(Don Vincenzo Arnone) Il 19 marzo del 1962 moriva a Roma don Giuseppe De Luca, il prete più letterato d’Italia del Novecento. Alle nuove generazioni forse il suo nome non dice tanto, ma dagli anni Trenta agli anni Sessanta don Giuseppe De Luca fu amico, estimatore, consigliere, critico e «suggeritore» dei più grandi scrittori italiani di quel tempo. Sono passati 60 anni dalla sua morte e ne vorremmo parlare con le parole scritte in quell’occasione da un suo grande amico, Piero Bargellini, il sindaco-letterato di Firenze: i due furono molti vicini e vicendevoli estimatori dal 1929 fino alla morte di don De Luca. Il testo che riportiamo ci è stato offerto dalla figlia di Bargellini, Antonina, che ringraziamo per la sua gentilezza e generosità, e per la grande passione nel far conoscere ancora di più la figura sia del padre sia di don De Luca. In tutta la sua opera De Luca ha cercato di porre le basi e piano piano la costruzione di un Nuovo Rinascimento culturale di ispirazione cristiana e in parte vi è riuscito nel fondare le Edizioni di Storia e letteratura che tuttora esistono. Ad altri il compito di continuare, oltre confusioni e pressappochismi e superficialità: sarebbe la sintesi tra Fede e Carità, tra Eremo e Agorà, tra Preghiera e attività.

Un giorno del 1929, capitò nello studio di Giovanni Papini un giovane prete meridionale, basso e tarchiatello, tondo di faccia e d’occhiali, i neri capelli radicati fino a metà della fronte.

Ingoffato nella veste talare, con le braccia corte, le mani tozze e dure, sembrava uscire da un orto parrocchiale, coltivato da lui stesso, e non da una biblioteca erudita. Perciò né Papini né i suoi amici radunati nello studio gli posero molta attenzione, continuando i loro discorsi su teorie, tesi, problemi e soluzioni specialmente di carattere religioso.

Sembrava allora, come accade anche adesso, che il cristianesimo fosse stato riscoperto da quei pochi intellettuali, e che ci fosse tutto da rifare, dalla gerarchia alla dottrina, dall’apostolato all’insegnamento. Ognuno parlava, sdottorava e magari spropositava, non badando a quel pretino che cominciò ad agitarsi sulla sedia, intrecciando le tozze mani, serrando le timide labbra, ogni tanto ripulendosi gli appannati cristalli degli occhiali.

Alla fine si fece ardito di «metter bocca» negli altrui discorsi e fu un succedersi di osservazioni precise, di citazioni, di messe a punto acutissime, di correzioni riguardose ma ferme, tutto convalidando con testi sicuri, con studi recenti, con pubblicazioni erudite, di cui evidentemente gli altri erano all’oscuro, compreso Papini, che pure si piccava, e spesso con ragione, d’essere al corrente di tutto lo scibile.

Ma dinanzi a quel pretino di poco aspetto e di nessun nome anche Papini dovette più d’una volta arrendersi, confermando di non conoscere a fondo una questione o di non avere ancora letto l’ultima tesi della Sorbona o la più recente edizione di Oxford.

Nello studio di Papini era entrato il crepuscolo, e i discorsi languivano, quando il nero ospite dal volto quasi cancellato nell’ombra della stanza, chiese congedo, scusandosi di avere messo bocca, protestando la propria ignoranza e quasi implorando perdono dell’incontinenza che lo aveva portato a parlare dinanzi a tanti illustri personaggi.

Salutai anch’io in fretta e furia e corsi dietro a quella specie di balla che ruzzolava lungo il marciapiede di Via Giovanni Battista Vico. Lo raggiunsi toccandolo sulla spalla. Ebbe uno scatto di paura. Gli chiesi nome, cognome, indirizzo. Don Giuseppe De Luca, Via Barnaba Tortolini 2, Roma. «Noi due dobbiamo diventare amici», gli dissi. E fu così.

L’avventura di «Frontespizio»

Da pochi mesi avevamo iniziato la pubblicazione del Frontespizio, e io avevo bisogno di collaboratori che non ripetessero luoghi comuni, con retorica genericità.

