dietro le quinte di stefan zweig con raoul precht

Tutti conoscono Stefan Zweig, il grande scrittore austriaco autore di capolavori come Lettera di una sconosciuta e Il mondo di ieri. Ma non tutti sanno che dietro la sua prosa elegante e malinconica si nasconde una figura complessa, cosmopolita e profondamente segnata dal suo tempo. Raoul Precht pubblica, nella collana “Profili“, una nuova monografia dedicata proprio a lui, esplorandone la vita, le opere e l’eredità spirituale in un’Europa in crisi d’identità. Come è nato il progetto e perché leggere oggi Zweig significa ancora capire il nostro presente?

Com’è nato il tuo interesse per Stefan Zweig?

È nato dal fatto che mi sono occupato di diversi autori vissuti a cavallo tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento. A un certo punto, mentre lavoravo su altri scrittori di quel periodo, mi sono imbattuto nella vita di Zweig — una vicenda davvero appassionante e fuori dal comune. Da lì è scattato qualcosa: ho iniziato a interessarmi a lui molto più di prima. Lo avevo già letto, certo, ma in modo un po’ distratto; da quel momento, invece, ho cominciato a leggerlo con maggiore attenzione e continuità. 

E quindi cosa ti ha spinto a scrivere una biografia su di lui?

In realtà non la considero una vera e propria biografia, ma piuttosto un profilo di scrittore, visto attraverso lo sguardo di un autore contemporaneo. Per realizzare una biografia completa servirebbero altri mezzi e un impegno diverso: bisognerebbe consultare archivi, frequentare biblioteche, cercare corrispondenze inedite e molto altro ancora — cose che, in questo caso, non potevo fare.

Quello che ho scritto è quindi un ritratto valutativo dell’opera di Zweig, in cui racconto anche alcuni aspetti della sua vita.

Zweig non è molto conosciuto nella mia generazione: non lo si studia a scuola e non lo si vede molto sui social. Cosa ne pensi?

Penso che dipende molto dai contatti e dai legami che si hanno: in realtà, sui social Zweig è abbastanza presente. Di tanto in tanto riaffiora, soprattutto per la vicenda del doppio suicidio suo e della seconda moglie in Brasile, di cui si parla piuttosto spesso.

Quanto alle scuole, invece, dubito che si possa pretendere che un autore come Zweig entri nei programmi scolastici: spesso non si riesce nemmeno ad arrivare a Montale o Ungaretti. Mi sembra quindi difficile, a meno che un insegnante o una classe non decidano di affrontare certi temi particolari, caso in cui avrebbe senso estendere il discorso anche ad autori come lui. 

Per chi non ha mai letto nulla di suo, ma è incuriosito, da dove consiglieresti di iniziare?

Ci sono diversi punti di partenza possibili. Zweig è, tutto sommato, un autore “facile” — tra molte virgolette — perché sa davvero coinvolgere il lettore. Un buon modo per cominciare è leggere alcune delle sue novelle o dei suoi racconti: non sono lunghi, hanno un linguaggio semplice ma al tempo stesso accattivante, e permettono di entrare subito nel suo mondo narrativo.

Poi, naturalmente, per chi è interessato al periodo storico in cui visse, è molto utile leggere Il mondo di ieri. Spesso viene definito la sua autobiografia, anche se in realtà è più un racconto della civiltà che andò perduta con l’avvento del nazismo e della Seconda guerra mondiale. 

Nel tuo libro scrivi che Zweig è stato un innovatore nell’approccio al genere biografico. In che modo?

È stato un innovatore per diversi motivi. Prima di tutto, è stato tra i primi autori del suo tempo — non solo nel campo della narrativa, ma anche nella saggistica — a lasciarsi influenzare dalla psicanalisi freudiana. Questo lo portò a indagare i suoi personaggi, anche nelle biografie, da un punto di vista psicologico, cercando di comprenderne le motivazioni più profonde.

Un secondo elemento di novità sta nella scelta dei protagonisti: spesso Zweig non si concentrava sulle grandi figure storiche, ma su personaggi secondari o meno celebrati. Un esempio emblematico è la biografia di Fouché, il ministro della Polizia di Napoleone — un soggetto insolito, in un’epoca in cui si scrivevano semmai biografie di Napoleone stesso.

Infine, c’era in lui una particolare attrazione per i “perdenti”, per le figure destinate a una fine tragica: da Maria Antonietta a Maria Stuarda, e così via. Si identificava profondamente con loro, e questo traspare in tutto ciò che ha scritto.

Zweig è stato anche un collezionista quasi ossessivo di manoscritti e oggetti storici. Quanto questo aspetto lo ha aiutato a capire meglio la sua epoca o a fuggirne?

Per Zweig il collezionismo era un modo per entrare nel cuore della creazione artistica. Amava manoscritti pieni di cancellature e varianti, perché da queste cercava di capire il pensiero dell’autore nel momento stesso in cui scriveva o componeva. Iniziò presto, già a 12-13 anni, e la sua collezione comprendeva di tutto: la scrivania di Beethoven, un violino di Mozart, manoscritti di Goethe, Schnitzler e altri grandi autori. Addirittura regalò a Thomas Mann, per il suo cinquantesimo compleanno, un manoscritto originale di Goethe. Quando fu costretto all’esilio, vendette la sua collezione ricavandone un sostanzioso guadagno, ma il valore della collezione rimaneva soprattutto culturale e simbolico.

Il tuo libro si intitola Stefan Zweig. La fine di un mondo: un titolo che rimanda alla sua opera più celebre, Il mondo di ieri, ma che evoca anche un senso di frattura storica. Quale mondo è finito per Zweig? Pensi che ci sia un collegamento con il nostro presente?

Per Zweig è finito quello che lui stesso definiva “l’età d’oro della sicurezza” — anche se, a ben vedere, non era poi così d’oro né così sicura. Era il mondo dell’Impero austro-ungarico, almeno fino alla fine della Prima guerra mondiale, con una sorta di coda che arriva fino al 1933, anno dell’ascesa al potere del nazionalsocialismo in Germania. Da lì in poi tutto crolla: l’annessione dell’Austria, la perdita delle certezze culturali e morali, fino al suo suicidio nel 1942.
Il mondo di ieri non è una vera autobiografia, ma è quasi interamente dedicato a quel periodo che va dalla Grande guerra agli anni Trenta. Tutto converge nell’ultimo capitolo, dove Zweig racconta la dissoluzione definitiva del suo universo — un mondo di valori, di civiltà e di fiducia nel progresso che, per lui, non sarebbe mai più tornato.

E rispetto al nostro mondo?

Beh, ci auguriamo naturalmente di no — di non essere anche noi testimoni della fine di un mondo. Però, certo, qualche perplessità sul presente è difficile non averla.

Ma Zweig era un vinto o un vincitore?

Probabilmente entrambe le cose. È stato un vincitore per molti anni, almeno sul piano del successo letterario: per lungo tempo è stato l’autore più letto e tradotto al mondo, suscitando anche invidie tra gli altri intellettuali dell’epoca. Alla fine, però, è stato anche un vinto, perché non ha avuto la forza di convivere con ciò che stava accadendo sotto il nazionalsocialismo. Non dico che avrebbe potuto opporsi al regime — da solo non avrebbe potuto — ma il senso di impotenza e di sconfitta alla fine c’era.

Se tu potessi associare un’emozione a Zweig, quale sarebbe?

Non so se si tratti davvero di un’emozione, ma la prima cosa che mi viene in mente è il dubbio. Zweig era un uomo di dubbi, non di certezze, e in questo mi riconosco abbastanza.

Intervista a cura di
Alessia Soldati