La nostra letteratura manca forse di un Melville o un Conrad, eppure ci sono autori felicemente ispirati dal mare che andrebbero riscoperti; tra questi, Vittorio G. Rossi (foto, Santa Margherita Ligure, 1898 – Roma, 1978) che con Oceano vinse il Premio Viareggio nel 1938, e che ebbe larghissima notorietà nel secondo Novecento: i suoi libri venivano stampati da Mondadori nell’apposita collana “I libri di Vittorio G. Rossi”. Abbiamo chiesto a Francesco De Nicola un ritratto di Rossi per metterne in luce la sua vena più autentica e ancora attuale. Francesco De Nicola ha insegnato Letteratura Italiana in diversi ruoli all’Università di Genova dal 1971 al 2021 e dal 2015 tiene un corso nella stessa materia all’Università di Granada. Si occupa prevalentemente di problemi e di autori dell’Ottocento e del Novecento e ha pubblicato decine di libri, tra i quali monografie su Fenoglio, Vittorini, gli scrittori dell’emigrazione e della Grande Guerra e ha pubblicato, tra le altre, lettere inedite di Ungaretti. Dal 2001 presiede il Comitato di Genova della “Dante Alighieri” e in occasione del VII centenario dantesco ha pubblicato il saggio Dante tra noi e organizzato una trentina di incontri sulla Divina Commedia.

Un diffuso detto popolare attribuisce agli italiani la definizione di naviganti, che certo corrisponde in gran parte a verità, non foss’altro che per i settemila chilometri di coste che hanno diffuso attività legate alla realtà marina. Tutto ciò però non ha creato nella nostra letteratura una consistente linea di scrittori che quest’attività hanno raccontato con continuità nelle loro pagine; non abbiamo, insomma, un Conrad né un Melville con i loro epigoni, ma abbiamo molti scrittori che occasionalmente hanno collocato sul mare le loro storie, dal Verga dei Malavoglia a De Amicis di Sull’Oceano solo per citare due nomi assai noti. E tuttavia fortunatamente ci sono alcune eccezioni e cioè alcuni scrittori italiani che hanno scritto solo (o quasi solo di mare) e tra questi il più assiduo e capace, dopo Jack La Bolina che però, già sul finire dell’Ottocento, si rivolgeva soprattutto a lettori più giovani, è stato senza dubbio Vittorio G. Rossi (e dopo di lui l’elenco non va molto oltre Giovanni Descalzo e Raffaello Brignetti).

L’ “Enfant prodige”

L’aggettivo più appropriato per definire Rossi è certamente “precoce”: aveva solo 14 anni (era nato a S. Margherita Ligure nel 1898) ed era studente dell’Istituto Nautico di Camogli quando pubblicò il suo primo libro, Manualetto di attrezzatura navale1, nel quale con grande chiarezza e molta passione spiegava il significato delle più diffuse voci e operazioni della marineria. Ma ciò che sorprende è la dedica del libro, rivolta nientemeno che al Ministro della Marina, l’ammiraglio Pasquale Leonardi-Cattolica, a sua volta autore due anni prima di un Trattato della navigazione: ancora adolescente, Rossi si sentiva già di appartenere alla nobile famiglia della Marina italiana, come proverà qualche anno più tardi quando, finiti gli studi, si arruolerà volontario per partecipare alle (ultime) fasi navali della Grande Guerra. Divenuto poi responsabile a Pola di una scuola di marinai della Guardia di Finanza che forniva gli equipaggi e i comandanti di numerosi cacciasommergibili e dragamine della flotta italiana, Rossi si dedicò a recuperare le testimonianze delle azioni navali compiute durante la guerra dai nostri marinai e nel 1930 pubblicò il suo primo vero libro Le streghe di mare presso quell’editore Alpes che poco prima aveva fatto esordire due futuri grandi scrittori: Corrado Alvaro nel 1926 con L’uomo del labirinto e Alberto Moravia nel 1929 con Gli indifferenti.