Il Frontespizio scaturiva dall’incontro di due generazioni alle quali, poi, si sarebbe aggiunta una terza: la generazione dei «salvati malpensanti» Papini e Giuliotti; la generazione dei «calendaristi» Bargellini, Betocchi e Lisi; la generazione degli ermetici Bo, Macrì, Luzi, Parronchi. Non era facile mantenere l’unità della rivista che si affermava per merito soprattutto di Papini e in parte di Giuliotti. Ridurre la loro importanza, come si tenta di fare, significa non soltanto commettere un’ingiustizia, ma falsare la storia della rivista e della cultura.

Erano i loro articoli di fondo, apologetici e polemici, che attraevano i lettori e davano il tono vibrato della rivista.

Anche De Luca era arrivato a Firenze richiamato dal nome di Papini, come tanti altri, che, in quegli anni, preferivano Firenze alle altre città italiane, perché a Firenze si trovava Papini. Non riconoscere ciò, sarebbe, oggi, vergognosamente vile. Si può fare su Papini e sulla sua opera ormai consegnata alla storia qualsiasi giudizio critico, ma non si può negare l’enorme potere di seduzione ch’egli ebbe sui giovani, la suggestione ch’egli esercitò ai suoi giorni e la soggezione che suscitò nel mondo intellettuale.

De Luca ebbe per Papini una vera passione, che col tempo sbollì, lasciandogli nell’anima larghe ustioni. Collaborare al Frontespizio significò, anche per lui, stare accanto a Papini. Ma non era facile stabilire a distanza una collaborazione congeniale.

A Firenze l’affiatamento nasceva dal ritrovarsi ogni sera in piazza de Giuochi, nel quartiere dantesco, poi in via del Proconsolo, a casa mia, e infine in Via de Pepi, dove mi trasferii nel 1932. Ma come era possibile far giungere le vibrazioni delle nostre dispute agli amici lontani? Non bastava attendere passivamente il plico raccomandato con l’articolo che quasi sempre risultava estravagante, ma occorreva tenere i collegamenti con gli scrittori delle altre città, i quali dovevano essere informati sui temi e gli argomenti, emersi nelle quotidiane riunioni. Questo compito toccava a me, eletto, non si sa come e perché, direttore della rivista. Quante lettere dovetti vergare in fretta e furia, dirette a Casnati, a Fenn, a Giordani, a Mignosi, e sopratutto a De Luca. «Tu non scrivi con la penna», egli mi diceva, «ma con la mitragliatrice».

E a mitraglia mi rispondeva, pronto, vivace, pertinente e impertinente. Con la sua scrittura piccola, fitta, ben formata, d’umanista che sembrava si fosse fatto la mano più sull’alfabeto greco che su quello latino, riempiva foglietti minuscoli di appunti, di citazioni, di pensieri, di brani stralciati qua e là, ma tutti con un sapore gustoso, con un tenore acuto, con un profumo pungente, che a volte mi dava il capogiro.

Dalle sue buste gonfie usciva un materiale fragrante, come un mucchietto di spezie e un fascetto d’erbe aromatiche, che io stesso manipolavo e rimpolpettavo nei «piedini» piccanti coi quali animavo la rivista, firmandoli con i più svariati pseudonimi.

Chi era Alcuino, chi era Altafronte, e l’Anonimo e Aristarco e Barbacane e Battifolle e Bertoldo e Boccamara e Buffalmacco e Cucculeone e Forasassi e Fuligatto e Gattopardo e Giantruffetto e Gotila e Gracimolo e Lazzaro e Lupo Cerviero e Macilento e Melambruno e Maltalento e Martin Pescatore e Mastrimbriglia e Mozzorecchi e Nembrotto e Omobono e Orbino e Ponziano e Ruzzante e Salimbene, e Sparafucile e Spinello e Spiridione e Strizzino e Supplizio e Tiburzio e Trafela e Ursacio e Zeffirino? Ero io, ma con dietro De Luca; io ma con accanto De Luca; io con gli spunti che mi offriva De Luca; io con le munizioni che mi forniva De Luca. Anche a me oggi riuscirebbe difficile distinguere ciò che era del sacco suo da ciò che era del sacco mio, tanto le polpette venivano abilmente impastate, indorate e fritte. Ma la parte più aromatica o più rapida era sempre la sua, e sua era la pasta più lievitante e croccante.

