Il 2023 è stato il centenario della morte della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield (Wellington, 14 ottobre 1888 – Fontainebleau, 9 gennaio 1923). Trasferitasi da giovanissima in Inghilterra, morì in Francia, a Fontainebleau, dove cercava da tempo di curare la tubercolosi. Aveva trentaquattro anni. Paola Tonussi, anglista e autrice per Ares di War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale (2022, pp. 320, euro 20), ne traccia qui un breve profilo. In coda pubblichiamo il racconto Garden Party nella traduzione della stessa Paola Tonussi.

Kathleen Beauchamp Mansfield modifica il proprio nome in Katherine Mansfield quando inizia a scrivere sul giornale del liceo, la Fitzherbert Terrace School, tra il 1898 e il 1899. Come se la potenza delle parole richieda da lei una sorta di nuova nascita, come se le sue doti di narratrice le impongano l’assunzione di un altro lignaggio che la consacri alla letteratura. Così si fa notare per i contributi al giornale scolastico, in cui emerge l’impressionante capacità di estrarre bellezza e vitalità da ogni occasione.

Nata nell’ottobre del 1888 da una famiglia benestante di Thorndon, fuori Wellington in Nuova Zelanda, nel 1902 la ragazza si trasferisce a Londra, dove frequenta il Queen’s College e alterna la letteratura allo studio della musica, da violoncellista di talento. L’inquietudine mai sconfitta la spinge poi a viaggiare qualche anno in Europa prima di tornare in Nuova Zelanda nel 1906. Ma lo stile di vita provinciale le è stretto: si sente lontana dalle correnti artistiche e di pensiero conosciute a Londra, rimpiange lo slancio e gli interessi della capitale britannica. Allora si stabilisce definitivamente in Inghilterra, lasciando la natia Wellington. È il 1908 e en passant, sempre nel 1908 rientra a Londra un’altra scrittrice, sua prima cugina: Elizabeth von Arnim, pseudonimo di Mary Annette Beauchamp. Katherine ama quella città in cui ha studiato ed è vissuta impulsivamente. Conosce Virginia Woolf e il gruppo di Bloomsbury che ruota intorno a Lady Ottoline Morrell senza farsene attrarre. Entra in contatto con Lytton Strachey, D.H. Lawrence e altri. Quando incontra il critico classicista John Middleton Murry se ne innamora. Nel 1918 i due si sposeranno e si stabiliranno nel tranquillo quartiere residenziale di St. John’s Wood, a nord di Londra – abitato anche dagli Olivier e dagli Spender.

Le prime pubblicazioni

Nello stesso anno la Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf pubblica la raccolta Prelude (Preludio, 1918). La prima raccolta, In a German Pension (In una pensione tedesca, 1911), Katherine l’ha sempre considerata una prova “acerba”. Middleton Murry la spinge a scrivere, a dimenticare tutto il resto, persino la musica: per un paio d’anni i due redigono la rivista modernista Ritmo, ma l’asse portante intorno a cui ruota la sua attività di scrittrice sono i racconti. Malgrado la povertà, la tubercolosi che da anni la tormenta costringendola ad andare in Italia e Francia per curarsi, il dolore e la perdita. La sua vita sembra infatti divisa in un prima e un dopo la morte dell’amato fratello minore Leslie. Tra loro c’è da sempre un rapporto di complicità e fiducia, affinità, confidenza. Con il marito spesso assente, è da Leslie che Katherine trae la gioia, conforto, calore. Dal 1915, anche Leslie si è trasferito a Londra con l’esercito inglese, uno dei tanti giovani arruolatisi per spirito di sacrificio e senso del dovere verso l’Inghilterra. È ottobre quando va a trovare la sorella a St. John’s Wood. Il loro ultimo incontro. Poche settimane dopo torna in Belgio a combattere. Durante un’esercitazione una granata difettosa lo uccide a ventun anni, l’ennesima vittima di un paese che vede falciata un’intera generazione: la sua gioventù. Per Katherine la ferità sarà impossibile da guarire, il vuoto per la scomparsa del fratello irreparabile, una voragine di dolore in cui lei stessa rischia di perdersi.

Il dolore è fonte narrativa

Ogni suo racconto richiama in vita un drappello di lumi spenti, riverbero di visioni accorate. Il ricordo frantumato in molte schegge del suo amore per Leslie e la sua perdita, la sofferenza che l’ha lacerata. La tubercolosi di cui soffre da quel momento peggiora. Al fondo della sua scrittura c’è questa dolente consapevolezza: la morte può strapparci, ogni momento, quanti abbiamo di più cari, lasciandoci soli in un mondo ostile. E “solo” è per lei uno degli aggettivi più minacciosi, il seme di una nostalgia che affonda le sue radici in un’eclissi del cuore irreversibile. Uno dei più amati, invece, è “vago”: eterea, indistinta dimensione in cui i contorni della realtà sono più ampi di quanto potrebbe dettare la ragione. Vago in senso leopardiano: indefinito, remoto come la bellezza.

Pubblicherà altre raccolte, Katherine Mansfield, la sua scrittura diventerà una vetta del racconto moderno con Bliss (Felicità, 1920) e The Garden Party (Festa in giardino, 1922). Ogni racconto getta ciascuno luce su un contrasto: la piccolezza dei sentimenti umani contro la serenità della natura. La vita e la morte sullo sfondo dell’eterno. Il dolore e la felicità. L’ingiustizia sociale o la divisione della guerra. Temi senza tempo. Scrivere è per lei anche continuare a tener vicino Leslie, gettare un esercito di parole sulla carta è il suo modo di circondarlo della protezione che in Belgio gli è mancata, parlargli ancora e colmare la distanza tra loro, consolare sé stessa del lutto e ridar vita al fratello con parole e personaggi. Come Heathcliff dopo la morte di Catherine si circonda ossessivamente di tutto ciò che gliela ricorda, così Katherine sembra spesso richiamare a sé l’ombra di Leslie, che è uscito dalla sua vita ma non dal suo cuore: scriverne è un tentativo di annientare il dolore e il vuoto e sopportarli. Desiderio di riportarlo a sé grazie alla scrittura, volontà di non lasciarlo andare all’oblio. E nel racconto che dà il titolo alla raccolta Garden Party, Leslie può diventare Laurie, il fratello della protagonista. Pochi mesi dopo la sua pubblicazione, Katherine Mansfield morirà di emorragia, senza alcuna assistenza medica, in Francia, dov’era andata per cercare una cura alla tubercolosi. Aveva trentaquattro anni.

