Si analizza il rapporto tra la mousikè téchne, che in greco include musica, danza e poesia, e la filosofia nel Fedone di Platone. Si parte dalla “conversione musicale” di Socrate avvenuta nel corso della sua carcerazione e se ne dimostra l’ascendenza pitagorica. Ciò conduce al tema dei contrari, che viene approfondito attraverso l’ausilio del finale del Simposio, evidenziando come nella riflessione platonica non vi sia un insanabile dissidio tra poesia (mythologeîn) e filosofia (diaskopeîn), poiché quelle che egli considera le due massime attività a cui l’uomo si possa dedicare in attesa del “tramonto del sole” sono due contrari «attaccati per la testa», che non possono vivere l’uno senza l’altro. Riccardo Magni è docente di Lettere e Latino nei licei e cultore della materia per Letteratura greca presso l’Università degli Studi di Milano; è autore del saggio L’incanto delle Muse. Il monte e la biblioteca. Fenomenologia delle Muse tra Natura e Cultura (Prometheus, Milano 2024).
Poesia, filosofia: l’eterno conflitto che emerge tra le pagine platoniche, arrovellamento continuo di esegeti sempre in bilico tra un parziale salvataggio e un totale diniego della prima a favore della seconda. Molto a tal proposito si è scritto, soltanto per essere rimesso in discussione poi. Eppure, la ricerca continua così, in una costante dialettica che cerca di gettare, socraticamente, un poco di luce sulla complessità dell’argomento trattato. Ebbene, con questo articolo si cercherà di far cogliere al lettore nuove sfumature relative al rapporto tra la dimensione poetica/musicale1 e la dimensione filosofica presente in Platone, facendo specifico riferimento al Fedone.
Socrate musico e la teoria degli opposti
In questo dialogo, infatti, c’è un passo dove ben emerge tale relazione. Prima di tutto, però, proviamo a contestualizzare: siamo al “canto del cigno di Socrate”, le ultime parole prima della fine, o, meglio, prima del passaggio. L’anziano filosofo ateniese è in prigione e per l’ultima volta i suoi amici e discepoli lo raggiungono, più presto del solito, proprio mentre gli Undici gli stanno togliendo le catene e comunicando l’imminente compimento della condanna per avvelenamento. Una volta liberato dalle catene, Socrate si gratta la gamba e con grande serenità pronuncia questa frase:
Che strana cosa, amici, sembra quella che gli uomini chiamano piacere. E che straordinario rapporto tra questo e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi convivono nell’uomo e pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere l’uno, si vede costretto, sempre, a sobbarcarsi anche l’altro, come se, pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo2 .
Ma il filosofo poi rappresenta ancor più chiaramente questo pensiero con un’immagine molto nitida:
«Credo», soggiunse, «che se Esopo ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una favola presso a poco così: “Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non riuscendovi, li legò insieme per la testa così che dove va l’uno va anche l’altro”. È quello che è capitato a me: per la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore, ed ecco che ora dietro quello sembra che sia venuto il piacere»3.
“Piacere” (hedý) e “dolore” (lyperón). È il tema degli opposti, «sempre in guerra tra loro», eppure imprescindibilmente uniti «per la testa», come in una favola esopica; un tema, questo, che già era emerso nella precedente tradizione filosofica greca, soprattutto nella riflessione eraclitea4. Questo elemento sarà da tenere bene in conto ai fini del nostro discorso. Poco dopo, Cebete, discepolo di Socrate, rivolge al filosofo una domanda: come mai Socrate si era messo, in maniera fino a quel momento inedita, a scrivere poiémata sui ritmi di Esopo, e un inno ad Apollo, «dato che prima d’ora non aveva mai fatto una cosa del genere»?5
La risposta data da Socrate indica chiaramente una volontà di cambiare direzione in extremis, un desiderio nato dall’eseguire alla lettera il suggerimento che nella dimensione del sogno gli era stato dato da Apollo: «Scrivi e componi musica». Inizialmente tali parole erano state interpretate dal filosofo come incoraggiamento «a far quello che già faceva […] cioè a comporre musica, come se la filosofia», secondo l’accezione pitagorica, «fosse la più alta forma di musica»6. Eppure, dopo il giudizio ricevuto in tribunale, Socrate aveva ritenuto necessario scrivere e comporre vera e propria musica, in quanto era per lui più sicuro «non andarsene prima di aver provveduto, componendo poesia e dando retta al sogno»7. E così, aveva deciso di «scrivere per immagini e non per deduzioni logiche», ma, «non essendo un compositore di favole, decise di prendere spunto da quelle di Esopo»8.
