Il 27 giugno ricorre il ventesimo anniversario dalla morte di Giuseppe Pontiggia (Como 1934 – Milano 2003). Lo ricordiamo con queste intense pagine di Rosita
Copioli, intessute di brillanti scambi d’idee e di complicità letterarie.

Ho trovato tra le pagine del Giardino delle Esperidi di Giuseppe Pontiggia, stampato da Adelphi nell’aprile 1984, due lettere che gli avevo indirizzato. La prima è la bozza a macchina del 20 agosto 1984, ma sull’agenda di giugno ne avevo già impostata a mano un’altra. La lentezza non era dovuta solo ai muratori che avevo in casa, ma agli intrecci dei lavori per L’altro versante, la rivista di cui avevo pubblicato da poco il numero sulle poetiche dedicato ad Anceschi (1982) e quello sul tradurre, Tradurre poesia, edito da Paideia nel dicembre 1983. Ora mi dedicavo a quello sul romanzo, Narrare, che sarebbe uscito nel settembre 1985. Intanto preparavo Tradizioni della poesia italiana contemporanea, di lì a venire nel 1988. E mentre traducevo Yeats, iniziavo a scrivere Elena per tappe, accompagnandola da riflessioni saggistiche, e cercavo di dare forma a Furore delle rose, il nuovo libro di poesia. Questo sarebbe uscito solo nel 1989, costringendomi a grandi tagli e rimpasti dei testi scritti, essendo passati dieci anni da Splendida lumina solis.

Credo sia stato Anceschi a metterci in contatto. Un tramite anche per l’invito di Antonio Porta al convegno di d’Annunzio del settembre 1985. Dopo la prima lettera con un lei formale, la cordialità (sua) di telefonate e qualche incontro, fece sì che dal «Carissimo Giuseppe» della successiva del 13 maggio 1985, passassi presto al «Carissimo Peppo». Ero stata a Milano il giorno prima, dunque il 12: «Non immagini con quale piacere sia stata con voi. Ho avvertito, ascoltandoti, la passione affine che riesce a legare, a distanza, un’esperienza letteraria ancora acerba qual è la mia, con quella ormai matura e tra le più autorevoli oggi, che è la tua: “la poesia rende amici e avvince in vincoli indissolubili tutti gli animi che la amano”». È Schlegel. Lo leggevo con Novalis e Cioran, e il romanzo alessandrino, e i tragici, e Leslie Fiedler, e Citati, e gli americani, e Jono, per introdurre Narrare. Dopo varie osservazioni su Pontiggia stesso – e notizie di Anceschi che stava per consegnare a Zanichelli Che cosa è la poesia – concludevo sulla meta irraggiungibile: «Forse è proprio quella di Yeats: scrivere una poesia cold and passionate as the dawn».

Frammenti inediti

Per Narrare Pontiggia mi aveva consegnato dei frammenti inediti dell’Arte della fuga pubblicato da Adelphi nel 1968: copertina color avana, nell’ovale orizzontale chiaro un cane grigio dal collare rosso con la lepre sgozzata, il rosso sangue che ne esce. Questa la nota con cui li accompagnava:

Ho scritto l’Arte della Fuga tra il 1961 e il 1968 (uscì quell’anno da Adelphi). Non intravvedevo possibilità di rinnovare il romanzo tradizionale (uso per brevità questa formula impropria), né mi persuadevano alcune direzioni dell’antiromanzo: non-scrivere in un modo programmato o scrivere per dimostrare che era impossibile scrivere (tanto valeva fare altro). Mi attirava invece una terza soluzione: scrivere un romanzo che, abolendo i nessi convenzionali di spazio e di tempo, puntasse su una rete di associazioni fantastiche, di sequenze analogiche, di convergenze intuitive. Lo scrivevo come un prontuario di occasioni narrative che si sviluppavano intorno a temi e a personaggi ricorrenti: ma speravo anche che il testo fosse leggibile ad apertura di pagina e rispondesse a una insofferenza radicale per il prevedibile e il noto. Muovendo dal presupposto che l’opera dovesse superare qualsiasi progettazione, scrivevo ogni giorno con un’attesa tra fantastica e mistica.