Festa in giardino

Il racconto è una riflessione sull’esistenza, in cui una cronaca in apparenza semplice, così come la lingua e la tonalità di delicata leggerezza, dischiude alla fine significati profondi: per essere vissuta appieno, la vita ci chiede di accettare tutto ciò che essa offre, di buono e di cattivo, e il lettore vi è condotto grazie alla sensibilità di una ragazza. La storia è quasi un ritratto intimo dell’autrice: la giovane Laura scopre la tragedia – la morte di un vicino – mentre in casa si sta preparando una festa in giardino per lei. Pur circondata dalle altre figure della sua abbiente famiglia, è lei, con la sua prospettiva e le sue azioni, il centro del racconto. Il suo punto di vista è interrotto solo per poco dalla madre, Mrs. Sheridan e dalla sorella Jose. Il dialogo interno di Mansfield conferisce ritmo al racconto, attira il lettore e l’avvicina al personaggio.

La sequenza cronologica spezzata solo da qualche flashback, tutto si svolge in poche ore, mentre è omessa la descrizione di personaggi e ambiente, messi in luce con l’avanzare della vicenda. L’uso di vari simboli completa il ritratto dei personaggi: per andare dai vicini, la madre dà a Laura un cappello «ornato di margherite d’oro e un lungo nastro di velluto nero», del tutto fuori luogo nella circostanza, simbolo dell’insensibilità di Mrs. Sheridan (e di Jose) per l’indigenza di chi vive loro accanto. Indossandolo, Laura dimentica per un attimo la sofferenza davanti alla morte, e riesce ad allontanare da sé immagini che la perseguitano, «sfocate, irreali, come una foto sul giornale». Ma quando entra nella casa del vicino, morto in un incidente, si rende penosamente conto dell’errore: «Perdoni il cappello» mormora allora, davanti alla figura distesa nel letto, una richiesta di perdono per la propria colpevole leggerezza. Mentre l’indifferenza della madre e di Jose rappresentano il preconcetto e l’indifferenza verso le classi sociali più sfortunate, il punto di vista di Laura «sembra essere diverso da tutti loro», e lo dimostra quando suggerisce di rinviare la festa. Mrs. Sheridan è convinta che «quella gente», i vicini poveri al confine della sua proprietà, non si aspettano che loro possano modificare i loro progetti, nemmeno davanti alla morte: meschinità rinforzata dall’idea d’inviare loro il cibo avanzato alla festa, con dei gigli che «impressioneranno» la «gente di quella classe». Nella stessa famiglia, Laura e sua madre sembrano vivere due mondi antitetici. Tema apparente del racconto, il compleanno di Laura introduce il dramma, un conflitto di opposti alla Blake: ricchezza e povertà, vita e morte, capacità di sentire il dolore altrui e indifferenza, compassione e pregiudizi sociali. Fondamentali implicazioni filosofiche che Mansfield sa intrecciare magistralmente alla vicenda.

Per serie di contrasti si muovono anche i personaggi: quelli “positivi” compaiono nella prima metà della storia, dove tutto appare “perfetto”. La seconda metà, intessuta al “buio”, ha viceversa inizio nel «vicolo fumoso e buio» percorso da Laura: eco di morte, della tomba, colore cupo dei cottage in cui vivono le classi povere. L’opposizione a quel piccolo mondo e quello degli Sheridan avanza per forti immagini visive: nella loro elegante residenza persino il tempo è «ideale», il cielo è «azzurro» e «senza una nuvola», in giardino «centinaia, sì, letteralmente centinaia [di rose], erano uscite in una sola notte» per decorarlo e festeggiare Laura, l’azzurro «velato da una leggera foschia dorata». In uno scontro simbolico di visioni, durante la visita di Laura al villaggio, il cielo grava invece «esangue» sui vicoli «fumosi e scuri» e i cottage «dipinti di marrone color cioccolato» esistono solo per un «tremolio di luce». Il villaggio è un «pugno nell’occhio», i miseri riquadri davanti casa non hanno giardini, non esibiscono «altro che steli di cavolo, galline malate e barattoli di pomodoro». Eppure, quei due mondi confinano. Gli estremi nella vita sono uniti e dipendono l’uno dall’altro: la bellezza non può esistere senza il brutto, la gioia senza dolore, la vita senza morte. L’insieme rende la vita ciò che è. Laura alla fine lo capisce: per vivere bisogna accettare tutto, anche gli aspetti negativi.

Le sue ultime parole sono un campo aperto. Non riesce a esprimere quanto ha provato e lascia al lettore riempire il vuoto e completare i suoi pensieri: la vita può essere complicata o terribile, o ancora semplice. O un racconto di dolore e meraviglia.

Garden Party di Katherine Mansfield

Comunque, il tempo era perfetto. Non avrebbero potuto avere una giornata più adatta a una festa in giardino nemmeno se l’avessero ordinata per l’occasione: tiepida, senza vento, con il cielo sgombro. L’azzurro velato solo da una leggera foschia dorata, come accade a volte a inizio estate. Il giardiniere era in piedi dall’alba e aveva falciato e rastrellato i prati, finché l’erba e le corone di terra scura che prima ospitavano le margherite non parvero brillare. Quanto alle rose, sembravano consapevoli di essere gli unici fiori che fanno colpo sugli invitati alle feste in giardino, gli unici che tutti riconoscono al volo. Centinaia, non esagero, centinaia di rose erano spuntate durante la notte; il fogliame verde s’inchinava come avesse ricevuto la visita degli arcangeli. Quando arrivarono gli uomini a montare il tendone la colazione non era ancora finita.