Eroi sul mare

Il tema della guerra vista dal mare era già stato affrontato da alcuni scrittori di discreta notorietà, come Italo Sulliotti, con S.O.S misteri e insidie della guerra navale e Guido Milanesi, con Inferno d’acqua, usciti entrambi nel 1930 come Le streghe di mare nel quale Rossi aveva raccolto alcuni racconti, dalle quali l’autore era assente, riguardanti imprese compiute dai nostri marinai, con una predilezione per le azioni dei Mas e per quelle compiute dall’ammiraglio Luigi Rizzo, artefice della leggendaria beffa di Buccari, senza peraltro trascurare azioni fallite ma non per demeriti di chi le aveva tentate. L’intento dichiarato di queste pagine era la lode per il coraggio dagli uomini della nostra Marina provenienti dalle diverse regioni costiere d’Italia, in modo da distribuire equamente i loro meriti in tutto il Paese; questo palese proposito, peraltro privo di gratuite cadute retoriche, era affrontato in contrasto con “la prosa drogata dei racconti fantastici”, come polemicamente osservava Rossi nella presentazione, e privilegiando invece “l’episodio umano”, la bellezza dell’azione coraggiosa, l’ebbrezza del “tuffarsi a pieno viso nel grembo del pericolo, solleticare nell’orecchio la morte con la penna della più sfrontata insolenza”; di qui l’originalità delle immagini vivaci e delle similitudini: «Il mare rabbrividisce: è nero e lucido come un disco di fonografo» o anche «Il Mas è abbandonato al suo destino come un gatto sfrattato di casa».

Per raggiungere questi obiettivi segnati da grande creatività e piuttosto insoliti nei libri di memorialistica di guerra, Rossi ricorreva a una scrittura di grande espressività, formata da inevitabili voci gergali della navigazione e da dialettismi posti in bocca ai marinai, sebbene non mancasse neppure il lessico dei grandi prosatori del passato (Machiavelli e Guicciardini su tutti), con concessioni ai toscanismi (come il collodiano “minuzzolo”), agli aggettivi espressionistici (come l’aggettivo “fiottoso”), agli onomatopeici ricercati (come “zirlare”), ai termini poetici (come il montaliano “marezzati”). E così Le streghe di mare aveva rivelato uno scrittore di grande originalità stilistica, quasi orientato verso uno sperimentalismo linguistico che prevedeva la formazione di neologismi come pure il recupero di ormai desueti vocaboli del passato.

L’elogio degli uomini della Marina Militare aveva portato talora Rossi ad alcuni eccessi di nazionalismo, non tanto per la rappresentazione del marinaio italiano come modello di ogni virtù, del suo coraggio contro nemici più potenti quanto piuttosto perché un risalto davvero eccessivo rispetto ad altri importanti personaggi, come lo stesso ammiraglio Rizzo, veniva dato alla figura e alle imprese di Costanzo Ciano – Ministro delle Comunicazioni e padre di Galeazzo marito della primogenita di Mussolini del quale era considerato il possibile successore – cui era dedicato un ritratto costellato di iperboli esagerate. E del resto che Le streghe ci mare si inserisse a pieno titolo tre le opere celebrative della Grande Guerra gradite al fascismo si deduce dal giudizio ampiamente positivo – «bellissimo per precisione tecnica ed efficacia rappresentativa sulla guerra dei Mas»2 – che ne darà Francesco Formigari portavoce del parere del regime sui libri che inneggiavano al valore dei soldati italiani come precursori della nuova realtà politica.

Negli anni Trenta Rossi ricoprì il ruolo di funzionario presso il Ministero delle Finanze, ma non risulta che egli comunque abbia svolto un’attività politica in favore del regime e la sua amicizia con Giuseppe Bottai, documentata dalla collaborazione alla sua rivista Primato, lascia supporre che, come pure molti altri intellettuali attivi all’interno dell’ingranaggio politico-culturale del regime, anche Rossi abbia difeso nei limiti del possibile la sua libertà di pensiero e di azione, tanto più che dopo aver pubblicato nel 1931, ancora presso Alpes, una biografia romanzata su Tassoni egli diede una svolta decisiva alla sua attività letteraria.

