Una conversazione con il fotografo siciliano Franco Carlisi, in occasione dell’inaugurazione della mostra presso la GAM (Galleria d’arte moderna) di Catania (23 luglio – 27 agosto 2025) Romanzo italiano. La mostra, curata da Giusy Tigano e già esposta a Palazzo Brancaccio a Roma e al Mo.Ca. di Brescia, si sviluppa in un romantico pas de deux tra le fotografie di Carlisi e del napoletano Francesco Cito, sulla colonna sonora Evocazioni del pianista e compositore Davide Ferro, per una mostra-concerto dalle grandi emozioni.

Ritratto di Franco Carlisi

Tema centrale di Romanzo italiano è il matrimonio, come avete costruito questo dialogo a due?

Si è cercato attraverso la sequenza di costruire una sorta di racconto, un romanzo. Poi però, naturalmente, il romanzo si completa nella testa di chi guarda, perché ognuno di noi, guardando quelle fotografie, va a costruirsi un romanzo e un epilogo che magari non è previsto né dai fotografi né da chi ha allestito realmente la mostra. Però si lascia grande spazio, per così dire, a quella che può essere l’interpretazione del visitatore.

Qual è la narrazione del matrimonio che emerge dai tuoi scatti?

Questo progetto risale al 2011, quando ho iniziato a fotografare su questo tema e fa parte di un lavoro più ampio che si chiama il Valzer di un giorno (Gente di fotografia, €54). Di fatto voleva essere una scorciatoia per riuscire a realizzare delle immagini che fossero semplici, perché si partiva da quello che è la naturale teatralità del popolo siciliano. Basti pensare alle feste religiose e a quello che si mette in scena. Allora a me sembrò che, utilizzare il matrimonio come campo di lavoro, potesse darmi una certa soddisfazione. Non è stato così, perché quello che veniva messo in scena, cioè le maschere pirandelliane, non mi interessavano. Non mi interessava per così dire il teatro, per quando si potesse rifare al teatro del tragico e me ne sono reso conto via via che facevo il lavoro, ma quello che mi interessava era la soglia, il rito di passaggio.

F. Carlisi, Il Valzer di un giorno, in Romanzo italiano. Ph. F. Carlisi

Cosa intendi con soglia?

Noi siamo solitamente abbastanza indifferenti al passare del tempo, specie da giovani, pensiamo di essere immortali. Poi ci sono dei momenti, le cosiddette linee d’ombra, degli attraversamenti: le soglie, che attraversiamo durante la nostra vita in cui il tempo quotidiano si infrange. E parlo di tempo da ingegnere, per cui c’è un flesso, che è la curva che cambia pendenza, cambia concavità. Ecco, questo accade quando il quotidiano si interrompe. Allora tu ti rendi conto che non sei portato dal tempo, ma che sei tu a portare il tempo. Allora, questa consapevolezza di stare all’interno del tempo ci porta a minare quella che è la familiarità che abbiamo con noi stessi. Allora non solo si guarda indietro, si cerca di fare bilanci, e si cerca di raccontarsi perché si vede minata l’identità, ma da lì nasce il racconto, un racconto che, nel caso di un fotografo, avviene naturalmente attraverso le fotografie. Devo dire anche che, nel momento in cui si verifica il flesso, si può rivelare un momento di verità. Perché ci si sente più fragili, perché questa crisi d’identità – chiamiamola così – si risolve in un non sapersi raccontare. “Nessuno resiste senza vite prestate”, dice Plessner; quindi, noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci venga in soccorso e ci racconti la nostra vita.

È quello che fa la fotografia?

La fotografia in genere ci pone davanti uno specchio, in cui ci viene incontro l’altro che siamo e nel quale, chissà per quale ragione, ci siamo riconosciuti. Mi pare che fosse Orhan Pamuk a dire che i più grandi regali della vita sono i ritorni. Non i ritorni di qualcuno, insomma, quello si sa, tornare non è mai come prima, ma sono i ritorni quelli legati alla memoria volontaria. Stai in un bar, senti un nome, una voce che ti riporta chissà dove nel tempo e nello spazio e questa è una cosa bellissima, che accade con la fotografia. Noi ci ritroviamo: la fotografia a volte costituisce una sorta di epifania, vedi l’immagine di una persona, un frammento della vita di un altro che non conosci e, chissà perché, questo frammento della vita di un altro va a intercettare la tua vita. Allora ti specchi, ti vedi nello specchio dell’altro.