«Dove vuoi che mettano il tendone, mamma?».

«Mia cara, è inutile che tu lo chieda a me: quest’anno ho deciso di lasciar fare tutto a voi ragazzi. Dimenticatevi che sono vostra madre e trattatemi come un’ospite di riguardo».

Ma era impensabile che Meg sorvegliasse il lavoro degli operai: si era lavata i capelli prima di colazione ed era seduta a bere il caffè con un turbante verde da cui sbucavano due umidi riccioli neri che le si erano stampati sulle guance. Jose, frivola com’era, scendeva sempre in sottoveste di seta e kimono.

«Dovrai pensarci tu, Laura; sei tu l’artista di famiglia».

E Laura corse via, tenendo ancora in mano una fetta di pane imburrato. Era magnifico avere una scusa per mangiare all’aperto, e poi le piaceva organizzare le cose; aveva sempre l’impressione di riuscirci molto meglio degli altri.

Sul sentiero del giardino c’era un gruppetto di quattro uomini in maniche di camicia. Portavano dei pali avvolti in rotoli di tela e, in spalla, borsoni carichi di attrezzi. Mettevano soggezione. In quel momento Laura desiderò di non essersi portata dietro la fetta di pane imburrato, ma ormai non poteva appoggiarla da nessuna parte né buttarla via. Arrossì e, mentre si avvicinava, cercò di assumere un’espressione seria e persino un tantino miope.

«Buongiorno», disse, imitando il tono della madre. Ma le parve talmente affettato che se ne vergognò, e iniziò a balbettare come una bambina. «Ehm, dunque, siete venuti per… è per il tendone?».

«Esatto, signorina», rispose il più alto dei quattro, un tipo allampanato e lentigginoso, mentre spostava il borsone, si tirava indietro il cappello e le sorrideva. «Proprio per il tendone».

Aveva un sorriso tanto aperto e cordiale che Laura si ricompose. Che begli occhi aveva, piccoli, ma di un azzurro così intenso! E, adesso che guardava anche gli altri tre, si accorgeva che sorridevano tutti. «Tranquilla, non mordiamo!», sembravano dire. Quanto erano gentili, quegli operai! E che splendida mattinata! Ma non doveva parlare del tempo, doveva essere professionale: il tendone.

«D’accordo, che ne dite del prato dei gigli? Potrebbe andar bene?».

Lo indicò con la mano libera; loro si voltarono e osservarono un punto in quella direzione. Un tipo piccoletto sporse il labbro inferiore e quello alto aggrottò la fronte.

«Non mi piace», disse. «Non risalterebbe abbastanza. Vede, un tendone», e si voltò verso Laura con quel suo modo confidenziale, «è bene metterlo in un posto dove sarà come un pugno in un occhio, se capisce cosa intendo».

L’educazione ricevuta la indusse a chiedersi per un attimo se fosse rispettoso da parte di un operaio parlarle di pugni negli occhi. Ma in realtà capiva bene ciò che intendeva. «In un angolo del campo da tennis, allora», suggerì. «Ma nell’altro angolo ci sarà già la banda».

«Ah, ci sarà anche la banda?» disse un altro operaio. Era pallido e perlustrava il campo con gli occhi scuri e l’aria sofferente. A cosa stava pensando?

«Una banda di pochissimi elementi», disse cortesemente Laura. Forse, una banda piccola gli sarebbe spiaciuta meno. Ma il tipo alto s’intromise.

«Guardi là, signorina. Quello è il posto giusto: davanti a quegli alberi, laggiù in fondo. Lì andrà benone».

Stava parlando dei karakas. Ma così i karakas sarebbero rimasti nascosti. Ed erano così belli, con quelle foglie grandi e lucenti e i grappoli di frutti gialli. Sembravano proprio gli alberi che crescono su un’isola deserta: orgogliosi, solitari, con le foglie e i frutti rivolti al sole in una specie di splendore silenzioso. Era proprio necessario nasconderli dietro il tendone?

Purtroppo, sì. Gli uomini si erano già caricati in spalla i pali, diretti laggiù. Solo il tipo alto era rimasto. Si chinò, strofinò una spiga di lavanda, si portò pollice e indice al naso e annusò il profumo. Quando Laura vide quel gesto si dimenticò completamente dei karakas, sorpresa che a quell’uomo piacessero cose del genere, che apprezzasse il profumo della lavanda.

Quanti uomini che conosceva l’avrebbero fatto? Oh, com’erano simpatici quegli operai, pensò. Perché non potevano essere loro i suoi amici, invece degli stupidi ragazzotti con cui andava ai balli e che si presentavano a cena la domenica sera? Sarebbe andata molto più d’accordo con uomini così.

Era tutta colpa, concluse mentre il tipo alto faceva uno schizzo sul retro di una busta, qualcosa da fissare in alto o da appendere, era tutta colpa di quelle assurde distinzioni di classe. Be’, per quanto la riguardava, non contavano proprio. Neanche un po’, nemmeno un briciolo… E a quel punto si sentirono i colpi secchi dei martelli di legno. Qualcuno fischiettava, un altro gridò:

«Tutto a posto, laggiù, amico?». «Ehi, amico!» Che cordialità, che… Giusto per mostrare quanto fosse felice, per far vedere al tipo alto quanto si sentisse a suo agio e disprezzasse quelle stupide convenzioni, diede un bel morso al pane imburrato e guardò lo schizzo. Si sentiva proprio un’operaia.

