Non c’è da brigare molto per trovare qualcosa di buono in uno dei cattivi per eccellenza della commedia umana, Nerone. Il suo ritratto presenta luci ed ombre, anche se il nome evoca soltanto tenebra. I commentatori cristiani hanno avuto gioco facile a farne il contraltare ideale di colui che la luce è e con sé porta, Gesù. C’è poi la storiaccia dell’incendio di Roma. Intere generazioni di studenti si sono figurate l’imperatore folle che, corona d’alloro in testa, suona la cetra con noncuranza mentre l’Urbe si trasforma in un immane rogo. Che potere immenso ha l’immagine, quando lo scenario è quello superbo della Roma classica, uno splendore di marmi trapuntati di fori e giardini sontuosi. Un mondo che proprio con Nerone inizia a consumarsi, come arso da una fiamma dall’interno, indifferente alle critiche feroci dei senatori lesti di penna – Tacito sopra tutti – ad ammonire sui rischi dell’assolutismo.

Una riabilitazione

Ma ormai il dado era tratto, come aveva detto Giulio Cesare passando il Rubicone, la storia è una bobina che non si può riavvolgere. Nerone è l’ultimo imperatore della dinastia Giulio-Claudia, la prima e l’unica che in qualche modo si riallaccia direttamente, sebbene per adozione, al sangue del grande dittatore. Si diceva sopra che non è poi così complicato trovare aspetti positivi in Lucio Domizio Enobarbo, nato a Roma il 15 dicembre del 37 dal nobile ventre di Giulia Agrippina, figlia di Germanico, madre e moglie di imperatori. Perché se nei secoli si sono moltiplicati falsi e accuse a suo carico, per fortuna non sono mancati studiosi che hanno indagato con metodo, dati alla mano, per fare un bilancio equilibrato del principato più diffamato della storia.
Su queste basi – ovvero sul criterio classico della misura – si muove la latinista Silvia Stucchi, che in Nerone. Verità e vita dell’imperatore più calunniato della storia (Giunti, p. 382, € 14,90) con garbo scorrevole racconta il percorso, politico e personale, di questo giovane destinato a una vita tanto scintillante quanto breve, imbastendo un libro a metà tra la divulgazione scientifica e il romanzo storico. Ne esce il ritratto di una mente brillante e di una personalità complessa, in cui agli eccessi e alla spregiudicatezza si uniscono doti di ottimo amministratore della cosa pubblica. La crudeltà certo non gli faceva difetto. Il sulfureo Lucio si intesta una serie di delitti mostruosi. Non quello di incendiare Roma: è appurato che quella notte maledetta fosse fuori città. Egli esercita la crudeltà nella sua cerchia più ristretta per conservare il potere e la libertà di azione. In un impeto di ribellione assassina Ottavia, moglie mai desiderata che gli aveva imposto la madre in onore della ragion di Stato; uccide il di lei fratello, Britannico, l’erede legittimo cui aveva usurpato il trono, per non tenersi in casa un pericoloso rivale. Toglie di mezzo Seneca, il suo talentuoso precettore, nell’ingratitudine per chi gli aveva insegnato, se non tutto, senza dubbio molto. Si sbarazza anche dell’ingombrante Agrippina, alla quale davvero doveva tutto, perché il potere del suo ragazzo voleva continuare a gestirlo lei, dietro le quinte, impedendogli di crescere. E qui Nerone si fa personaggio di tragedia greca, benché pochi si siano chiesti, nei secoli, cosa balenasse davvero nella sua coscienza di matricida: nessuno saprà mai cos’abbia pensato in quell’ora buia, né in quelle successive, tra le mura del palazzo del Palatino, aurea prigione piena di fantasmi.
Perché Nerone aveva una coscienza e addirittura un cuore, sebbene celati dietro la maschera dell’imperatore dal gusto sibaritico. Stucchi evidenzia le sue capacità nel campo dell’economia, settore in cui per giunta mostra sensibilità nei confronti dei meno abbienti, la plebe che viveva nelle insulae e i soldati, che tornavano a casa stanchi e malandati dopo lunghi anni di battaglie. Nerone si intesta una riforma monetaria che beneficia i ceti più fragili e abbassa le tasse. Pone fine alle guerre di conquista, ritenendo che l’impero fosse già grande a sufficienza. Sul versante del privato, bisogna ammettere che la sua parabola sentimentale è intrigante: Nerone era un passionale capace di grandi slanci. Atte, l’amante che lo contraccambiava e gli fu fedele fino alla fine, ricevette in dono gioielli, terre, ville; se non fosse stato per l’intervento di Agrippina probabilmente l’avrebbe sposata, legandosi a una straniera senza denaro né titoli in barba a consuetudini che per lui significavano niente. Sarà invece la nobile Poppea, passata alla storia per la bellezza e il vezzo dei bagni nel latte d’asina per preservare il candore della pelle, a stregarlo e a dividere il talamo nuziale con lui, scivolando insieme sempre più in basso, lungo la china del sangue e della morte. Era stato preso dal demone dell’assolutismo, che non perdona, distruggendo così il suo ambizioso disegno politico, più ellenistico che romano, rivolto ad Alessandro Magno più che agli austeri padri repubblicani della grandezza di Roma. Nerone uscirà dalla storia sconfitto dalle sue stesse manie di grandezza togliendosi la vita, le sue ultime parole sono: “quale artista muore con me!”. Parole sincere: nel bene e nel male, la sua parabola ha le tinte fosche di un dramma scespiriano.