Odoskopos & Petrus Magister

Gli articoli tutti e soltanto miei erano quelli firmati Petrus Magister e il Vetturale; gli articoli soltanto suoi, quelli firmati Odoscopos. Per il resto, se la pietanza veniva cotta da me, gli ingredienti più gustosi venivano da lui, lettore formidabile, raccoglitore di libri rari, che usciva di casa soltanto per rovistare i banchini dei rivenditori, per entrare nel retrobottega delle librerie.

Non si fermava mai dinanzi alle vetrine, né sostava tra i banchi delle vendite. Sgattaiolava nei depositi polverosi, tornando di lì a poco con la veste sbiancata e un libro di cui nessuno ricordava l’esistenza.

Leggeva per strada, a tavola, a letto; leggeva per lunghe ore al tavolino, ricoperto di plaid e di scialli, illuminandosi di tratto in tratto a un’espressione originale a un pensiero nuovo.

Ma non era un semplice buongustaio, alla maniera, per esempio, di Antonio Baldini che da De Luca riceveva eccellenti indicazioni, perché nelle letture non perdeva mai il filo d’un suo discorso, spirituale religioso. Si spiega così come erbonizzando sui più diversi testi, egli potesse offrire al Frontespizio spunti d’apologia e addirittura di teologia.

E quando con lo pseudonimo di Odoskopos, nel 1931, mantenne una sua rubrica la intitolò: «Appunti di teologia e di storia».

Ma già nel Frontespizio dell’aprile 1930 erano apparsi contemporaneamente un Romeo Romita e un Matteo Romito che trattavano di «Cultura e dottrina», «Cultura e coscienza» polemizzando con gli intellettuali che oggi chiameremmo laicisti. «Non credano: in Italia noi cattolici non si scrive, ed è vero, ma si legge. C’è vescovi, c’è preti, c’è laici che seguono, tra cure pastorali, riviste tecniche; e non sono pochi. Ma ora la pazienza di chi ascolta ha lo stesso limite che la discrezione di chi parla… Singolare destino del cristianesimo! Tutti i suoi ladri, appena ne han preso qualcosa, rinfacciano al cristianesimo di non essere al corrente. Ma pure, singolar destino dei ladri! Quel po’ di refurtiva non resiste isolata. Se la consumano a volte, assai prima di morire; o nel migliore dei casi, la consumano per due o tre generazioni, e poi, actum est. E intonano a noi, mentre son vivi, gli epidedii e le lamentazioni».

Chi leggeva, chi studiava in modo particolare era lui, De Luca, Romeo Romita, Matteo Romito e poi, dal 1931, Ireneo Speranza.

Tra Papini e Giuliotti prendeva voce così un altro scrittore, di fondo erudito, di carattere umanistico, di tono spirituale, risoluto d’uscire dalle vaghe schermaglie polemiche, per scendere sul terremo della cultura, al pari degli altri, con gli stessi diritti e sopratutto con gli stessi doveri intellettuali.

«Ora ci preme ricordare ai cattolici», scrive Ireneo Speranza, «che è loro dovere, se vogliono uscir di vigliaccheria, seguire le fortune e le sfortune della loro Fede in opere d’invenzione o di poesia, di passione o di calcolo, di storia o di filosofia, di polemica o di contemplazione, dovunque e sempre. Devono rendersi conto di tutto, vagliare e subito chiarire e dominare; altrimenti si accumula, come accade da molti secoli, tutta una enorme pila di cultura, che noi respingiamo, ma che il mondo continua a divorare, con questo bel risultato: che oggi i cattolici sono in minoranza intellettuale, nel mondo, pur avendo da parte loro la verità. Iddio non fa miracoli per coprire la nostra vigliaccheria».

Un vulcano di idee

Si dichiarava contrario a coloro che «han relegato la loro fede in soffitta, dov’è dicono, al sicuro dalle perquisizioni e dalle noie». Chi oggi parla di apertura dovrebbe rileggere Ireneo Speranza del 1932, di trent’anni or sono.