«Laura, Laura, dove sei finita? Laura, al telefono!» gridò una voce dalla casa.

«Arrivo!» E via se ne andò leggera, sul prato, lungo il sentiero, su per i gradini, in veranda e poi nel portico. Nell’atrio, suo padre e Laurie si spazzolavano il cappello, pronti ad andare in ufficio.

«Senti, Laura», le disse Laurie di corsa, «perché non controlli la mia giacca prima di sera? Vedi se ha bisogno di una stiratina».

«Certo», rispose lei. E all’improvviso non riuscì a trattenersi. Corse da lui e gli diede un abbraccio rapido e breve. «Oh, io adoro le feste! E tu?», disse senza fiato.

«Ce-ertamente», rispose Laurie con la sua calda voce maschile, e ricambiò l’abbraccio dandole, poi, una spintarella. «Corri al telefono, ragazzaccia».

Già, il telefono. «Sì, sì, certo. Kitty? Buongiorno, cara. Vieni a pranzo? Dì di sì, cara. Ne sarei felicissima, è ovvio. Sarà un pasto alla buona: residui dei tramezzini e qualche pezzetto di meringa rotta, più gli avanzi. Già, è una splendida mattinata, vero? Quello bianco? Oh, io lo metterei di sicuro. Un attimo… resta in linea. La mamma mi sta chiamando». Laura si appoggiò allo schienale della sedia. «Cosa c’è, mamma? Non ti sento».

La voce di Mrs Sheridan fluttuò per le scale. «Dille di indossare quel bel cappello che portava domenica scorsa».

«La mamma dice di indossare quel bel cappello che avevi domenica scorsa. Ottimo. All’una in punto, ciao».

Laura riagganciò il ricevitore, alzò le braccia, inspirò profondamente, le stirò e le lasciò ricadere.
«Ah», sospirò, e un attimo dopo si raddrizzò sulla sedia e rimase immobile ad ascoltare. Pareva che tutte le porte fossero aperte: la casa risuonava di passi rapidi e soffocati e di voci che si rincorrevano. La porta verde imbottita che dava sulle cucine si spalancò e si richiuse con colpo attutito. In quel momento si udì un rumore assurdo, prolungato, come una risata sommessa: era il pianoforte pesante spostato sulle rotelle arrugginite. Ma che aria! Possibile che fosse sempre così, a farci caso? Tenui brezze giocavano a rincorrersi, entrando dalle finestre e uscendo dalle porte. E c’erano anche due minuscole chiazze di sole, una sul calamaio, l’altra su una cornice d’argento, che danzavano. Erano bellissime, soprattutto quella sul coperchio del calamaio. Era calda, una calda stellina d’argento. L’avrebbe quasi baciata.

Si udì uno scampanellio al portone d’ingresso e poi il fruscio della gonna stampata di Sadie sulle scale. Una voce maschile mormorò; Sadie rispose, noncurante: «Non lo so davvero. Aspetti, chiedo a Mrs Sheridan».

«Chi è, Sadie?», Laura entrò nell’atrio.

«Il fioraio, Miss Laura».

Proprio lui. Lì, poco oltre la soglia, c’era un’enorme cassetta bassa, piena di vasi di gigli rosa. Nessun’altra varietà: solo gigli di canna, con grandi fiori rosa, spalancati, sfolgoranti, così vivi sugli steli e di colore tanto acceso da far quasi paura.

«Oh, Sadie!», disse Laura, la sua voce quasi un gemito. Si accucciò come se volesse scaldarsi al fulgore di quei gigli; li sentiva nelle dita, sulle labbra, che le crescevano in seno.

«Ci dev’essere stato un errore», disse con un filo di voce.

«Nessuno ne ha ordinati tanti. Sadie, vai a chiamare la mamma».

Ma proprio in quel momento arrivò Mrs Sheridan.

«Va tutto bene», disse calma. «Sì, li ho ordinati io. Non sono meravigliosi?». Strinse il braccio di Laura. «Ieri sono passata davanti al negozio e li ho visti in vetrina. Ho subito pensato che per una volta nella vita avrei avuto gigli di canna a volontà. La festa in giardino è un’ottima scusa».

«Avevi detto, mi pareva, di non volerti intromettere», disse Laura. Sadie se n’era andata e il garzone del fioraio era ancora fuori, accanto al furgone. Laura mise un braccio intorno al collo della madre e dolcemente, molto dolcemente, le morsicò un orecchio.

«Bambina mia, una madre troppo razionale non farebbe per te, vero? Su, smettila. Sta arrivando il garzone».

Trasportava altri gigli, una cassetta intera.

«Li metta pure lì, appena dentro, su entrambi i lati del portico, per cortesia», disse Mrs Sheridan.
«Sei d’accordo, Laura?»

«Oh, sì, mamma».

Intanto, in salotto, Meg, Jose e il giovane Hans erano finalmente riusciti a spostare il pianoforte.

«Allora, che ne dite se mettiamo questo divano contro la parete e portiamo tutto il resto fuori dalla stanza, tranne le sedie?».

«Ottimo».

«Hans, sposti i tavolini nella sala da fumo, prenda uno spazzolone per togliere questi brutti segni dal tappeto e… aspetti un attimo, Hans», Jose adorava dare ordini ai domestici, e di rimando loro adoravano obbedirle: li faceva sempre sentire parte di un dramma teatrale. «Dì alla mamma e a Miss Laura di venire qui subito».

«Molto bene, Miss Jose».

Si voltò verso Meg. «Voglio sentire il suono del pianoforte, nel caso oggi pomeriggio mi chiedano di cantare. Proviamo È triste la vita».

Pum! Ta-ta-ta Ti-ta! Il piano emise suoni tanto appassionati che Jose cambiò espressione e intrecciò le mani. Quando sua madre entrò con Laura, Jose le guardò con aria dolente ed enigmatica.