Solo più tardi ho capito che anche in un romanzo dall’impianto e dalla scrittura trasparenti possono non esistere nessi strutturali. Quelli che siamo soliti chiamare tali o sono parti deboli (e da evitare) o sono parti inventive come il resto (e quindi non sono più né strutturali né convenzionali). E sono tornato a credere nel romanzo quando mi sono convinto che esso poteva costituire non una diminuzione, ma una intensificazione delle ambizioni che avevo scrivendo l’Arte della Fuga: un filtro, un collaudo, ulteriore, una sfida, quella di una scrittura dallo strato superficiale trasparente, ma sempre più complesso negli strati sottostanti; una scrittura che perseguisse la ricchezza enigmatica e inesauribile che può avere la chiarezza.

L’Arte della Fuga è comunque il romanzo nel quale i temi che ho sviluppato in opere successive hanno il loro preannuncio nella forma più ellittica, allusiva, sintetica.

Una simile struttura consentiva ampio spazio ai tagli, che infatti sono stati numerosi: nella fase di revisione ho soppresso molti “capitoli”, a volte perché non mi persuadevano, a volte perché mi sembravano estranei alle sequenze.

Sono lieto di pubblicarne qui una scelta: può avere un interesse retrospettivo ed essere un collaudo in vista di un’altra, eventuale revisione del testo.

Il 19 marzo 1990, quando mi mandò la nuova edizione Adelphi in copertina celeste e rettangolo di Magritte, la dedica rievocava la pubblicazione dei frammenti di «quell’Arte della Fuga ancora vicina». Il risvolto, firmato da lui, insisteva sull’enigma riflesso su una rete di associazioni fantastiche, che si sostituisce ai nessi convenzionali di spazio e tempo: investigazione che «diventa alla fine un interrogativo sul destino della nostra specie». Sulla Stampa Fruttero e Lucentini parlarono dell’«unico “poemetto poliziesco” che sia mai stato scritto». L’Arte della Fuga non era il suo primo romanzo. Il primo era Morte in banca, pubblicato nel 1959 da Anceschi nei Quaderni del Verri, editi da Rusconi e Paolazzi (Paolazzi era il padre di Antonio Porta), poi riveduto per Mondadori nel 1979, subito dopo Il giocatore invisibile (1978). Il raggio d’ombra sarebbe uscito invece nel 1983 (in riedizione ricorretta, come di costume, nel 1988). Allora, nel 1983, Citati aveva insistito sull’inquietudine dell’enigma, che non viene mai placata. Sul vuoto cuore dei suoi libri, che Pontiggia lascia spalancato.

Scrivendogli del Giardino delle Esperidi anticipavo, attraverso le ferree architetture del suo stile che dai tagli e dai vuoti lascia emergere le fantasmatiche presenze come nei sogni o nella poesia, gli elementi della conversazione che avremmo tratto insieme per L’altro versante sulle Tradizioni. Avevo chiesto di riflettere a partire dal «fondamentale nodo teorico della modernità: l’idea di classico e romantico in endiadi». Deve avere sorriso al mio stile un po’ presuntuoso:

Ma avendo con la cristallina eleganza dei classici il tono, gli stimoli educatamente musicali della miglior prosa del Novecento, nel suo stile trasparente lascia comparire come gioielli le forme delle idee. Così il suo tempo è la sempreverde attualità. Ha scelto per sé lo stile più difficile, quello che fa rischiare di perdere la propria fisionomia, perché pretende l’impersonale purezza dell’acqua. Ma è quello lo stile dell’intelligenza del cuore, delle magie segrete che riconducono i pensieri alle cose e alle immagini e ai sensi. Mentre con scrupolo esso lavora a celarsi, trascina garbatamente a scendere (o a salire?) nei vertiginosi abissi di quella scrittura che non tradisce il muoversi della vera ricerca: di lì si traggono le gemme, i tesori.