Un incarico al Ministero della Pubblica Istruzione (che allora si chiamava con più saggezza pedagogica dell’Educazione nazionale) mi chiamò periodicamente a Roma. E a Roma la mia residenza fu la casa di De Luca. Egli era allora cappellano delle suore dei Poveri vecchi. Abitava in una strana via, che era come uno spalto, nei pressi del Colosseo. Via Barnaba Tortolini, poi chiamata via del Fagutale. Giungevo di solito a Roma, sul far della sera e subito correvo, quasi con il cuor in gola, da lui, che sfavillava nel vedermi. M’accoglieva con affettuose maledizioni. Gli apparivo come un uomo a cavallo sempre galoppante su qualche idea, dinanzi alla quale egli si ritraeva, come investito dal vento. Era il vento frizzante della Toscana che a lui, meridionale romanizzato, dava brividi sottili, d’una febbre che gli divampava immediatamente nel sangue. Ci mettevamo subito al lavoro, come due ruote ad ingranaggio, finché la vecchia Eufemia non ci chiamava a cena, durante la quale continuavamo a parlare, a ideare, a progettare articoli, rubriche, collane di libri. Mangiavo e dormivo a casa sua. Prima di andare a letto egli cercava un libro, perché leggessi: un di quei libri che aveva scoperto, frugando nei banchini e nei retrobottega.

La mattina all’alba, mi portava con sé alla Messa dei Poveri vecchi, che tossicchiavano nei loro banchi. Alle prime luci eravamo nuovamente nello studio luminosissimo, ad almanaccare, a scavizzolare, a far progetti e propositi. Alle dieci correvo al Ministero, ma subito dopo mezzogiorno ero di nuovo da lui. Sarebbe stato geloso, se non fossi tornato a casa sua, né io potevo starmene lontano. Qualche volta, nel grande stanzone tappezzato di libri, scrivevamo a quattro mani, eccitandoci l’un l’altro, e poi firmando Cosma e Damiano, oppure Epulino e Lazzarone.

«Tu sei un vulcano d’idee» gli dissi un giorno.

«È vero», mi rispose con lo sguardo che gli si spengeva nell’improvvisa tristezza: «un vulcano, al quale però non si può accendere una sigaretta».

E aggiunse quasi con una punta d’ammirato dispetto: «Voialtri toscani, invece, siete fiammiferi secchi, coi quali riuscite sempre ad accendere i vostri moccoli».

Ma senza di lui i nostri fiammiferi sarebbero mancati di fosforo e le fiammate non avrebbero avuto la lucentezza che acquistavano sulle pagine del Frontespizio e anche dei libri.

Altra volta si paragonava a una zucca piena di semi, che non giungevano mai a maturazione.

«Voi invece portate i vostri frutti sulla frasca e li sventolate come un vessillo», diceva sempre in polemica affettuosa con me e con Papini.

Ma se accadeva di accompagnarci alla Vaticana o alla Gregoriana, sembrava che portasse davvero un gonfalone, nel caso di Papini; un pennoncello, nel caso mio.

Non cessava a quattr’occhi d’insultarci. Si sentiva d’altra natura, o meglio, d’altro genio. «Vi odio», diceva con stizza, «non siete che dei castroni, non sapete nulla, non capite nulla, eppure senza di voi, noi non saremmo che un mucchio di letame, imputridito per troppa sostanza. Siete come la vostra terra, arida e avara, sulla quale però la vite dà il vino più abboccato e l’olivo dà l’olio più fine e fragrante».

Ci amava con dispetto; mentre venerava, perché eruditi, il Bremond, il De Guilbert, il Wilmart e magari anche il Croce, di cui conservava certe cartoline, scritte in carattere minuto, simile al suo.

Noi invece scrivevamo a grandi lettere, da scialoni, di primo getto, alla brava, senza consultare né grammatiche né vocabolario.

«Voi non potete immaginare», diceva De Luca, «che cosa significhi scrivere in una lingua che non è materna».

Quando gli sottoponevo le mie pagine, tra rigo e rigo, nello spazio bianco, egli interpolava espressioni cesellate e squisite, con incisi sapienti, aggettivi peregrini, immagini preziose e riferimenti letterari.

Nacque così il nostro corso di religione, formato da tre volumi: Dall’Antico al Nuovo Adamo, Il Figlio dell’uomo Figlio di Dio, la Barca del Pescatore. Tracciavamo insieme lo schema dei capitoli, che a Firenze io stendevo a righi radi, tra i quali egli, con la sua scritturina minuscola, intercalava parole di contrappunto, rammentando e qualche volta anche ricamando la mia prosa disadorna o, com’egli diceva, «tutta sguainata come una spada crudele».

Non si trattava soltanto di gemmature stilistiche, ma sopratutto di delicatezze dottrinali e di sfumature spirituali. Aveva sempre a portata di mano un’antica edizione delle opere di sant’Agostino, con fitte tavole di riferimento, di cui si serviva specialmente per i suoi Vangeli Domenicali.