È triste la vi-ta,

una lacrima – un sospiro.

un amore che pas-sa,

è triste la vi-ta,

una lacrima – un sospiro.

un amore che pas-sa,

E poi… è fi-ni-ta!

Ma alla parola «addio», sebbene il piano sembrasse più disperato che mai, il viso di Jose s’illuminò di un sorriso radioso, terribilmente fuori luogo.

«Sono in perfetta forma, vero, mamma?», chiese tutta felice.

È triste la vi-ta,

Muore la speranza.

Un sogno – un ris-ve-glio.

Ma Sadie le interruppe. «Che cosa c’è, Sadie?».

«Scusi, signora, la cuoca chiede se le bandierine dei tramezzini sono pronte».

«Le bandierine dei tramezzini, Sadie?», ripeté Mrs Sheridan, distrattamente. E dalla sua espressione le figlie capirono che non lo erano. «Fammici pensare». Poi si rivolse a Sadie in tono deciso: «Dì alla cuoca che gliele farò avere tra dieci minuti».

Sadie uscì.

«Su, Laura», disse in fretta la madre, «vieni con me nella sala da fumo. Da qualche parte c’è una busta su cui ho scritto le ricette; devi trascrivermele in bella copia sulle bandierine. Meg, tu vai subito di sopra e togliti quella roba umida dalla testa. Jose, corri a finire di vestirti. Mi avete sentito, bambine, o devo dirlo a vostro padre quando torna a casa stasera? E… Jose, se passi dalla cucina, cerca di tener buona la cuoca, d’accordo? Stamattina mi fa davvero paura».

La busta venne finalmente ritrovata dietro alla pendola della sala da pranzo, anche se Mrs Sheridan non aveva la più pallida idea di come ci fosse finita.

«Una di voi deve avermela presa dalla borsa, perché mi ricordo perfettamente… Formaggio da spalmare e crema al limone. Hai scritto?».

«Sì».

«Uova e…», Mrs Sheridan allontanò la busta dagli occhi.

«Sembra che ci sia scritto “topi”. Ma non può essere, no?».

«Noci, mamma», disse Laura girandosi.

«Ma certo, noci. Ma che brutta combinazione: uova e noci».

Finalmente terminarono, e Laura portò tutto in cucina.

Vi trovò Jose intenta ad ammansire la cuoca, che non incuteva affatto paura.

«Non ho mai visto sandwich così squisiti», disse Jose in tono entusiasta. «Di quanti tipi hai detto che sono, quindici?».

«Quindici, Miss Jose».

«Be’, complimenti».

La cuoca radunò le croste con il lungo coltello da pane e fece un gran sorriso.

«È arrivato il fattorino di Godber», annunciò Sadie uscendo dalla dispensa. L’aveva visto passare davanti alla finestra.

Ciò significava che erano arrivati i bignè alla panna.

Godber era famoso per i bignè; nessuno si sognava di farli in casa.

«Portali dentro e posali sul tavolo, cara», ordinò la cuoca.

Sadie eseguì e poi tornò alla porta. Ovviamente Laura e Jose erano troppo grandi per interessarsi a cose del genere. Eppure, non poterono fare a meno di convenire che i bignè erano molto invitanti, davvero. La cuoca iniziò a sistemarli, scuotendo via lo zucchero a velo in eccesso.

«Non ti riportano indietro a tutte le feste passate?», disse Laura.

«Penso di sì», rispose la pratica Jose, a cui non piaceva affatto essere riportata indietro. «Devo dire che sembrano fantastici, così leggeri e spumosi».

«Prendetene uno per una, mie care», disse la cuoca con il suo tono rassicurante. «Vostra madre non lo verrà a sapere».

Oh, era impossibile… squisiti bignè alla panna subito dopo colazione: la sola idea dava i brividi. Eppure, due minuti più tardi Jose e Laura si leccavano le dita con quello sguardo tutto assorto che può venire solo dopo aver mangiato la panna montata.

«Andiamo in giardino passando dal retro», propose Laura. «Voglio vedere come procedono gli operai con il tendone. Sono così gentili».

Ma sulla porta di servizio c’erano la cuoca, Sadie, il fattorino di Godber e Hans.

Doveva essere successo qualcosa.

«Toh-oh-oh», chiocciava la cuoca, come una gallina agitata. Sadie si teneva una mano su una guancia come avesse mal di denti. Hans aveva il viso contratto da una smorfia, nel tentativo di capire. Solo il fattorino di Godber aveva l’aria di godersela; era lui che raccontava la storia.

«Che c’è? Cosa è successo?»

«C’è stato un terribile incidente», disse la cuoca. «Un uomo è rimasto ucciso».

«Ucciso! Dove? Come? Quando?».

Ma il fattorino di Godber non voleva farsi sfilare la storia da sotto il naso.

ғHa presente quelle casette qui sotto, signorina?». Se le aveva presenti? Certo che sì. «Be’, in una ci abita un ragazzo che si chiama Scott e fa il carrettiere. Il suo cavallo ha scartato davanti a un trattore, all’angolo di Hawke Street, stamattina, lui è stato sbalzato via ed è caduto di testa. È morto».

«Morto!», Laura fissava il fattorino di Godber.

«Quando l’hanno portato via era già morto», disse il fattorino, soddisfatto. «Mentre venivo qui, portavano il corpo a casa». Poi si rivolse alla cuoca: «Lascia la moglie e cinque bimbi piccoli».

«Jose, vieni qui». Laura prese la sorella per la manica e la trascinò fuori dalla cucina, uscendo dalla porta verde imbottita. Poi si fermò e vi si appoggiò. «Jose!» disse, sconvolta, «come faremo a bloccare tutto?».

«Bloccare tutto, Laura?», esclamò Jose, stupita. «Che intendi?».