Nel marzo del 1931 il direttore del quotidiano Il Piccolo di Trieste, Rino Alessi, aveva incaricato Rossi di inviargli corrispondenze per il suo giornale dall’Africa dove stava per recarsi sul piroscafo da carico Laguna; quegli scritti rappresentano dunque l’esordio di Rossi come scrittore di mare. Accolti con entusiasmo quei suoi articoli, usciti anche sul settimanale L’Italia Letteraria e sul periodico Pegaso diretto da Ugo Ojetti, vennero raccolti per dar vita al libro Tropici che uscirà nel 1934 presso Bompiani e sarà accolto con grande successo e sarà vincitore del premio Fracchia. Molti anni più tardi, quando Elio Filippo Accrocca gli chiederà per il suo libro Ritratti su misura3 di raccontargli da che cosa era stato generato il suo modo coinvolgente di raccontare la vita sul mare, Rossi gli rispose con una dichiarazione che merita di essere ora riportata per capire le motivazioni del suo ruolo pressoché unico nella nostra letteratura:

Tutto quello che leggevo dei viaggi altrui mi annoiava moltissimo e per me la noia è peggio di una malattia. Capivo che non si poteva più raccontare i viaggi nel vecchio modo, fondato sulla descrizione. Così mi venne l’idea di inventarmi un modo nuovo di raccontare le esperienze di viaggio. Lo trovai: presi l’uomo come protagonista e feci del viaggio un racconto come avventura umana. Insieme con l’uomo, ho preso come protagoniste le grandi forze della natura, soprattutto il mare. L’epigrafe di Magalotti – Non ho girato il mondo per copiare epitaffi e contare scalini di campanile4 – può essere l’epigrafe di tutto il mio modo di vivere, viaggiare e raccontare.

“Oceano”, il capolavoro

E così dopo Tropici Rossi pubblicò con crescente successo, sempre con Bompiani che resterà il suo editore fino al 1953, il già citato Via degli Spagnoli nel 1936, vincitore a Genova del Premio Foce, e nel 1938 Oceano, dove pagine appassionanti raccontano la pesca delle aringhe e le paure destate dalla febbre gialla, cui verrà assegnato il prestigioso Premio Viareggio, libri che rappresentavano la realizzazione di quanto poco sopra lo scrittore aveva posto come suoi obiettivi di narrazione: dalla organizzazione del racconto in molteplici frammenti poi tutti ricondotti all’unità tematica alla vivace, a volte bruciante, presa di contatto con la realtà dei diversi ambienti, soprattutto marini, attraversati, dalle considerazioni sugli uomini che vivono in essi al viaggio inteso come allegoria della vita con le sue avventure, i rischi, l’abbandono, la ricchezza dei colori, la convivenza non sempre facile tra marinai e spesso la necessità del coraggio non come argomento per un’esercitazione letteraria, ma come scelta di vita. Il racconto di Rossi rivelava dunque, e in Oceano aveva toccato il vertice, una straordinaria vitalità nella rappresentazione dell’uomo colto nel microcosmo della vita di bordo, senza abbellimenti ma nella crudezza di un’esperienza irripetibile proposta in totale libertà – per esempio in Tropici non compare alcun pregiudizio razziale nei confronti degli uomini di colore – e senza cercare argomenti clamorosi per destare forzatamente l’attenzione del lettore – il tutto per esporre la sua filosofia della vita, con il conseguente frequente ricorso alle massime e ai detti proverbiali contrapposte alla cultura ufficiale dei libri che, a parer suo, esprimono un’astratta teorizzazione della vita.

La guerra dei marinai

Ormai consolidata la sua fama di grande scrittore di mare, Rossi, trasferito dal Ministero delle Finanze a quello della Marina, ebbe l’incarico di seguire e di raccontare le operazioni militari della nostra flotta nella Seconda guerra mondiale. Ecco allora La guerra dei marinai (1941), raccolta di articoli usciti sul Corriere della Sera dai quali certo non mancavano gli elogi per il coraggio e la competenza dei nostri marinai, ma diversamente dalle Streghe di mare, nessun personaggio di regime veniva esaltato, ma era genericamente apprezzato l’Alto Comando della Marina, così come non si trovava accenno all’allora imperante anglofobia e anzi, in una serie di articoli usciti sul Tempo di Roma tra il 1944 e il 1945, comparivano palesi elogi rivolti a noti personaggi inglesi: da Lawrence d’Arabia a Winston Churchill. L’impegno sui temi militari non aveva però distolto Rossi dal piacere di raccontare il mare e così, proprio negli anni della guerra uscirono quattro suoi libri – Sabbia (1940), Cobra (1941), Pelle d’uomo (1943) e Alga (1945) – che di volta in volta raccontavano ora la pesca del merluzzo nei banchi di Terranova e ora rappresentavano gli abitatori dei grandi fiumi e poi del mare dell’India, senza però che il colore prevaricasse le dimensioni affettive degli uomini, ora epiche e ora tragiche, e sempre con una rappresentazione vivace e coinvolgente evitando però accortamente possibili cadute nell’enfasi.