Quel suo flessuoso e insinuante periodare, quella sua dolcezza di stile, che sembrava titubante ed era invece penetrante, gli veniva di lì per la parte spirituale e dai più spregiudicati cinquecentisti per la parte filologica.

Nel solco di Cristo

Accadeva qualche volta che mescolasse il testo d’un Padre orientale con una burla dell’Aretino. Estroso e insieme pedante, rigoroso nel concetto e linguaiolo nella forma, per quanto marcio di letteratura, non smarriva mai il senso del religioso e il dovere della testimonianza a Cristo. Non parlava mai di verità, ma di Cristo; mai di dottrina, ma di Chiesa cioè di vita con Cristo.

Per lui non esistevano «problemi», ma condizioni di vita anche intellettuale e culturale. Com’era possibile respirare fuori del cristianesimo? Dentro si poteva avere la polmonite delle eresie o l’etisia del lassismo, ma fuori era l’aridità assoluta, la morte certa. Sul tramonto uscivamo, per strade frequentate quasi esclusivamente da innamorati, attorno a San Pietro in Vincoli, sul Palatino, verso Santa Sabina, e nei crepuscoli dorati d’una Roma segreta, lontana da ogni traffico politico o curiale, mi parlava della sua vocazione, con una dolcezza struggente come del suo unico amore. Rientravamo, in silenzio, quasi spossati.

Era l’ora nella quale giungevano a salutarlo i compagni di seminario, don Cericioni, don Remo, don Sandri. Con loro era tutto diverso. Gli argomenti riguardavano le loro condizioni di sacerdoti, ma senza ostentata compunzione, al contrario, con qualche salace sboccatura, specie da parte di lui. E se mi vedeva, non dico scandalizzato, ma imbarazzato; «stupito», mi diceva buttandosi la berretta sugli occhi, «se parlo così è perché siamo tutti senza fenditure, altrimenti ci crocchierebbe come vecchi tegami».

E se gli parlavo d’esame di coscienza, m’interrompeva furiosamente: «Che esame e non esame», gridava battendo le due mani sulla scrivania, «voi toscani siete sempre i soliti protestanti d’Italia, i giansenisti di Pistoia. Bisogna mescolare il nostro sangue con quello di Gesù, vedi: così», e si feriva un dito succhiandolo quasi con voluttà.

Mescolare il nostro sangue con quello di Gesù, anche se torbo d’inchiostri letterari o avvelenato da manie culturali, anzi, proprio perché torbo e avvelenato, bisognoso perciò di purificazione e di rigenerazione.

Pubblicare? No, grazie

Non ero ancora arrivato a Firenze, che mi raggiungevano le sue bellissime, vivacissime lettere, piene di frizzi e di guizzi, d’acutezze e d’accoratezze, di rabbuffi e d’affettuosità, scritte con lindezza di compiuto umanista e libertà di grande scrittore.

Perché De Luca era scrittore veramente portentoso e sotto la sua penna si sprigionava un’incredibile forza di penetrazione, che rifuggiva dalla violenza verbale e cresceva nel segreto di uno stile, al quale aveva contribuito, come ho detto, la lettura quasi costante di sant’Agostino.

Con la sua preparazione, con la ricchezza della sua cultura, con la vivezza della sua intelligenza, con la capacità dei suoi mezzi espressivi, perché non scriveva libri? Un libro suo, a lui che era pazzo dei libri, sarebbe sembrato un indecente esibizionismo. «Il tuo capolavoro sarà l’epistolario», gli dissi una volta. Da quel giorno non cessò di scrivermi, ma infarcì le sue lettere d’espressioni volgari. «Così», mi disse accompagnando le parole con un gesto di dispregio, «neppure queste potranno essere pubblicate».

Gli vennero pubblicati, quasi di nascosto, i Vangeli domenicali, quasi a forza qualche prefazione, quasi clandestino qualche saggio e con tutti gli onori e clamori la stupenda introduzione all’Archivio della pietà cristiana.

La sua vocazione, direi quasi sacerdotale era quella che aveva già esercitata nel Frontespizio, d’ispiratore, di consigliere, direi perfino di confessore intellettuale.

