Sbalzate in aria e poi ricadute giù come pigotte disarticolate giacciono a terra le guardie che erano state messe lì – forse dal Sinedrio in combutta con il potere imperiale – per scongiurare il rischio del miracolo annunciato dal Re dei Giudei (sarebbe stato quello definitivo, per l’opposizione irreparabilmente definitivo: la pietra tombale sulla negazione della sua divinità). I corpi dissestati, come da una forte esplosione nella notte (tipo quelle che rischiarano il cielo di Bakhmut).

È la sensazione che si prova alzando lo sguardo sulla inconsueta scena della Risurrezione affrescata da Bonifacio Bembo, Giacomino Vismara e Stefano de’ Fedeli sul soffitto della cappella ducale del Castello sforzesco di Milano nel 1473. Siamo in terra lombarda, e lo si avverte nel gusto gotico internazionale un po’ rétro che si sente nelle figure e nello scorcio del paesaggio (poco meno di dieci anni e alla corte di Ludovico il Moro arriverà Leonardo: e allora, non solo in pittura, niente sarà più come prima). Ma c’è qualcosa nella scena che non è come ci si aspetta, lo vedrebbe anche un bambino. E  infatti è stato proprio Meme, un ragazzino che mi ha fatto da guida con l’avventurosa acutezza dei sette anni, a farmi notare il particolare inconsueto: qui il sepolcro non è scoperchiato ma chiuso, sigillato, intonso. Cristo è lì da vedere, risorto e raggiante; gli angeli volteggiano attorno alla mandorla gloriosa, le guardie giacciono mezzo morte per lo spavento… ma il sepolcro è inequivocabilmente chiuso. Come se la Pasqua nuova che cambia l’intero corso della storia fosse già lì, nel “tutto è compiuto” pronunciato sull’ultimo respiro dal vero Dio vero Uomo: istantaneamente Pasqua di Morte (la tomba chiusa) e di Risurrezione.

Perché poi tra il secondo e il terzo quarto del 1400 fosse comparso, per quanto raro, questo modo di rappresentare la Pasqua è una domanda affascinante (un altro esempio che io ricordi è quello di Hans Mult­scher oggi allo Staatliche Museen di Berlino, di una trentina d’anni  precedente questo sforzesco, e dove il Risorto è addirittura seduto sul sarcofago chiuso), ma in fondo qui poco importa. Si fa invece molto suggestivo l’accostamento di questa variante iconografica con quel capolavoro teologico, liturgico e letterario che è l’omelia Sulla Pasqua di Melitone di Sardi, della quale proponiamo in queste pagine un breve saggio nella bella traduzione di Vincenzo Guarracino. Accostamento affascinante, perché le parole del vescovo di Sardi – «ingegno elegante» lo dice Tertulliano –, che hanno il gusto schietto delle primizie (siamo nel secondo secolo), com’era allora uso in Asia minore celebrano la Pasqua nel giorno della Passione del Signore, il 14 del mese di Nisan, lo stesso giorno cioè nel quale cadeva la Pasqua degli Ebrei (sarà poi Ireneo di Lione a comporre la controversia tra Oriente e Occidente, facendo prevalere l’uso di celebrare la festa nella prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera). Anche qui, dunque, Pasqua istantaneamente di Passione e di Risurrezione.

Una semplice coincidenza? Chissà. È in ogni caso un sintomo di quel grandioso deposito di idee e di bellezza che i secoli cristiani ci hanno consegnato. Ed è pure sintomatico come a coglierlo al volo sia un bambino.

Chiudo augurando buona Pasqua a tutti. Una cara amica, fine conoscitrice della cultura russa, mi ha insegnato che là ci si saluta così: «Khristòs voskres! Voìstinu voskrès!» (Cristo è risorto! È davvero risorto!). È un saluto che ci si scambia non solo a Pasqua, ma ogni giorno dell’anno. Auguriamo a quel popolo che torni presto a scambiarselo, con tutto quel che significa, non per vuota tradizione, ma come sanno farlo i bambini.