Prima di tutto, è necessario sottolineare come i confini tra favola e poiémata siano molto sfumati: la mousiké, d’altronde, ha un vastissimo raggio d’azione9; le favole, infatti, stando a quanto emerge in queste mosse iniziali del Fedone, sembrano essere esse stesse poiémata10. Il mŷthos esopico, in particolare, viene messo in versi da Socrate, e il mŷthos, che è un poíema, ragiona poeticamente più che altro per immagini.
Dunque, che senso ha questa estrema scelta socratica? Ci si potrebbe chiedere se essa sia estremo tentativo di giungere, nel qui e ora terreno, alle verità assolute attraverso il tramite della musica tout-court (non intesa, dunque, come filosofia), portando il filosofo a divenire un mousikós al quale, in maniera meta-razionale, viene concesso di accedere a una dimensione puramente contemplativa. La risposta ritengo sia affermativa: Socrate, nella sua continua ricerca, non ha potuto evitare di mettere in atto questo tentativo meta-logico e meta-razionale, sebbene tale tentativo non paia aver avuto conseguenze di tipo positivo. Nonostante le interpretazioni misticheggianti, soprattutto neoplatoniche, di Platone, la critica è infatti pressoché concorde nel non ritenere Platone e Socrate dei mistici11; d’altronde il Fedone stesso rivela l’impossibilità per l’essere umano di giungere davvero a una realtà ultramondana qui e ora in maniera completa fintanto che egli si ritrovi in un’anima rinchiusa nel carcere del corpo e delle apparenze; ciò infatti, come ben emerge in Phaed., 66d-e, potrà avvenire solo ad anima disincarnata.
Una scelta pitagorica?
La conversione di Socrate alla musica è come se fosse una momentanea deviazione dal percorso razionale e logico della filosofia verso il percorso meta-razionale e immaginifico della mousiké. Ma, al di là del suggerimento divino, da dove potrebbe giungere, nell’economia del pensiero platonico, questo tentativo? Ci dice Diogene Laerzio che Platone,
quando ebbe ventotto anni, […] si rifugiò a Megara presso Euclide, insieme con alcuni altri discepoli di Socrate. Successivamente se ne andò a Cirene, presso Teodoro il matematico, e di là passò in Italia, dai pitagorici Filolao ed Eurito. E di qui passò in Egitto presso i profeti12.
Il primo viaggio in Italia venne dunque affrontato appena dopo la morte del maestro; e nelle propaggini meridionali della Penisola incontrò colui che per primo aveva divulgato le dottrine pitagoriche, Filolao, curiosamente citato due volte all’interno del Fedone. Interessante è poi il fatto che sia Filolao sia Platone siano stati sottoposti al medesimo divieto: «che non fosse concesso a nessun compositore poetico (epopoiós) di partecipare ai dibattiti pitagorici»13, cosa che coinvolse anche Empedocle14. Filolao, certo, divulgò le dottrine pitagoriche per iscritto, così come fece Empedocle con il suo poema. Ma Platone? Anche quest’ultimo quindi, come ci dice Laerzio, doveva essere stato colto da tale divieto per il fatto di inserire costantemente elementi pitagorici all’interno dei propri libri (e all’interno delle proprie lezioni).
Il Fedone potrebbe essere proprio una di queste opere. I riferimenti al pitagorismo sono vari e molteplici15 e paiono, anzi, avere una portata preponderante nella contestualizzazione del discorso: il dialogo che narra delle ultime ore di vita di Socrate avviene tra Echecrate e Fedone a Fliunte, città presso la quale, dinnanzi alla domanda del tiranno Leone su chi egli fosse, Pitagora rispose: «Un filosofo»16, divenendo il primo a definirsi con tale termine (lo avrebbe addirittura coniato) e non con il termine sapiente. E così anche la sopracitata coincidenza della filosofia come la più alta forma di musica è di ascendenza pitagorica17, così come la teoria metempsicotica18 presente nel Fedone.
Tali elementi, a nostro parere, potrebbero certo essere considerati spie che aiuterebbero a collocare il dialogo, a livello di composizione, intorno al trentesimo anno di vita di Platone, una sorta di “testamento socratico” scritto dal celebre discepolo poco dopo la morte del maestro e a seguito delle esperienze dei viaggi in Italia meridionale e in Egitto. Tuttavia, tale dialogo sarebbe anche consolatio socratica dalla fortissima portata filosofica, testo cardine all’interno del carattere ipertestuale dei dialoghi, in cui si prova a dimostrare che la vita no, non finisce laddove l’anima si separa dal corpo; e questa è dimostrazione più che necessaria nell’economia dell’opera platonica, altrimenti ogni altra parola risulterebbe vana.