«Annullare la festa in giardino, è ovvio». Perché Jose faceva finta di niente?

Ma Jose era ancora più sconcertata. «Annullare la festa? Mia cara Laura, non dire assurdità. È ovvio che non possiamo fare niente del genere: nessuno si aspetta una cosa simile. Non esagerare».

«Ma non possiamo dare una festa in giardino, con un uomo morto appena fuori dal cancello».
Quella sì che era un’esagerazione, perché le casette sorgevano in un vicolo isolato, all’inizio della ripida salita che portava alla villa; in mezzo correva un’ampia strada. Certo, erano fin troppo vicine: erano quanto di più sgradevole potesse esistere, e non avevano alcun diritto di stare in quel quartiere. Piccole dimore squallide color cioccolato. Nei giardini minuscoli solo verze, galline malate e barattoli di pomodoro. Persino il fumo che usciva dai camini aveva un aspetto misero. Brandelli, lembi di fumo, così diversi dai vaporosi sbuffi argentei che si dispiegavano dai comignoli degli Sheridan. In quella stradina vivevano lavandaie, spazzini e un ciabattino, oltre a un uomo la cui casa aveva una facciata costellata da minuscole gabbiette per uccelli, e c’erano frotte di bambini. Quando gli Sheridan erano piccoli, avevano il divieto di metterci piede, per via dell’orribile modo di parlare della gente e delle malattie che avrebbero potuto prendere. Ma da quando erano diventati grandi, Laura e Laurie ogni tanto ci passavano, nei loro giri di perlustrazione. Era un ambiente disgustoso e squallido, da cui uscivano con i brividi. Eppure, bisogna andare dappertutto, vedere ogni cosa: per questo ci andavano.

«E pensa che effetto farebbe a quella povera donna sentire la banda», disse Laura.

«Oh, Laura!». Jose iniziava davvero a irritarsi. «Se ogni volta che qualcuno ha un incidente devi impedire alla banda di suonare, avrai vita dura. Io sono dispiaciuta quanto te per l’accaduto; provo compassione, come te». Il suo sguardo si indurì. Fissò la sorella come faceva sempre quando erano piccole e litigavano: «Non resusciterai un operaio ubriacone con il sentimentalismo», disse piano.

«Un ubriacone! E chi ti dice che fosse ubriaco?». Laura si voltò verso Jose, furibonda. Poi, proprio come facevano sempre da piccole in occasioni del genere, esclamò: «Vado subito a dirlo alla mamma».

«Vai pure, cara», disse Jose con voce suadente.

«Mamma, posso entrare?», Laura girò il grande pomello di vetro.

«Certo, bambina mia. Perché, che succede? Come mai quella faccia?». E Mrs Sheridan, che era seduta alla toeletta, si voltò. Stava provando un cappello nuovo.

«Mamma, è morto un uomo», esordì Laura.

«Non in giardino, spero?», la interruppe la madre.

«No, no!»

«Oh, che spavento mi hai fatto prendere!». Mrs Sheridan sospirò sollevata, si tolse il grande cappello e se lo appoggiò sulle ginocchia.

«Ma, mamma, ascolta», disse Laura. Senza fiato, con voce strozzata, le raccontò la terribile storia.

«Non possiamo certo fare la festa in giardino, no?», la implorò. «Con la banda, gli invitati… Ci sentiranno, mamma; sono quasi nostri vicini!».

Con grande sorpresa di Laura, la madre si comportò esattamente come Jose, ma la cosa fu più difficile da digerire, perché Mrs Sheridan sembrava addirittura divertita. Si rifiutava di prenderla sul serio.

«Ma, bambina mia, ci vuole un po’ di buonsenso: l’abbiamo saputo per caso. Se qualcuno fosse morto per cause naturali, e non so neanche come facciano a sopravvivere in quei buchi angusti, daremmo comunque la festa, no?».

Laura fu costretta a rispondere di sì, ma aveva la sensazione che fosse tutto sbagliato. Si sedette sul divano della madre e iniziò a pizzicare le gale del cuscino.

«Mamma, non è terribilmente crudele, da parte nostra?», chiese.

«Cara!», Mrs Sheridan si alzò e andò dalla figlia, portandosi dietro il cappello. Prima che Laura riuscisse a fermarla, glielo posò sul capo. «Bambina mia!», disse la madre, «il cappello è tuo. È fatto apposta per te; per me è troppo giovanile. Non ti ho mai visto tanto bella, guardati!». Così dicendo, sollevò lo specchietto.

«Ma, mamma…», riprese Laura. Non riusciva a guardarsi allo specchio; si voltò dall’altra parte.

Stavolta Mrs Sheridan perse la pazienza, proprio come aveva fatto Jose.

«Ti stai comportando in modo irragionevole, Laura», disse in tono gelido. «Quella gente non si aspetta che facciamo sacrifici per loro. E non è cortese rovinare il divertimento altrui come stai facendo tu».

«Non capisco», disse Laura, uscendo in fretta dalla stanza e andando in camera sua. Lì, per caso, la prima cosa che vide fu una bella ragazza nello specchio, con un cappello nero orlato di margherite dorate e di un lungo nastro di velluto nero. Non aveva mai immaginato di poter stare così bene. Ha ragione la mamma? pensò. E adesso sperava che fosse così. Sto esagerando? Forse sì. Per un istante immaginò di nuovo quella povera donna e i suoi bambini, e il corpo che veniva portato in casa. Ma tutto sembrava sfocato, irreale, come una foto su un quotidiano. Ci penserò quando la festa sarà finita, decise. E questa le sembrò la soluzione migliore…

All’una e mezzo il pranzo era finito. Alle due e mezzo erano tutti pronti a gettarsi nella mischia. Era arrivata la banda con le sue divise verdi e si era sistemata in un angolo del campo da tennis.
«Mia cara!», trillò Kitty Maitland, «non sembrano tutti delle ranocchie? Avresti dovuto sistemarli intorno allo stagno, e piazzare il direttore in mezzo, su una foglia».