F. Carlisi, Il Valzer di un giorno, in Romanzo italiano. Ph. F. Carlisi

È quello che intendeva Barthes con il concetto di “camera chiara”, no? Roland Barthes fa riferimento alla stessa emozione che lui provò di fronte alla foto del fratello di Napoleone e si stupì di star guardando quegli stessi occhi che guardarono l’Imperatore. Si parla, appunto, di memoria, di soggetto, di oggetto e, anche, di spettatore: chi guarda riconosce e si riconosce.

Certo, tutti gli attori contribuiscono a dare un significato all’immagine. Nel mio caso mi fa piacere pensare a un rapporto assolutamente soggettivo con le immagini che abbia a che fare con il nostro vissuto e per vissuto non intendo la vita concreta, quella fatta dalle giornate di 41 gradi, ma quella vissuta nella nostra mente, fatta dai libri che abbiamo letto, dai film che abbiamo visto, e che poi è quella che riconosciamo come vera al di là di tutto.

F. Carlisi, Il Valzer di un giorno, in Romanzo italiano. Ph. F. Carlisi

Perché hai deciso di raccontare la Sicilia?

Per me la Sicilia è, alla maniera di Sciascia, metafora del mondo: è un modo per entrare dentro l’animo umano. Perché? Perché la Sicilia è una terra piena di contraddizioni e, quindi, può rappresentare in un certo senso tutti gli stati d’animo a qualunque latitudine. Nel momento in cui ho fatto le fotografie – naturalmente la selezione è stata fatta a posteriori –, ho cercato di raccontare tutte le classi sociali e il lavoro completo, Valzer di un giorno, si rivolge a tutti, quasi, per così dire, con una valenza scientifica. Però, ogni fotografia per il suo referente si porta dietro delle informazioni che sono antropologiche. Però non è questo il mio vero interesse. Perché? Perché non ho saputo rinunciare a quella che è la mia vocazione immaginifica, onirica. Tant’è vero che, se guardi le mie fotografie, spesso non hanno un approccio “frontale”, ma vanno alla ricerca del dettaglio, del gesto. Perché? Perché vogliono, in un certo senso, diventare archetipiche, per così dire universali.

Pensi che un discorso che ha luogo in Sicilia possa incontrare sensibilità più lontane? Anche solo come la mia, che sono milanese.

Il Valzer di un giorno è stato esposto da San Pietroburgo a Madrid e in diverse città europee, dovunque ha incontrato grandi consensi. Con mia sorpresa, perché non avevo realizzato pienamente le potenzialità di questo lavoro, ma mi sembrava confinato in una regione precisa, per cui pensavo che un russo potesse avere delle difficoltà a interpretare anche quei personaggi. Invece non è stato così, perché poi i sentimenti che sono venuti fuori sono dei sentimenti universali, umani. Quelle fotografie sono in grado, secondo me, – ma io sono l’autore e ne parlo magari in maniera presuntuosa – di attivare quella memoria involontaria a cui facevamo riferimento prima. Quella cosa che, in un certo senso, porta a creare dentro di te un tuo percorso, un percorso personalissimo che, al di là del pretesto Sicilia, del pretesto di quelle facce. Poi c’è anche un discorso che riguarda un po’ la memoria, intesa come resistenza: quei piccoli gesti che io sono andato a cercare è come se rappresentassero quelle poche parole dette in dialetto, intercalate oggi in un mondo globalizzato. E che rappresentano di fatto una memoria collettiva, una maniera di dire, di esserci, di riconoscersi in qualcosa che non è l’uniformità a cui oggi tutti tendiamo.