Ma c’è di più. Già abbiamo accennato come all’inizio del dialogo nella scelta di Socrate fondamentale sia la presenza di Apollo. Egli, soprattutto secondo testimonianze neoplatoniche pitagorizzanti d’età imperiale, è dio profondamente legato a Pitagora e al mondo pitagorico. Riprendendo un’etimologia riportataci da Plutarco19, Apollo veniva linguisticamente inteso come nome proprio derivato dall’associazione dell’alpha privativo e di polýs, “molto”, cosicché il suo significato sia «assenza di molti», litote indicante l’unità20.
Comunque, anche per Socrate stesso potremmo definire Apollo una divinità principe, in quanto egli è presente in ogni momento cruciale della vita del filosofo21: dal momento in cui scopre di essere il più sapiente, evento raccontato nell’Apologia, fino alla morte, avvenuta alla conclusione della festa commemorante l’impresa di Teseo a Creta che aveva salvato i giovani ateniesi dal Minotauro22. La devozione socratica nei confronti di Apollo è inoltre reperibile, sempre nel Fedone, nel parallelismo che Socrate presenta ai suoi discepoli, accostando sé stesso alla figura dei cigni che emettono il loro canto più bello quando sono in procinto di morire, un canto non di dolore, ma di gioia, dato che quei candidi volatili percepiscono di essere ormai prossimi a recarsi presso Apollo. Il filosofo ateniese, a tal riguardo, diviene particolarmente esplicito affermando inoltre di credere di essere anch’egli «compagno di servitù dei cigni e consacrato allo stesso dio»23. E con ciò si noti come l’ultimo filosofare di Socrate sia dunque da quest’ultimo accostato, emblematicamente, al tema del canto.
Per riepilogare, l’ambientazione del dialogo a Fliunte, il continuo richiamo ad Apollo, la devozione socratica a questo dio, la dottrina della trasmigrazione delle anime, la filosofia intesa come la forma più alta di musica sono tutti elementi che ci riconducono fortemente al mondo pitagorico, quel mondo che Platone ebbe la possibilità di conoscere direttamente nel corso dei propri viaggi in Italia meridionale24, influenzando poi questo estremo tentativo di conversione musicale.
Verso l’universale, la luce: filosofia e poesia tra “Fedone” e “Simposio”
Ma torniamo al rapporto tra poesia e filosofia: queste due realtà in Platone non smettono mai di confrontarsi. Filosofia e poesia, infatti, mirano entrambe all’universale, eppure vi è un’importante differenza. Se la poesia è theía dýnamis25, mania26 e dono divino, la filosofia è invece ricerca basata sulla dialettica27. Lì sta la principale differenza: come sappiamo dall’Apologia e dallo Ione, i poeti non sono capaci di giustificare quello che scrivono, in quanto essi si fanno semplicemente “portavoce” degli dèi, non sapendo realmente dare ragione di ciò che compongono. I filosofi, invece, si pongono l’obiettivo di dare ragione, sostenere e argomentare i propri discorsi attraverso il logos e il dialégesthai, non rimanendo dunque «filodossi»28, amanti della dóxa («opinione»), ma divenendo, appunto, amanti della sophía.
In relazione al rapporto poesia/filosofia, interessante è un passo in Phaed., 70b, dove rapidamente si fa un cenno a un poeta comico. Lì, infatti, dinnanzi all’esortazione di Cebete di trattare della capacità dell’anima di continuare a vivere dopo la morte, Socrate afferma: «Ed io penso che non vi sarà nessuno che, ascoltandomi possa dire (nemmeno se fosse un poeta comico) che io sono un ciarlatano e che parlo di cose che non mi riguardano».
Ma chi sarebbe tale poeta? È naturale che tale riferimento non possa che alludere ad Aristofane, colui che con la propria commedia Le Nuvole accostò Socrate a un sofista ciarlatano e fuori dal mondo, contribuendo notevolmente a pesare sulla condanna del filosofo29; tale citazione di Aristofane ci riconduce immediatamente a un altro dialogo in cui il commediografo è presente, il Simposio, un’opera caratterizzata da un finale molto suggestivo che, a nostro parere, potrebbe essere interpretato come una vera e propria allegoria del rapporto/contrasto presente tra filosofia e poesia.