Nella prosa de Il giardino delle Esperidi, che come presso gli antichi ha amato il gusto del limite, 1’artificio che non serve è bandito: basti quello che permetterà di durare. Anche per Il giardino delle Esperidi possono convenire le riflessioni adattabili ai classici, quanto a Daumal, a Pessoa, così come a Solmi. Potrò spigolarne qualcuna? «Solo il discorso chiaro può essere di una complessità inesauribile»; «Tutto ciò che è profondo ama la maschera», ha scritto Nietzsche, e forse que­sta è l’ineffabile suggestione dell’arte classica: la simultaneità di sincerità e simulazione, coppia di apparenti contrari che ricalca quella di necessità e libertà, di naturalezza e artificio.

Avevo lasciato nella penna il paragone a Valéry per la trasparenza d’acqua, ma insistevo su quello con Solmi, di cui uscivano le opere in Adelphi, e su cui avevo scritto. Ora sorrido anch’io per quel modo un po’ pomposo dove eclissavo ironia e riso, che invece mi hanno sempre attratto, e che in lui sono fondamentali: una difesa, nella «bontà tragica», dalle ferite, anche le più lievi, che possono produrre voragini, incendiare il mondo. Ma lì avevo assunto la maschera e lo scudo della Difesa della poesia (e della natura), in reazione a tutti gli ideologi della smitizzazione e della mimesi alienante. Militavo. Come quando nell’aprile 1988 a Riccione organizzai con gli amici poeti e filosofi la manifestazione a tesi “La nascita delle Grazie”, genesi del Mitomodernismo. Non era che lui stesso, dal seno delle avanguardie che ben conosceva, non avvertisse le stesse necessità di «riscoprire l’immensa potenza della parola». Così fu prodigo di ascolto e di risposta, in quelle dieci pagine di conversazione su «letteratura, mito, classicità», dove raccontava anche l’esordio deludente nella poesia che non pubblicò mai:

Rimanevo suggestionato da certi modelli e se realizzavo l’ideale di trasparenza che mi proponevo, ciò avveniva con un linguaggio che non era mio. Mi son reso conto allora che la since­rità in letteratura è un problema straordinariamente complesso.

Una sorta di paralisi

Interrogato sul costo di quell’ideale, rispose:

Quando ho scritto la Morte in banca, nel 1952, ho la­vorato con immediatezza, non mi sono posto in modo radicale i problemi di linguaggio e di struttura, che invece si sono presen­tati in modi anche paralizzanti quindici anni dopo, quando la ri­flessione della neo-avanguardia aveva esplorato l’area della narra­tiva. Negli anni Sessanta ero suggestionato dai modelli del “Nouveau Roman” francese. Avevo un forte interesse per le tecniche narra­tive (mi ero laureato nel 1959 con una tesi sulla tecnica nar­rativa di Svevo) e anche la consapevolezza che il linguaggio fosse malato per effetto della mercificazione, delle distorsioni e degli abusi della società contemporanea. Questo aveva pro­dotto in me una sorta di paralisi. Non credevo in un progetto di romanzo che potesse salvare le coordinate spaziali e temporali, la storia, i rapporti tra i personaggi; né in un modello di romanzo che potesse rifarsi a una tradizione, sia pure articolata e problema­tica. D’altra parte non credevo neanche in una certa didascalicità negativa della neoavanguardia: scrivere per dimostrare che non si poteva scrivere, fare un romanzo che dimostrasse l’impossibilità del romanzo; a questo tipo di impotenza dichiarata preferivo semmai altre attività. La riscoperta dei classici è stato uno dei modi di liberarmi da questa condizione.

La poesia, anche per frammenti, poteva esprimere una totalità: lui la cercava: nei libri – che moltiplicava nella sua enorme biblioteca – e in sé stesso, ma tutto restava investigazione, nel senso della quête:

un poeta è colui che attraverso il linguaggio, attraverso la parola, arriva a esprimere l’esistenza come totalità. Si avvicina al senso originario dell’essere. […] Se si ha un interesse profondo per le parole, per quello che le parole significano, possiamo servircene come di uno strumento per capire quello che ignoravamo di sapere, per addentrarci nell’ignoto. […] La letteratura, nel suo senso più importante, ha questa funzione, proprio, di rivelare attraverso la parola nuovi rapporti con il mondo, con l’esperienza. Una visione intensificata attraverso la parola, visione di strati molteplici che ci sfuggono quanto più li penetriamo. Io credo al significato sapienziale della letteratura. Quanto più leggo un classico, tanto più scopro che è ricco di un sapere che converge con la speculazione filosofica nel senso più alto. […] Io non trovo mai contraddizione, ma sempre convergenza tra speculazione filosofica e linguaggio della parola. Anche fra sapere religioso e sapere poetico c’è sempre convergenza. Il problema è di coglierla.