Laurie rientrò e le salutò mentre andava a cambiarsi.

Quando lo vide, Laura ripensò all’incidente; voleva parlargliene. Se anche lui la pensava come gli altri, allora andava bene così. Lo seguì nell’atrio.

«Laurie!».

«Ciao!». Il fratello era a metà delle scale, ma quando si voltò e vide Laura, di colpo sgranò gli occhi e fischiò. «Laura! Sei davvero splendida, giuro», disse Laurie. «Che cappello magnifico!».

Con voce flebile, Laura disse: «Davvero?» e gli sorrise, poi non aggiunse altro. Poco dopo, gli ospiti cominciarono ad arrivare a gruppi. La banda attaccò, i camerieri reclutati per la festa iniziarono a correre dalla casa al tendone. Ovunque c’erano coppie che passeggiavano, si chinavano ad annusare i fiori, si salutavano, attraversavano il prato. Erano come variopinti uccelli atterrati nel giardino degli Sheridan quel pomeriggio, mentre si dirigevano… dove? Ah, che gioia stare in mezzo a persone felici, stringere mani, dare baci sulle guance, sorridere guardandosi negli occhi.

«Laura cara, stai benissimo!».

«Che bel cappello, cara!».

«Laura, sembri una spagnola. Non ti ho mai vista così attraente».

E Laura, raggiante, rispondeva piano: «Le è già stato servito il tè? Gradisce un gelato? Quelli al frutto della passione sono davvero speciali». Corse dal padre e lo supplicò. «Paparino, possiamo dare qualcosa da bere alla banda?».

E quel pomeriggio perfetto giunse lentamente alla fioritura, lentamente avvizzì e i suoi petali si richiusero.

«Mai stata a una festa in giardino più deliziosa…». «Un grande successo…». «Davvero la più…».

Laura affiancò la madre nei saluti agli ospiti. Rimasero l’una accanto all’altra sotto il portico finché non se ne furono andati tutti.

«Grazie al cielo è finita, è finita!», disse Mrs Sheridan.

«Raduna gli altri, Laura. Facciamoci preparare un caffè. Sono esausta. Sì, certo, è stata una festa riuscitissima. Ma le feste, oh, le feste! Perché voi ragazzi insistete a volerle dare?». E si sedettero tutti sotto al tendone deserto.

«Prendi un sandwich, papà. La bandierina l’ho scritta io».

«Grazie». Mr Sheridan diede un morso e il tramezzino sparì. Ne prese un altro. «Immagino che non abbiate saputo del terribile incidente che è accaduto oggi…», disse. «Mio caro», disse Mrs Sheridan, alzando la mano, «abbiamo saputo. C’è mancato poco che ci rovinasse la festa: Laura insisteva per annullarla».

«Oh, mamma!», Laura non voleva essere presa in giro.

«Comunque è stata una faccenda terribile», disse Mr Sheridan. «Quel giovanotto era anche sposato. Viveva nel vicolo qui sotto, lascia una moglie e una mezza dozzina di bambini, dicono».
Calò un silenzio imbarazzato. Mrs Sheridan tormentava la sua tazzina. Insomma, era davvero indelicato da parte di suo marito…

D’improvviso alzò lo sguardo. Sul tavolo c’erano tramezzini, torte, bignè avanzati che sarebbero stati buttati via. Le venne una delle sue idee brillanti.

«So io cosa fare», disse. «Prepariamo un cestino e mandiamo a quei poveretti un po’ di questo cibo squisito. Almeno per i bambini sarà una delizia. Non siete d’accordo? E di sicuro ci saranno i vicini che vanno a trovare la moglie. Che fortuna avere tutto già pronto. Laura!», saltò su. «Portami il cestino grande che è nella dispensa sotto le scale».

«Ma, mamma, pensi davvero che sia una buona idea?», chiese Laura.

Che strano, si comportava di nuovo in modo diverso da tutti gli altri. Portare gli avanzi della festa…

Chissà se quella povera donna avrebbe davvero apprezzato?

«Certo che sì! Ma cos’hai, oggi? Un paio d’ore fa insistevi perché mostrassimo compassione, e adesso…».

Oh, d’accordo! Laura corse a prendere il cestino e sua madre la riempì fino all’orlo.

«Portalo tu, cara», disse. «Corri giù così come sei. No, aspetta, prendi anche le calle. Quella gente rimane sempre colpita dalle calle».

«Gli steli le rovineranno l’abito di pizzo», disse Jose, pratica come sempre. Infatti. Appena in tempo.

«Solo il cestino, allora. Ah… Laura». La madre si allontanò dal tendone insieme a lei: «Mi raccomando, non…».

«Cosa, mamma?».

No, era meglio non mettere idee simili in testa alla sua bambina! «Niente! Vai, corri».

Quando Laura richiuse il cancello del giardino, stava scendendo il crepuscolo. Un cane enorme le passò accanto come un’ombra. La strada riluceva bianca e in basso, nell’avvallamento, le casette erano completamente immerse nell’ombra. Che tranquillità, dopo quel pomeriggio! Laura scendeva giù per la collina, diretta in un posto in cui c’era un morto, e non riusciva a capacitarsene. Perché no? Si fermò un istante, e le parve che in qualche modo i baci, le voci, il tintinnio dei cucchiaini, le risate, il profumo dell’erba calpestata fossero tutti dentro di lei. Non c’era spazio per nient’altro. Che strano! Alzò gli occhi al cielo sbiadito, e il suo unico pensiero fu: «Sì, la festa è riuscita proprio bene».

