicidio, se tu la vai a raccontare è facile che ti prendano per buonista, ingenuo, perdonista a oltranza… Però nonostante tutto – perché è un atto gravissimo quello che ha commesso – è chiaro che devi anche provare a capire da dove viene, come nasce un omicidio del genere. Bisogna, come dicevo, anteporre una visione misericordiosa, che non vuol dire “va bene, non è successo niente” – intanto i suoi vent’anni minimo se li fa –, vuol dire accompagnarlo, se lui vorrà, anche durante la carcerazione. E magari anche lui un giorno si aprirà a qualcosa di diverso da quello che finora è stata la sua vita.
È la speranza cui invita il Giubileo…
Che non è l’ingenuo o banale ottimismo di chi dice «Ma sì dai, qualcosa cambierà»; la speranza secondo me è un cammino, è un motore che però esige davvero un cammino lungo. Poi la speranza non è solo una conquista del soggetto, cioè non è che io posso sperare con le mie forze, le mie capacità: io penso che sia anche un dono, un dono dall’alto, un kairós appunto, un’opportunità che tu puoi cogliere, puoi intuire, puoi vedere se qualcun altro te la fa vedere. Quindi la speranza è molto più dell’ottimismo: è un cammino che esige anche decisioni da parte del soggetto, ma a volte non basta. È qualcosa che arriva da fuori.