Mi viene in mente uno dei tuoi scatti sempre della serie dei matrimoni: quello in cui una bambina si asciuga le lacrime, tenendo la mano stretta ai genitori e, dietro, un’altra bambina è inciampata sull’abito della sposa…

Quello è culo! La bambina che è inciampata l’avevo vista mentre non stava cadendo, nel momento in cui ho fatto lo scatto è andata giù ed è stata veramente una cosa bellissima, perché sembra l’istante bressoniano, quella cosa che vai a cercare. Non l’avevo vista, l’ho vista cadere proprio mentre scattavo. Certo, nel momento in cui vai a prestare l’attenzione su determinate realtà in un certo senso produci questo spiazzamento, però agli occhi di una persona che non ha familiarità con queste situazioni, queste immagini possono collocarsi all’interno del desiderio, del sogno, come quando si legge un libro di Dostoevskij, molto probabilmente non conosci quella realtà russa, però come fai a non lasciarti affascinare? Come fai a non capire che quel libro sta scavando dentro di te, pur utilizzando altri strumenti che per te non sono familiari? La mia ambizione era, è sempre stata, quella di dire “ecco ti faccio vedere qualcosa che ti appartiene, anche se tu lo ritieni inizialmente strano”. Questa immagine a cui tu fai riferimento e che è piena di tanti punti di attrazione, fa sì che possa costituire l’incipit di una storia che avviene dentro di te e che tu vai a declinare secondo il tuo vissuto, la tua cultura, le tue esperienze culturali. A me questo interessa, insomma se riuscisse avrei raggiunto il mio obiettivo.

F. Carlisi, Il Valzer di un giorno, in Romanzo italiano. Ph. F. Carlisi

Parlo di un’altra tua immagine: gli sposi si vedono di riflesso nello specchio, in primo piano c’è un signore anziano e, dietro di lui, la televisione è accesa sul Tg3 durante probabilmente un discorso dell’ex presidente Obama. Questo produce straniamento: è la Storia che entra all’interno di una realtà diversa.

È Obama fuori contesto. Infatti, proprio per questa l’ho fatta, per far capire come una realtà che sembra appartenere agli inizi del secolo scorso di fatto è assolutamente attuale, è stata realizzata pochi anni fa.

F. Carlisi, Il Valzer di un giorno, in Romanzo italiano. Ph. F. Carlisi

Faccio un passo indietro, prima parlavi di “maschere pirandelliane” e di attesa del momento in cui i personaggi abbassano le difese, infatti, nei tuoi scatti si vede che c’è il costrutto della festa che però è il contesto, ma non c’è il costrutto del personaggio: i volti non mentono perché c’è già la complessità del matrimonio, c’è un vissuto forte, e non la leggerezza, la spensieratezza.

Credo che questo, per esempio, lo abbia fatto molto bene Francesco Cito, nell’altro versante della mostra: Francesco va a registrare l’opulenza, questa autorappresentazione, questa estetizzazione di quello che è il rito. Io, come ti dicevo all’inizio della nostra conversazione, ho tolto questa cosa dal campo, perché non mi interessava. Tutti, più o meno, indossiamo una maschera, siamo costretti a recitare un ruolo nella società, nella vita; io lì ho aspettato il momento in cui l’attore si stanca, il momento in cui si sblocca e lascia trasparire una parte di sé che è vera. Queste fotografie cercano di registrare il momento in cui la festa imperversa, si va a celebrare la felicità, e allora cade qualcosa, un sipario o qualcos’altro a e vedi dietro un sottofondo di malinconia. Quando scattavo ai matrimoni, cercavo di non farmi notare, perché mi comportavo, quando me lo permettevano, come un invitato: entravo nell’ambiente, aspettavo che si abituassero alla mia presenza, in genere c’era pure il fotografo ufficiale che, in un certo senso, mi copriva presentandomi come un collaboratore. Quando gli altri non facevano più caso a me, cominciavo a scattare, e cominciavo a scattare cercando quei momenti di verità di cui dicevo. Però, in un contesto dove ogni immagine è un villaggio, un mondo, come fai a rappresentare quella complessità? Non vuoi andare all’immagine minimale, hai un’immagine barocca, senza volere necessariamente che lo sia.

La fotografia, ma più in generale l’arte, va alla ricerca di una forma di verità. Per te che cos’è la verità?

