Il 10 febbraio ricorre la Giornata del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano e giuliano-dalmata. A darci una preziosa – perché rara – testimonianza è Grazia Del Treppo che col suo Fogolèr ci porta in presa diretta a quei giorni: gli arresti improvvisi, le persecuzioni, le foibe. Il suo libro, pervaso dalla fede, àncora di salvezza, accende una speranza che continua a brillare nel buio: è il fuoco del “fogolèr”, il focolare, che trema senza però spegnersi mai. Ne parliamo con l’autrice.
Dietro le quinte di Fogolèr. Storia di una famiglia istriana
Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro? C’è un’urgenza di fondo?
C’è un’urgenza anagrafica perché ormai siamo rimasti pochi testimoni diretti e verifichiamo che ancora molti, troppi italiani non conoscono la nostra storia, storia di italiani del confine orientale. Tutto quello che è scritto nel libro l’ho sempre trasmesso oralmente ai miei figli, però mi interessava che fosse una memoria scritta, che rimanesse per tutti.
Ho scritto Fogolèr in due momenti di convalescenza in cui ho raccolto le mie memorie custodite nel tempo. Ho scritto queste cose un po’ disordinate, un po’ sparse, su foglietti, quaderni. Mia figlia Chiara le aveva lette tutte e ha detto: «Mamma, meriterebbero di essere pubblicate.» Io non ci credevo perché pensavo che fosse una memoria di famiglia. Il manoscritto ha suscitato l’interesse delle Edizioni Ares cui sono molto grata.
Fogolèr è il risultato di un lavoro di revisione durato tutta l’estate per il quale ringrazio la mia editor Chiara Ferla Lodigiani; penso sia una memoria importante perché noi – io e i miei coetanei, e anche qualcuno più vecchio di me – siamo gli ultimi testimoni diretti che hanno vissuto questi fatti e che possono raccontarli come verità.
È un tema ancora poco conosciuto, quello delle foibe e dell’esodo istriano e giuliano-dalmata, e quindi è assolutamente necessario secondo me questo lavoro di testimonianza: difatti io vedo gente che scopre questi fatti per la prima volta ovunque io vada a parlare. Essere parte attiva in quest’opera di testimonianza mi conforta moltissimo ed è un dovere e un onore nei confronti dei miei nonni e dei miei genitori.
Testimonianze e ricordi: come ha raccolto tutto quello che le è servito per scrivere questo libro?
Io ho tutto nella memoria. Non ho effettuato un lavoro apposito di ricerca ma ho tratto dal cuore e dalla memoria ogni parola, ogni ricordo – di come sono partita, di come ho pianto davanti al portone, di cosa è successo a Udine nel campo smistamento, di cosa è successo all’Aquila. È stato soltanto un ascoltare quello che la memoria mi diceva.
Il fatto che fosse tutto nella sua memoria rende il suo lavoro ancora più prezioso perché se lei non l’avesse scritto sarebbe scomparso, in qualche modo.
Avrei potuto scrivere anche molto di più, ma ho cercato di renderlo un po’ più leggero: non volevo dare un taglio di autocommiserazione, di dramma – anche se un dramma lo è stato. Volevo che fosse accessibile anche ai ragazzi, che non fosse una cosa pesante.
Il “fogolèr” richiama il calore della casa. Quale ricordo associa al “fogolèr”?
Io ho l’immagine netta di quello che succedeva in questa grande cucina dove c’era un enorme “fogolèr” aperto – non come quelli eleganti delle case, dei castelli – con un fuoco scoppiettante. Finita la cena, ci si metteva lì tutti quanti, i nonni, i bambini piccoli, mio papà, mia mamma; si diceva una preghiera, la brocca piena di vino e il pane ad abbrustolire… Era una cosa gioiosa perché c’era un grande amore per la vita, per la famiglia, per la casa. E stavamo accanto al focolare con il calore e la luce che veniva dal fuoco. Allora lì gli animi si aprivano, i vecchi cominciavano a narrare qualche cosa del loro passato, i giovani raccontavano la giornata trascorsa, si rideva, si piangeva qualche volta rievocando i dolori della famiglia, degli avi. Mentre si mangiava la sopa, cioè un pezzo di pane intinto nel vino, i piccoli si addormentavano.
Quindi c’era anche un profumo nell’aria…
Esatto, ed era molto bello vedere il vecchio che racconta, il bimbo che fa la nanna e i ragazzini come me con le orecchie ben tese: qualche volta si raccontavano storie della cultura del paese, qualcosa di oscuro, di magia nera e di fantasmi. Mi dicevano: «Tu non ascoltare», e io ovviamente ascoltavo per capire. Questo era il focolare, il momento più dolce di tutta la giornata. Poi ci si abbracciava e si andava a dormire.