Attraversò la strada grande. Lì iniziava il vicolo, fumoso e buio. Donne con scialli e cappelli maschili di tweed le passarono accanto frettolosamente. Gli uomini stavano appoggiati alle staccionate, i bambini giocavano sulla soglia. Da quelle squallide casette veniva un tenue brusio. In alcune si intravedeva una luce tremolante, e un’ombra, simile a un granchio, che si muoveva davanti alla finestra. Laura chinò il capo e accelerò l’andatura. Quanto avrebbe voluto essersi messa un soprabito. Il suo vestito risaltava troppo! E il grande cappello nero con il nastro di velluto… se solo ne avesse indossato un altro! Chissà se la gente la guardava? Era sicuramente così. Andare fin laggiù era stato uno sbaglio, lo sapeva fin dall’inizio. Poteva ancora tornare indietro, a quel punto?

No, troppo tardi. Ecco la casa: doveva essere quella. Fuori dalla porta c’era un capannello di persone vestite di nero. Accanto al cancello, una donna molto, molto anziana con una stampella stava seduta a guardare tenendo i piedi appoggiati su un giornale. Quando Laura si avvicinò, calò il silenzio. Il gruppetto si sciolse. Era come se la stessero aspettando, come se sapessero che sarebbe venuta.

Laura era nervosissima. Gettandosi il nastro di velluto dietro le spalle, si rivolse a una donna: «È questa la casa di Mrs Scott?» e lei, con uno strano sorriso, rispose: «Sì, ragazza mia».

Oh, potersene andare da lì! E invece, Laura si ritrovò a dire: «Dio mio, aiutami», s’incamminò per il sentierino e bussò. Magari si fosse potuta allontanare da quegli occhi puntati su di lei o avesse potuto indossare una cosa qualsiasi, persino lo scialle di una di quelle donne. Lascerò il cestino e me ne andrò subito, decise. Non aspetterò neanche che lo svuotino.

Poi la porta si aprì, e nella penombra comparve una donnina vestita di nero.

Laura chiese: «Lei è Mrs Scott?». Ma con suo grande terrore, la donna rispose: «Entri, prego, signorina», e Laura si ritrovò imprigionata nel corridoio.

«No», disse Laura, «non voglio entrare. Volevo solo lasciarvi questo cestino. La mamma vi manda…».

La donna, nel corridoio buio, parve non sentirla nemmeno. «Da questa parte, prego, signorina», le disse in tono ossequioso, e Laura la seguì.

Si ritrovò in una cucina minuscola, squallida e dal soffitto basso, illuminata da una lampada che fumava. Davanti al caminetto era seduta una donna.

«Em», disse la donnina che l’aveva fatta entrare. «Em! C’è una signorina». Poi si voltò verso Laura e disse con eloquenza: «Io sono sua sorella, signorina. La scuserà, vero?».

«Oh, ma certo!», disse Laura. «Per favore, la prego, non la disturbi. Io… io voglio solo lasciare…».

Ma in quel momento la donna seduta accanto al caminetto si voltò. Il suo viso, tumefatto, rosso, con gli occhi e le labbra gonfie, aveva un aspetto orribile. Pareva non capire perché Laura si trovasse là. Che significava? Perché quella sconosciuta se ne stava nella sua cucina con un cestino? Di che si trattava? E la povera donna si corrucciò nuovamente.

«D’accordo, cara», disse l’altra. «Ci penso io a ringraziarla, la signorina».

E riattaccò: «La scuserà, signorina, vero?», disse, e il suo viso, gonfio come quello della sorella, abbozzò un sorriso mellifluo.

Laura voleva soltanto uscire, andarsene. Tornò in corridoio, una porta si aprì e lei finì dritta nella camera da letto dove giaceva il morto.

«Vuole vederlo, eh?», disse la sorella di Em, e le passò davanti, avvicinandosi al letto. «Non deve aver paura, ragazza mia»  e il suo tono sembrava premuroso e d’intesa, e affettuosamente tirò indietro il lenzuolo… «Ha un aspetto che è un amore. Non si vede nulla. Venga, cara».

Laura si avvicinò.

Sul letto era disteso un giovane uomo profondamente addormentato; dormiva così tranquillo e in pace che ormai era lontano, lontanissimo da loro. Oh, così lontano, così in pace. Stava sognando. Nessuno doveva svegliarlo mai più. La testa affondata nel cuscino, gli occhi chiusi, ciechi, sotto le palpebre abbassate. Si era completamente abbandonato ai propri sogni. Cosa gli importava di feste in giardino, cestini e abiti di pizzo? Era lontano da tutte quelle cose. Era stupendo, bellissimo. Mentre loro ridevano e la banda suonava, quella meraviglia era arrivata nel vicolo. Felice… felice… Va tutto bene, diceva quel viso addormentato. Va tutto esattamente come deve andare. Sono contento. Ma allo stesso tempo veniva da piangere, e Laura non poté uscire dalla stanza senza dirgli qualcosa.

Singhiozzò forte, come una bambina.

«Perdoni il cappello», disse.

E stavolta non aspettò la sorella di Em. Trovò da sola la strada per uscire, risalire il sentiero, lasciarsi alle spalle tutta quella gente nera. All’angolo del vicolo c’era Laurie.

Il ragazzo uscì dall’ombra. «Sei tu, Laura?».

«Sì».

«La mamma cominciava a preoccuparsi. È andato tutto bene?».

«Sì, bene. Oh, Laurie!». Gli afferrò il braccio e si strinse a lui.

«Ehi, non starai mica piangendo?», chiese il fratello.

Laura scosse il capo. Sì che stava piangendo. Lui le cinse le spalle. «Non piangere», disse con la sua voce calda, affettuosa. «È stato tanto terribile?».

«No», singhiozzò Laura. «È stato bellissimo. Però, Laurie…». S’interruppe e lo guardò. «La vita non…» balbettò, «la vita non…». Ma non riuscì a spiegare cosa fosse, la vita. Non importava: lui aveva capito.

«Vero, tesoro?» disse Laurie.