La definizione di verità l’ha data proprio Roland Barthes: “quella che è la verità per me”. La verità è queste fotografie che riguardano il privato, e non possono avere statuto di verità in senso assoluto. Ma possono rispecchiare quella che è la verità per me, per te. Non voglio dire che non esiste la verità in senso assoluto, ma che la verità si piega molto spesso e purtroppo a quelli che sono i nostri limiti, la nostra formazione, le nostre fisime, che ci impediscono di vedere verità dove c’è, assecondano magari delle imposture, perché siamo cresciuti in un certo modo. Io devo dire che la fotografia mi ha molto aiutato in questo, perché è riuscita, con la frequentazione delle persone che ho fotografato e spostandomi in diversi ambienti, a cambiare sempre la mia prospettiva, a farmi spostare. Quando ero convinto di essere arrivato a un punto in cui mi riconoscevo in chissà che, arrivava una fotografia che andava a sovvertire le mie convinzioni e a farmi rimettere nuovamente in discussione, in gioco. Quindi la verità è qualcosa che ha bisogno di essere corteggiata, ricercata e comunque in ogni caso razionalizzata.

L’arte ti modifica e, quindi, non soltanto tu sei nella fotografia, ma la fotografia è dentro di te. Per te che cosa significa fotografare? Tra l’altro, vieni da una strada completamente diversa, perché sei ingegnere di formazione.

Questo non ostacola però. L’ingegneria mi ha dato una disciplina, quella razionalizzazione, quella necessità di razionalizzare e comunque concretizzare le cose. Però ci sono delle cose astratte, chiamiamole così, che sono assolutamente reali. Pensa all’amore, è astratto, eppure, chi può dire che non sia reale? La fotografia è stata per me non solo uno strumento per raccontare, perché quello che faccio con la fotografia non è documentare, non sono un documentarista o, meglio, credo di non esserlo. Il mio desiderio è quello di raccontare, come farebbe uno scrittore. Da questo punto di vista la fotografia per me e la macchina fotografica, sono diventate uno strumento per guardare fuori da me stesso, ma anche per guardare dentro me stesso. Tu scatti una fotografia, in quel momento, in un istante, come dicevamo, non pensi di volerla costruire così, perché, in altre parole, “esci a comprare un mazzo di rose e ritorni con un mazzo di viole”. Nel momento in cui scatti non hai consapevolezza, piena consapevolezza delle ragioni che ti hanno portato a fare quello scatto anziché un altro, perché hai ritagliato quel rettangolo e non quello che stava accanto. Naturalmente lo hai fatto attingendo a quello che sei, attingendo a tutto quello che ti porti dietro, però la consapevolezza ce l’hai dopo, quando ti ritrovi tra le mani o davanti al monitor la fotografia: è lì che capisci perché hai fatto quello scatto, perché lì vai a rintracciare le tue predilizioni, le tue ostinazioni, l’ossessione del tempo.

Nei tuoi scatti, rispetto anche a quelli di Francesco Cito, è più presente la festa che la cerimonia.

Il sacro è stato abbandonato dall’arte, mi sarebbe piaciuto essere in grado di riportare il sacro nell’arte attraverso la mia fotografia; quindi, ho cercato in qualche modo di scorgere momenti di sacralità nel senso in cui stiamo intendendo, per poi arrivare alla sacralità della vita. In molti casi la difficoltà di riuscire a riportare in un’immagine il sentimento religioso di una persona, c’era di mezzo il pudore del siciliano: il siciliano è uno che difficilmente lascia trasparire i suoi sentimenti, è uno che sorride mentre ha il cuore in tumulto.

Questa è una mostra a due voci, com’è stare in dialogo con qualcun altro?

Difficilissimo, perché chiunque faccia arte è molto geloso delle proprie cose e quando tu hai selezionato delle opere per metterle in mostra, stai portando avanti un discorso non ti piace che qualcuno intercali, anche se aggiunge, perché le aggiunte sono interferenze. Però non c’è stato in questo caso, perché guardiamo entrambi allo stesso soggetto: il matrimonio con occhi completamente diversi. Per questo le due mostre si integrano.