Quando mio papà ha spento per l’ultima volta le braci del “fogolèr” ho avvertito che qualcosa era finito per sempre. La casa era spoglia, c’erano i segni dei quadri sulle pareti perché tutto era stato regalato, dato via. Rimaneva una lampadina al posto del lampadario. Era una specie di lutto di cui ero consapevole anche perché nelle settimane precedenti venne tanta gente a salutarci. Sembrava proprio un addio; percepivo l’atmosfera e pativo. Quando mio papà ha chiuso quel portone, ho cominciato a gridare: non voglio partire perchè so che non torneremo mai più.
Come ha fatto a conciliare questo dolore con un messaggio di speranza? Aspetti che convivono nel libro.
In famiglia non ho mai percepito né disperazione né autocompatimento. La fede ha avuto un ruolo importantissimo. I miei genitori erano persone giovani di profonda fede. Io respiravo anche la speranza verso il futuro. «Noi lavoreremo tanto, tu studierai tanto, tutto cambierà: non importa quanti anni ci metteremo, ma tutto cambierà, questo è provvisorio. Il Signore ci aiuterà.»
Ho patito di più quando sono stata da sola a Pola e nel collegio a Roma. In generale tutti i distacchi: la prima volta il distacco da Canfanaro per andare a Pola, la seconda volta il distacco dal paese per sempre, poi all’Aquila negli Abruzzi, poi Roma, poi Torino. Ho passato i cinque anni di scuole elementari in cinque città diverse. Ma i bambini sanno risorgere.
E come ha gestito il coinvolgimento personale durante la scrittura del libro?
Pensavo di raccontare ai miei cari. In filigrana c’è sempre la fede. Nel libro ci sono dei momenti in cui abbiamo proprio toccato il fondo della miseria, ed era la mia famiglia che ridava dignità alla vita grazie alla fede. Atteggiamenti estremamente formativi che mi hanno rafforzato il carattere e hanno dato bellezza alla vita, ogni volta che superavamo qualche difficoltà: per esempio quando abbiamo comprato per la prima volta un vero tavolo è stata una festa perché noi abbiamo mangiato per anni con le gambe in diagonale, storte, perché apparecchiavamo su un baule, il baule che conteneva tutti i nostri averi. Ogni piccola conquista ci faceva capire che qualcosa stava cambiando, che saremmo potute diventare persone “normali”. Quando ho guadagnato le prime 25 mila lire non ho dormito tutta la notte. Avevo tanto timore di diventare ricca.
Rispetto a quanto dicevamo all’inizio, spero che ci siano ben presto, anche grazie al suo esempio, delle altre testimonianze scritte da chi ancora si ricorda e ne ha memoria. Crede anche lei che la letteratura possa aiutare a colmare questo vuoto?
Io penso di sì. La letteratura, i video, la televisione, sono tutti strumenti che fungono da cassa di risonanza.
C’è un articolo bellissimo su “Avvenire” di Lucia Bellaspiga – anche lei figlia di un’esule da Pola – con il quale coglie nel segno. Lei scrive che Fogolèr è un libro diverso dagli altri perché tocca anche la convivenza con gli slavi. Questa è una verità, perché è vero che il mio paese a dieci chilometri dalla costa era già multietnico, mentre le città da Trieste a Pola erano assolutamente veneziane e gli abitanti al 90% italiani; bastava rientrare di dieci chilometri dalla costa e già c’era la componente slava. Per cui io sono cresciuta con questa multiculturalità. Solo Fulvio Tomizza, autore di La miglior vita (1977, Premio Strega), aveva toccato questa nostra doppia identità di istriani, italiani e slavi, che è una ricchezza.
Se potesse trasmettere un solo messaggio ai lettori di Fogolèr, cosa vorrebbe che restasse?
Vorrei suscitare un po’ di curiosità per approfondire questa storia e cercare di stimolare nelle persone la voglia di conoscerci, la voglia di sapere che cosa è successo a questi fratelli italiani al confine orientale. E poi vorrei che fosse anche notato il ruolo della fede, che è stata una delle cose più importanti che ci hanno permesso di superare problemi molto gravi e tanta sofferenza. Basta guardare per un attimo i monumenti, testimoni di un passato romano e veneziano, per vedere come la furia di cancellare un’etnia è segno di ignoranza. Se uno si addentra in queste terre senza soffermarsi solo sulla costa, troverà un cimitero di case, come testimoniato dalle foto che ho inserito nel volume. È un cimitero di case belle, signorili, che ormai sono ridotte a ruderi, con finestre come orbite vuote da cui si vede il cielo e l’edera. Vorrei che ci si iniziasse a domandare perché 350.000 persone sono dovute partire svuotando i paesi e spero che questo mio libro possa contribuire a questo scopo.
Alessia Soldati