Nella letteratura economica, in relazione alle sue cause, l’inflazione viene distinta in “inflazione da domanda” (demand-pull inflation) e “inflazione da costi” (cost-push inflation). Questa distinzione, pur risultando utile ai fini dell’analisi teorica e in grado talvolta di aiutare a comprendere l’origine di un determinato movimento inflazionistico, non è sempre di grande aiuto nella realtà, poiché i vari tipi d’inflazione tendono a confondersi e ad alimentarsi a vicenda. Quando la “stalattite economica” (la domanda eccessiva) e la “stalagmite sociologica” (le rivendicazioni crescenti) «si incontrano e si fondono in un bacio di ghiaccio, nessuno sulla terra può conoscere con certezza dove finisca l’una e cominci l’altra» (Dennis Robertson, Growth, Wages Money, Cambridge University Press, Cambridge 1961). Esaminiamo adesso i vari tipi d’inflazione.

Inflazione da domanda

L’inflazione da domanda – che costituisce la spiegazione classica dell’inflazione – si ha quando l’aumento dei prezzi è provocato da un’eccedenza generale delle domande sulle offerte di merci e servizi.

Tale eccedenza, se prolungata nel tempo, non può che derivare dall’incremento della quantità di moneta in circolazione in disaccordo con l’aumento delle offerte. Infatti, un aumento generale delle domande, sebbene nel breve periodo possa essere sostenuto da un incremento della velocità di circolazione della moneta, nel lungo periodo necessita di una crescita della moneta in circolazione.

Nella situazione attuale, in cui la moneta di carta non è più convertibile (in oro: come avveniva nel sistema gold exchange standard) e pertanto non si pongono limiti invalicabili all’emissione di banconote, i monetaristi attribuiscono la responsabilità dell’inflazione da domanda ai pubblici poteri, che, nel tentativo di eliminare la disoccupazione seguendo la dottrina keynesiana, hanno lasciato crescere senza alcun freno la spesa pubblica.

Una domanda globale insufficiente

Secondo i keynesiani, in effetti, il problema centrale delle economie moderne era rappresentato dall’insufficienza della domanda globale (causa della disoccupazione del fattore lavoro). Partendo da tale premessa, l’intervento dei pubblici poteri non poteva operare attraverso la politica monetaria, poiché – secondo i keynesiani – tale politica influisce soltanto sul tasso d’interesse e non garantisce la necessaria crescita degli investimenti. Di conseguenza, l’intervento non poteva che indirizzarsi verso la crescita degli investimenti pubblici, cioè verso la spesa pubblica finanziata attraverso l’indebitamento e l’emissione di nuova moneta.

L’obiettivo della stabilità dei prezzi, secondo la scuola monetarista, può essere raggiunto riducendo il tasso d’incremento della moneta: più precisamente, la moneta deve crescere in una percentuale uguale a quella dell’incremento del reddito reale. Questa regola, secondo Milton Friedman, dev’essere fissa nel breve periodo e dev’essere preannunciata alle parti sociali (imprenditori e lavoratori) in conflitto, in modo da evitare aspettative (previsioni) inflazionistiche.

Inflazione da costi

Si parla di inflazione da costi quando l’aumento dei prezzi è provocato dalla crescita del costo dei fattori produttivi, con particolare riferimento al costo del lavoro e delle materie prime.

Vediamo brevemente un esempio del meccanismo che provoca l’inflazione da costi. Quando i lavoratori chiedono e ottengono un determinato aumento dei salari, se le imprese – utilizzando il progresso tecnico o introducendo dei miglioramenti di carattere organizzativo – riescono ad aumentare la produttività nella misura corrispondente all’aumento dei salari, esse non devono sopportare alcun incremento dei costi: l’aumento dei salari viene compensato dall’aumento della produttività. Se, invece, l’incremento salariale non viene assorbito dal contemporaneo incremento della produttività, nasce un movimento inflazionistico. Le imprese pagano una parte di salario in più che non viene compensata da un corrispondente incremento della produttività; il costo di produzione, di conseguenza, cresce per l’incremento del costo del fattore lavoro; in tale situazione, le imprese reagiscono e recuperano il maggior costo attraverso l’aumento dei prezzi di vendita.

Dentro una spirale infinita

L’incremento dei prezzi, a sua volta, rende inutile l’aumento dei salari appena ricevuto. I lavoratori allora chiederanno un nuovo incremento dei salari che, ancora una volta, si tradurrà in un incremento dei prezzi; e così di seguito. In questo modo si realizza un movimento inflazionistico che agisce attraverso la cosiddetta spirale salari-prezzi-salari. Bisogna ricordare, peraltro, che la possibilità di alzare i prezzi dipende dalla forma di mercato in cui le imprese operano: in regime di concorrenza perfetta, i prezzi sono dettati dal mercato e pertanto non possono essere aumentati; in caso di oligopolio e di monopolio, invece, le imprese sono in grado di aumentare i prezzi di vendita.

Va anche notato che l’inflazione da costi può andare avanti soltanto se le autorità monetarie la finanziano, facendo crescere senza precisi limiti la quantità di moneta in circolazione (secondo i monetaristi, questo errore è stato commesso troppe volte): dato che per pagare gli aumenti dei salari le imprese devono possedere una maggiore quantità di liquidità, se le autorità monetarie non aumentano la circolazione monetaria l’inflazione da costi non può verificarsi: le imprese a corto di liquidità, per esempio, sarebbero costrette a non concedere facilmente i richiesti incrementi salariali.