La difficile via del romanzo

Il successo di questi libri di mare e di viaggi non fece però desistere Rossi dal proposito di rinnovarsi e di tentare un’altra e ben diversa strada letteraria, quella del romanzo che nel 1948 lo portò alla pubblicazione di Preludio alla notte dove, all’interno di un viaggio di mare con il contorno delle consuete vicende avventurose, si svolgeva una storia erotica tanto approssimativa quanto esplicitamente licenziosa – forse come eco di alcuni degli aspetti deteriori del contemporaneo neorealismo – spesso appesantita da insistite ambizioni a filosofeggiare.

Tornato a non migliori esiti al romanzo con Il granchio gioca col mare (uscito nel 1957 presso il suo nuovo editore Mondadori che tale resterà negli anni successivi) e, dopo le raccolte di articoli giornalistici (era intanto entrato nella redazione del Corriere della Sera) Soviet (1951) e Fauna (1953), Rossi si era di nuovo cimentato nella biografia romanzata con Cristina e lo Spirito Santo (1958) centrato su uno spregiudicato ritratto della sovrana svedese che si apriva sul malcostume della Chiesa nel Seicento, con vicende di corruzione analoghe alle presenti. Ma presto egli sarebbe tornato lo scrittore di straordinaria rappresentazione del mare, narratore di viaggi e di avventure per riconoscere l’uomo con il suo coraggio e le sue problematiche sotto tutte le latitudini; ed ecco allora, esito di sue corrispondenze giornalistiche nate in mari e in terre lontane i bei libri Festa delle lanterne (1960), La terra è un’arancia dolce (1961) e Nudi e vestiti (1963). Intanto però la sua scrittura aveva segnato un progressivo cambiamento perché dal racconto dei fatti si era sempre più spostata verso la riflessione sui fatti che caratterizzò nettamente l’ultimo decennio della sua attività di scrittore: ciò emergeva da Teschio e tibie (1968), nuovo tentativo di dar vita a un romanzo, con l’espediente di far muovere tra i personaggi lo spirito sentenzioso di un pirata vissuto tre secoli prima, con conseguenti lunghe parentesi meditative che rallentavano una vicenda piuttosto gracile. E così da Il silenzio di Cassiopea (1965) a L’orso sogna le pere (1971), da Calme di luglio (1973) al suo ultimo libro Maestrale (1976), Rossi proponeva una serie di opere dall’andamento piuttosto lento e meditativo, di tanto in tanto ravvivate da episodi vivaci e coinvolgenti, ma di fatto piuttosto lontane dalla diretta rappresentazione di vicende straordinarie e infarcite di riflessioni non sempre approfondite. L’accoglienza di pubblico e critica di fatto risultò piuttosto fredda e giustamente tutt’oggi Rossi è ricordato come l’entusiasmante scrittore di mare autore, tra gli altri, di quel capolavoro che era e rimane Oceano, non a caso giunto a ben 34 ristampe.

1 Vittorio G. Rossi, Manualetto di attrezzatura navale, Agnelli, Milano 1912.

2 Francesco Formigari, La letteratura di guerra in Italia, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Roma 1935, p. 81, dove erroneamente il libro è citato come Le streghe del mare.

3 Elio Filippo Accrocca, Ritratti su misura, Sodalizio del libro, Venezia 1960, p. 370.

4 Sarà riportata da Rossi in apertura del suo libro di viaggi Via degli Spagnoli, Bompiani, Milano 1936. Lorenzo Magalotti (1637-1712), diplomatico al servizio dei Medici, compì numerosi viaggi in Europa in parte documentati e narrati in Relazioni di viaggio in Inghilterra, Francia e Svezia, Laterza, Bari 1968.