Varrebbe la pena ristampare quelle pagine lontane, dove la confessione era generosa di esempi, ai quali il tempo ha dato ragione.

Un incontro divertente

Era un lettore meraviglioso, acuto e sincero. Come non affidargli i nostri scritti più dubbiosi? Tanti di noi l’hanno fatto, trovando sempre accoglienza, buoni consigli, e la tessitura dei rapporti che fanno vivere gli scrittori: come quando mi fece incontrare Calasso per Yeats, ma io ormai avevo firmato con Guanda. E a questo proposito, credo che oltre a stupore ci sia stato un pizzico di orgoglio, quando mi scrisse la breve nota sul Corriere all’uscita di Anima mundi, i saggi di Yeats.

I suoi libri ti giungevano con puntualità svizzera. Le dediche appropriate al momento. Per esempio su La grande sera – romanzo di sparizioni, inizio tra presunti poeti, che avrebbe vinto lo Strega battendo sul filo Cadmo e Armonia di Calasso – appose: «A Rosita con l’ammirazione del suo Peppo Milano, 18 aprile 1989»: penso si riferisse al mio Furore delle rose, uscito a gennaio. Per I contemporanei del futuro scrisse: «A Rosita e ai nostri classici Peppo 9.9.1998».

Il 23 agosto 2000, quando mi giunse Nati due volte, inviato con la più consueta dedica «con il mio abbraccio», pensai che il Peppo avesse fatto lo sforzo più tremendo su di sé, che doveva a tutti a tre, Lucia, Andrea e sé stesso, perché era la restituzione di quel che avevano dato e ricevuto insieme. Se gli altri potevano estraniarsi dalle loro vite, lui no. Lui doveva riconoscere il figlio, come il figlio riconosceva lui, il padre. Ricordai l’incontro più divertente di anni prima, nella casa milanese di via Farneti 9. Io munita di registratore e cassette appena comprate, in quella fodera di Biblioteca che era la casa. Le cassette, o il registratore, o entrambi, non volevano saperne di assorbire coscienziosamente le nostre voci, come era loro dovere. Allora entrò in campo Andrea, il salvatore. Molto ironico e competente, preciso e affidabile, ci tirò fuori da ogni impaccio. Risolse i problemi di tutti, con la sua aria “superiore”. Perché un Ermes-Cristo è davvero superiore a tutti noi: così lo identificò Citati parlando di lui in Nati due volte: «Va oltre il dolore, diventa Ermes e Cristo; riesce a giungere nel punto dove gli opposti coincidono». Lo ricordava sui tredici anni. Quando

si produsse in una intervista a Luciano Foà (allora amministratore delegato di Adelphi) che possedeva l’ironia, l’insensatezza, la demenza della grande letteratura comica. Si prendeva gioco di Adelphi, di Foà, di Calasso, della letteratura, dell’editoria, di sé stesso, del padre, della madre, dei libri e, naturalmente, dell’intera esistenza. Dopo averlo ascoltato, capivi che il mondo è una cosa di cui si può benissimo fare a meno.

Peppo rispose alla mia ultima lettera poco prima di morire. L’avevo invitato a nome di Marcello Di Bella, direttore della Biblioteca Gambalunga di Rimini, a parlare di classici nel Festival del Mondo antico, “Antico presente”, che Di Bella aveva inventato e organizzava con grande successo dal 1999. Rispose con la squisita, sincera cortesia di sempre, scusandosi. Anche l’appuntamento inesorabile, era indistinguibile da una colpa. Quella che portava attraverso il padre ucciso, quella che gli aveva fatto scrivere il libro terribile: Nati due volte, dove a tutti noi ha insegnato che l’inatteso è l’altro, dal quale impariamo appunto «il prossimo», lo sguardo del riconoscimento.