Siamo ormai alle battute finali del simposio tenutosi in casa del poeta Agatone; alcuni degli invitati si sono ritirati ognuno nelle proprie case; altri, stremati, si sono addormentati lì sul posto: solo tre uomini, alle prime luci dell’alba, ancora resistono: Agatone, poeta tragico, Aristofane, poeta comico, e Socrate, filosofo. Essi, ci dice il testo, «apparivano ancora svegli e bevevano una grande tazza», intenti a dialogare di poesia30. Socrate, infatti, «li costringeva ad ammettere che lo stesso autore deve saper comporre commedie e tragedie e che chi con la sua arte è tragediografo deve essere anche commediografo»31. I due poeti, ormai stanchi, cadono lentamente tra le braccia del sonno: prima Aristofane e poi, a giorno fatto, Agatone. Socrate, invece, non si addormenta, è inquieto, e senza aver chiuso occhio, «dopo aver messo a dormire» i due poeti, va al ginnasio denominato Liceo per passare un’altra giornata a conversare, fin quando al tramonto non tornerà a casa a riposare32.
Il fatto che, tra la grande varietas di personaggi del dialogo, a rimanere svegli insieme a Socrate siano solo due poeti può suggerirci che questa scelta non sia certo casuale. Aristofane, tra i due, è il primo ad addormentarsi, seguito poi dal collega tragico. La commedia, fuori di metafora, cede dunque al sonno prima della tragedia. Ciò sembra riconnettersi a quanto poi Platone dirà nella sua ultima opera, le Leggi (658c-d), quando, in una sorta di scala di gradimento, indicherà che i bambini amano soprattutto la commedia; mentre le donne più istruite, i giovani e la maggior parte del pubblico prediligono la tragedia33. Insomma, la commedia fa leva su un’anima ancora bambina e, tramite il riferimento diretto a situazioni d’attualità mescolate a battute, scherni, motivi utopici e divertenti, pur avendo certi spunti di universalità, si concentra principalmente su argomenti legati alla realtà contingente vissuta dalla polis ateniese; la tragedia, al contrario, attraverso il mito, riconduce lo spettatore in maniera più serrata e diretta a un universale capace di trascendere la situazione particolare, sebbene velate allusioni al contingente periodo storico siano comunque presenti. Dunque, se corretta è tale interpretazione di questo finale allegorico, la tragedia “si addormenta dopo” (ossia è più vicina al livello della filosofia) a causa di un più elevato grado di universalità rispetto a quello presente nella commedia34. La filosofia, invece, non si addormenta. Il problema che si pone tra poesia e filosofia, dunque, è sempre quello: entrambe tendono all’universale, ma attraverso metodologie differenti ed esigenze differenti. La poesia, infatti, è un dono divino, che, come detto, non può essere realmente spiegato35; la filosofia, invece, è un’opera umana faticosa, laboriosa, di indagine continua, che non può “dormire” se vuole realmente rendere ragione dell’universale. Ed ecco che nel Simposio si palesa perfettamente tale differenza: il filosofo non avverte la fatica né la stanchezza intento nella sua ricerca, perché qualcosa di più alto lo spinge al suo risveglio, al suo “restare sveglio”, mentre la poesia, rappresentata da Aristofane e Agatone, pur resistendo fino al principio dell’alba, cede inesorabilmente, ai confini della luce, ossia dinnanzi al comprendere veramente e razionalmente la verità.
Se la poesia è dono degli dei che non può essere spiegato, ecco perché i poeti, ispirati dall’imponderabile divino, possono anche addormentarsi. La filosofia, invece, non smette mai di camminare e di interrogarsi, fino alla piena luce del giorno, di cui il filosofo godrà pienamente fino a sera, quando alla fine tornerà anche lui, umanamente, a casa a riposarsi.
Il tema della luce del giorno è fondamentale in Platone: basti pensare alla metafora della luce nel mito della caverna oppure, sempre nella Repubblica, alla definizione della vera filosofia che viene indicata come «una sorta di conversione dell’anima da una sorta di giorno notturno al giorno vero, cioè l’ascesa verso ciò che è»36. Un dio legato alla luce solare poi è sempre Apollo. Non è un caso che, dunque, Socrate, nel finale del Simposio, si diriga al Liceo, ginnasio dedicato ad Apollo Liceo, dio sotto cui e verso cui l’indagine socratica prosegue instancabile il proprio cammino verso l’universale e verso la luce con la quale si possa cogliere il vero essere.
