Per una di quelle imponderabili coincidenze (o nemesi) che la storia ci porge per tener fermo il suo ruolo di magistra vitae, il 9 maggio è giorno di due celebrazioni centrali nel diverso orizzonte ideale che ciascuna di esse esprime. Sulla prima il tormentone massmediatico si è accanito puntualissimo anche quest’anno (perdendo però il primato, che è andato senz’ombra di dubbio ai preparativi per la cerimonia d’incoronazione di re Carlo terzo & consorte), ed è la Giornata della Vittoria. Den’ Pobedy in Russia, Den’ Peremohy in Ucraina: fu Stalin ad annunciarla, il 9 maggio 1945, decretando per l’appunto la Vittoria sovietica nella “Grande guerra patriottica” contro la Germania nazista: un giorno che, disse Vladimir Putin in occasione della maestosa parata tenutasi a Mosca nel 2021, per la Russia «è stato e sarà sempre sacro». Forse più che nella concezione di Stalin, in quella imperialista del nuovo Zar non si tratta di un giorno da ricordare, ma di una meta cui tendere: letteralmente un “futuro alle spalle”, per rubare l’espressione al grande libro di Hannah Arendt dedicato ad alcune delle più celebri coscienze ebraiche del Novecento. È un giorno uscito dalla storia divenendo sostanza metafisica, espressione di una supremazia morale che esige l’annientamento dell’insidia nazifascista eternata da chiunque appartenga a un popolo diverso da quello che l’ha fatta propria: principio e fine di una vera guerra santa. Del resto, il senso dell’aggressione all’Ucraina è tutto qui: colpevole, lei parte e addirittura genitrice di quel popolo, di aver tradito l’investitura della storia cedendo alle lusinghe dell’Occidente corrotto. (E, diciamolo così, tra parentesi, viene da chiedersi se tutto questo non ricordi un po’ anche la querelle di casa nostra, decisamente stantia, che ogni anno si riaccende in prossimità delle celebrazioni del 25 aprile).

La seconda “giornata”, passata però come sempre quasi in sordina, è il 9 maggio che guarda non alle spalle, ma al futuro dell’Europa scampata ai disastri della Seconda guerra mondiale: celebrazione di una sacralità non oppositiva, ma programmatica e “rigenerativa”. Così, almeno, nel grande sogno dell’Europa unita espresso nel discorso pronunciato da Robert Schuman al Quai d’Orsay nel 1950 che sta all’origine dell’odierna celebrazione. In quell’occasione l’allora ministro degli esteri francese gettava le basi di un’Europa unita che «non sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Ed è precisamente questa unità in progress che l’appuntamento del 9 maggio serve a richiamare. Ma ce n’era veramente bisogno? Si direbbe proprio di sì. Era infatti sembrato, a un certo punto di questa “storia comune”, che tutto si giocasse sulla stabilità delle libertà custodite dall’Occidente post-cristiano. Che se l’Europa correva qualche pericolo, quello non poteva che venire “da fuori”, da un corpo estraneo. Tanto più alto risuonò perciò l’allarme il 7 gennaio 2015 con i tragici fatti di Charlie Hebdo, quando ci si accorse che le armi del pensiero occidentale a difesa della furia iconoclasta islamica contro il volto della modernità erano tragicamente spuntate. Non era rimasta, a questa nostra società post greco-giudaico-cristiana, altra risorsa che lo sberleffo. È così: l’ultima parola del relativismo, della deriva agnostica del pensiero occidentale è stato lo sberleffo, che è la reazione tipicamente infantile di chi si ritrova senza uno straccio di argomento argomentabile. Ed è mortificante che oggi s’invochi ancora una volta l’unità d’Europa non “per essere” qualcosa (magari quell’Europa delle cattedrali che Schuman sognava), ma ostinatamente “contro” qualcuno. Nemmeno il capitale discorso di Benedetto XVI a Regensburg è riuscito a far capire a questa Europa smarrita che il suo problema non sono gli altri, i diversi per cultura e tradizione, i flussi migratori, ma è L’abolition de l’âme, come recita il recente saggio del filosofo francese Robert Redeker, o forse, meglio, la sua schizofrenia.

«In Europa oggi abbiamo due anime», notava infatti Benedetto XVI in un’intervista del 2012: «Un’anima è una ragione astratta, anti-storica… L’altra anima è quella che possiamo chiamare cristiana… Solo una ragione che ha un’identità storica e morale può anche parlare con gli altri, cercare una interculturalità nella quale tutti possono entrare e trovare una unità fondamentale dei valori che possono aprire le strade al futuro, a un nuovo umanesimo, che deve essere il nostro scopo». Lo scopo della cultura e della fede cristiana.

Giusto tra un anno si voterà per rinnovare il mandato agli uomini e alle donne che ci rappresenteranno nel Parlamento europeo: è responsabilità  di tutti noi affidarlo a quanti vorranno e sapranno farsi carico di quello scopo.