Guerra materiale & spirituale

La guerra ci divise per alcuni anni e non solo materialmente. Temette che l’amicizia per Papini e per me l’avesse compromesso. Non fu né coraggioso né generoso. Ma di questa sua, quasi irragionevole paura, fu il primo a soffrirne. «Voi non sapete quanto vi ho voluto bene», mi confessava piangendo in una delle mie ultime visite, come se con la semplice presenza gli rimproverassi quel suo repentino abbandono, «voi non potete capire. Siamo troppo diversi».

Infatti la sua straordinaria intelligenza era una vorticosa macchina, portata in alto dall’ampia vela della sua spiritualità, alla quale non corrispondeva sufficientemente il timone del carattere. Umbratile ed apprensivo, facile all’esaltazione e alla depressione, scosso da improvvisi timori e commosso da profonde nostalgie, di tutto si faceva cruccio o consolazione, ora fiducioso e ora deluso, ora sfavillante di letizia, ora cosparso di cenere.

Di una sola cosa non dubitava: della sua fedeltà a Cristo, amato, seguito, servito pur tra scoramenti e magari infatuazioni; negli studi eruditi, come nelle pratiche di pietà, nella letteratura come nella devozione, nella cultura come nel ministero sacramentale. Ma anche in quest’uomo la sua condotta poteva suscitare perplessità. Non aveva resistito a lungo all’assistenza dei Poveri vecchi e come canonico di Santa Maria maggiore si era fatto «puntare» quasi ogni giorno, cioè multare per le sue assenze in coro. La Messa quotidiana gli procurava angosce e terrori, dovuti a psicosi morbose, ma non tralasciò mai di recitare il breviario. «Questo lucignolo non deve mai spegnersi», diceva. Né si spense mai in lui la devozione per la Mamma celeste, la Madonnina, come diceva con tenerezza quasi infantile.

Edizioni Storia & Letteratura

Quanto al lavoro, ormai considerava chiusa la sua avventura giovanile. Fin da quando era Ireneo Speranza, egli aveva sostenuto che non esiste una cultura senza un fondamento erudito. I cattolici, specialmente i cattolici italiani, dovevano cessare di combattere con le armi che venivano offerte dai loro avversari e sul terreno imposto dagli altri.

Il Frontespizio aveva sostenuto con accanimento la lotta sul fronte dell’idealismo, come vent’anni prima Vita e Pensiero si era battuta su quello del positivismo. Occorreva provvedere a una cultura cattolica non condizionata dagli eventi. Ma non si dà cultura senza testi; e i testi vengono forniti dalla erudizione. Sognava perciò e disegnava collezioni di libri e biblioteche di testi, ai quali tutti dovessero ricorrere. Qualcuna poté realizzarla, con un altro suo amico fraterno, Fausto Minelli della Morcelliana. Qualche altra rimase in progetto. Alla fine s’addossò l’enorme carico, intellettuale ed economico, delle Edizioni di Storia e di letteratura. Ebbe bisogno di finanziamenti, ed era uno strazio saperlo perennemente in cerca d’aiuti per le scadenze degli impegni.

Non era più possibile fare un discorso con lui, senza che non affiorassero questioni più di economia che di cultura. Il suo giudizio veniva ad essere turbato da quell’intrigo d’interessi materiali, dai quali dipendeva la sua bellissima attività di maestro dei maestri.

Perciò quando si seppe che, con fraterna premura, Giovanni XXIII, al quale De Luca aveva prestato la sua assistenza nella ricerca storica, intendeva sgravarlo della parte amministrativa, perché potesse attendere, libero da preoccupazioni, alla parte direttiva, tutti gioimmo di quel provvidenziale intervento.

Si pensava di potere rivedere l’amico sereno e fervoroso al suo lavoro geniale, alle sue letture, ai suoi studi. «Da anni», mi diceva nell’ultima lettera, «tu lo sai, non riesco più ad aprire un libro, pubblicandone quanti ne pubblico e raccogliendone decine di migliaia».

Si scusava così di non potere leggere quello che gli avevo inviato.

«Te ne ringrazio», aggiungeva, «come segno dell’amicizia d’una volta; d’una volta, perché anche adesso c’è, come la vita stessa e tutto, ma è un’altra cosa».

Era un’altra cosa, la vita presente, ma quella passata dei tempi del Frontespizio di Via Barnaba Tortolini, anche per lui, aveva un richiamo di nostalgia quanto più s’allontanava e, nel ricordo, assumeva i caratteri d’un invaghimento giovanile, se non addirittura d’un amore deluso.