Indagare e raccontare storie fino al tramonto del sole: l’unione degli opposti
Le due dimensioni, quella poetica e quella filosofica, come detto, non possono quindi esimersi dal continuare a confrontarsi e a intrecciarsi. È infatti interessante notare, per tornare al principio del nostro articolo, come Socrate, in attesa di morire, in Phaed., 61d-e, affermi:
E tanto più è conveniente che chi sta per andarsene indaghi e racconti storie (diaskopeîn te kaì mythologeîn) su questo viaggio e su come se lo immagina. Infatti, che altro potremmo fare in tutto questo tempo, fino al tramonto del sole?
La filosofia è quindi in costante rapporto con la poesia e non solo per il contenuto sapienziale dell’interrogazione unita alla poeticissima immagine del tramonto del sole, ma anche per quella coordinazione: diaskopeîn te kaì mythologeîn. Certo, la spiegazione della scelta di dedicarsi alla musica vera e propria in un momento fatale della vita di Socrate è rivelatrice di come musica e poesia siano state fino all’ultimo per il filosofo una strada possibile per giungere alla verità. Ma si presti attenzione a un elemento: tale tentativo di conversione musicale viene esplicitato poco dopo la trattazione relativa al tema dei contrari vista all’inizio del nostro contributo.
Proprio il tema dei contrari (affrontati anche nell’immagine sonno/veglia del Simposio), infatti, emerge anche in queste splendide righe appena riportate: la cosa migliore da fare in questa vita è «indagare e raccontare storie» fino al tramonto del sole, un tramonto che, naturalmente, non è soltanto quello che segna la fine di un determinato giorno, ma, metaforicamente, la fine dell’intera esistenza di Socrate, così come quella di ogni altro essere umano. Piacere e dolore. Siamo di nuovo lì, perché questi opposti, che avevamo citato all’inizio del nostro contributo, sembrano essere profondamente connessi a quel diaskopeîn te kaì mythologeîn, dove il “guardare attraverso”, l’indagare per fare luce sulla verità, è necessariamente faticoso e doloroso; mentre, d’altra parte, il raccontare storie pare essere più associabile anche a una dimensione di piacere, di alleviamento delle pene dell’anima. Ma esattamente così come il piacere e il dolore non possono essere separati, anche l’indagare e il raccontare storie si intrecciano e si inseguono in una serrata e continua dialettica. Filosofia e poesia, ancora una volta. Perché la filosofia concretizza principalmente la propria natura nell’indagare; la poesia, invece, nel raccontare storie; ma nella riflessione platonica le due cose sono due facce della medesima medaglia.
Socrate, nei dialoghi, infatti, è frequentemente un creatore di miti e ciò ci porta a ritenere, dunque, che il rapporto tra filosofia e poesia si configuri proprio in questo modo: due contrari impossibili da separare, in quanto dove va l’uno va anche l’altro, mentre il vero significato della nostra esistenza, nell’attesa del dischiudersi della verità ultramondana ad anima ormai disincarnata, può ritrovarsi nobilmente solo lì, nel ragionare, nell’indagare e nel raccontare storie che è proprio di quell’animale filosofico, narrativo e poetico che è l’essere umano. Sempre, instancabilmente. Fino al tramonto del sole37.
1 In greco la mousiké è la mousikè téchne, ossia l’arte delle Muse, termine caratterizzato da un più ampio raggio semantico rispetto a quello assunto dalla nostra musica. Infatti, la mousiké comprende la poesia in tutta la sua complessa varietà, la musica in senso stretto, la danza.
2 Platone, Phaed., 60b; Platone, Fedone, trad. it. di N. Marziano, Garzanti, Milano 2001.
3 Ivi, 60c.
4 Cfr, in particolare, Eraclito, fr. 88 e fr. 53; F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2019, pp. 26-27.
5 Platone, Phaed., 60d.
6 Ivi, 61a.
7 Ibidem.
8 Ivi, 61b.
9 Cfr nota 1.
10 D’altronde, il tardo Romanzo di Esopo ci testimonia come Iside e proprio le Muse concedano a Esopo il potere della parola.
11 Cfr Platone, Settima lettera, a cura di F. Forcignanò, Carocci, Roma 2020, pp. 44-46.
12 Diog. 3, 6; Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2017.
13 Ivi, 55.
14 Ibidem.
15 Si sottolinea, tuttavia, anche una forte presenza di tratti orfici e misterici ben esplicitati da Socrate.
16 Diog., 3, 8. La notizia dovrebbe derivare originariamente da Eraclide Pontico, frr. 87-88.
17 Cfr Strabone, 10, 468.
18 Essa è comunque accostabile anche al mondo orfico.
19 Plutarco, 23, 75, 381 (Iside e Osiride, 381 F). Cfr anche R. Chiaradonna, Plotino, Carocci, Roma 2021, p. 124.
20 Tale etimologia verrà ripresa e approvata anche in Plotino, Enneadi, V 5 [32], 6, 27 in quanto «soppressione del molteplice».
21 A tal proposito, cfr A. Capra, Father and Son: Apollo, Asclepius and the Socratic Birth of the Platonic Dialogue, in Plato’s Phaedo. Selected Papers from the Eleventh Symposium Platonicum, a cura di G. Cornelli, T. Robinson, F. Bravo, Sankt Augustin, Academia Verlag, Baden Baden 2018, pp. 321-324.
22 In questa festività, in cui si commemorava il ritorno di Teseo da Creta, la nave usata dall’eroe veniva inviata a Delo, isola sede del celebre santuario di Apollo. Per tali celebrazioni, tutte le esecuzioni capitali venivano sospese fino al ritorno della nave. Cfr Platone, Phaed., 58a-b.
23 Ivi, 85b.
24 L’influenza pitagorica in Platone sarebbe stata così forte da spingerlo a fondare la propria scuola presso l’Accademia, dove un ruolo preponderante era assunto dal culto delle Muse: l’Accademia, infatti, era un Mouseion e i due termini, sin dall’età ellenistica, risultano interscambiabili (cfr A. Caruso, Mouseia. Tipologie, contesti, significati culturali di un’istituzione sacra (VII-I sec. a.C.), «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2016, pp. 267-269). Altro sostegno all’importanza data da Platone alle Muse deriva da una recentissima scoperta (aprile 2024), ossia dalla lettura di più di mille parole di un papiro di Ercolano recante la Storia dell’Accademia di Filodemo, dove si legge che Platone sarebbe stato sepolto nel giardino dell’Accademia, proprio nei pressi del sacello delle Muse. La morte di Platone si colloca dunque, come quella di Pitagora (cfr Porfirio, Pyth., 57), sotto il nome delle Muse.
25 Platone, Ion., 534c.
26 Id., Phaedr., 245a.
27 Tuttavia, una certa forma di mania è ammessa anche per la filosofia; si tratta di una mania erotica che in Phaedr., 248d, si unisce anche al carattere di mousikós («devoto alle Muse») proprio del filosofo. Riguardo al respiro erotico dell’attività filosofica, cfr Simposio e Fedro. Cfr anche Platone, Fedro, a cura di G. Reale, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 1998; F. Trabattoni, Platone, cit., pp. 97-108.
28 Platone, Rep., 480a.
29 Cfr Id., Ap., 19c.
30 Sul tema poetico trattato nel finale del Simposio, cfr G. Cerri, Tragedia e commedia nel finale del Simposio di Platone, in ΦΙΛΙΑ. Dieci contributi per Gabriele Burzacchini, a cura di M. Tulli, «Quaderni Bolognesi di Filologia classica», 25, Patron, Bologna 2014.
31 Cfr Platone, Symp., 223d; Platone, Simposio, trad. it. di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 1986.
32 Breve sinossi di quanto raccontato in Plat., Symp., 223b-d.
33 Cfr G. Ieranò, La tragedia greca, Salerno editrice, Roma 2010, p. 59.
34 Socrate nel Simposio pare essere particolarmente attento soprattutto nei confronti del poeta tragico Agatone (cfr, per esempio, Platone, Symp., 198a ss.): il rappresentante della poesia tragica sembra il reale contendente della filosofia.
35 Essa si accosta alla “retta opinione” dei politici, ma anche dei poeti e degli indovini (cfr G. Reale, Saggio introduttivo allo «Ione», in G. Reale (a cura di), Platone, Ione, Bompiani, Milano 2001, p. 37), del Menone. La retta opinione è instabile e, al fine di stabilizzarla, bisognerebbe trovare il suo «fondamento causale, il che implicherebbe passare dalla superficie all’intimo delle cose» (ibidem).
36 Platone, Rep., 521c; Platone, La repubblica, a cura di M. Vegetti, Rizzoli, Milano 2021.
37 A integrazione della bibliografia citata nelle note precedenti, cfr F. Trabattoni, La filosofia antica. Profilo critico-storico, Carocci, Roma 2017.