Inflazione importata

Un’altra forma di inflazione, anch’essa collegata all’incremento dei costi, è costituita dall’inflazione importata, che riguarda in modo particolare gli Stati importatori di materie prime: per il sistema economico italiano, che trasforma le materie prime importate in prodotti finiti, un aumento dei prezzi internazionali (per esempio del petrolio, del carbone, del legname, del rame ecc.) si traduce in inflazione da costi.

Alla teoria dell’inflazione da costi si può affiancare la spiegazione marxista dell’inflazione, almeno per la sua contrapposizione alla teoria basata sull’eccedenza della domanda. Secondo il pensiero marxista, l’inflazione nasce dalla lotta di classe, e più precisamente dalla lotta fra capitalisti e lavoratori per la distribuzione del reddito: la richiesta di aumenti salariali non è sufficiente a qualificare l’inflazione come inflazione da costi, poiché il conseguente aumento dei prezzi attuato dai capitalisti non è altro che una contromossa tendente a impedire la cessione di una quota di reddito alla classe lavoratrice.

Quali rimedi si possono adottare contro l’inflazione?

Premesso che l’inflazione, quando attecchisce, diventa un nemico molto difficile da sconfiggere, esaminiamo ora le possibili terapie contro di essa, cioè le politiche economiche antinflazionistiche.

  • 1) Inflazione da domanda.

Nella teoria keynesiana l’inflazione è determinata dall’eccesso della domanda globale sulla produzione massima possibile (offerta globale), in una situazione di piena occupazione. Partendo da questa premessa, l’inflazione da domanda si combatte attraverso un’azione tendente a ridurre la domanda globale (composta dai seguenti elementi: consumi privati, investimenti privati, spesa pubblica). Tale azione, secondo i keynesiani, si effettua associando la politica fiscale con la politica monetaria: per esempio, un intervento di politica fiscale (aumento del prelievo fiscale o diminuzione della spesa pubblica), che determina una contrazione dei consumi, può essere accompagnato da una politica monetaria restrittiva (aumento del tasso ufficiale di sconto), che determina una riduzione degli investimenti: in tal modo, limitando i consumi e ponendo un freno agli investimenti, si riduce la domanda globale.

La posizione dei monetaristi

Diversa è la terapia dei monetaristi. Essi – che come già abbiamo accennato attribuiscono l’inflazione da domanda all’aumento eccessivo della quantità di moneta – propongono di espandere l’offerta di moneta a un ritmo costante (a un tasso, per esempio, del 3% o del 4%), collegato al ritmo di incremento del reddito reale.

Secondo la dottrina monetarista, l’applicazione di questa regola determina una situazione di inflazione contenuta e prevista: in tale contesto, gli operatori economici adottano un comportamento capace di neutralizzare gli effetti dell’inflazione (se, in assenza dell’inflazione, il tasso d’interesse è poniamo del 5%, in caso d’inflazione prevista del 3% circa il tasso d’interesse nominale richiesto dai creditori, e conosciuto dai debitori, sarà: 5% + 3% = 8%).

In caso di inflazione imprevista (che si ha quando le autorità monetarie elevano all’improvviso il tasso d’incremento della quantità di moneta), invece, gli operatori economici, sprovvisti di punti di riferimento, non riescono a premunirsi e di conseguenza reagiscono in maniera scorretta sulla domanda globale, sulla produzione e sull’occupazione.

Il pensiero di Friedman

Secondo Friedman, in fin dei conti, l’inflazione non è prodotta dai sindacati, né dagli imprenditori oligopolistici, ma essa è un fenomeno monetario che «sorge da un incremento della quantità di moneta più rapido dell’incremento della produzione (per quanto, naturalmente, le ragioni dell’incremento monetario possano essere varie)» (Milton & Rose Friedman, Free to Choose, trad. it. Liberi di scegliere, Longanesi & C., Milano 1981, p. 282). Si può dire, pertanto, che Friedman non ammette l’inflazione da costi.

Bisogna rilevare, peraltro, che l’applicazione della “regola semplice” dei monetaristi (l’offerta di moneta deve aumentare a un tasso costante) sottintente la riabilitazione del concetto secondo cui il sistema economico tende spontaneamente all’equilibrio: di conseguenza, ogni intervento di politica economica risulta dannoso. Le politiche keynesiane in particolare, secondo i monetaristi, possono avere qualche successo soltanto nel breve periodo; alla lunga, invece, esse accelerano l’inflazione e non riescono a ridurre la disoccupazione. Per i monetaristi, infatti, la piena occupazione del fattore lavoro non è raggiungibile, perché in ogni sistema economico esisterebbe un tasso di disoccupazione naturale (variabile nel tempo, ma non eliminabile) causato dalle imperfezioni del mercato del lavoro (scarsa mobilità del fattore lavoro; scarsa diffusione delle informazioni relative alle offerte di lavoro; “eccesso” di assistenza ai disoccupati ecc.). La disoccupazione pertanto potrebbe essere mantenuta al di sotto del livello naturale, con politiche keynesiane, soltanto a prezzo di accelerare l’inflazione.

  • 2) Inflazione da costi

L’aumento dei salari e l’aumento del prezzo delle materie prime, aumenti che sui prezzi di vendita dei prodotti, sono la causa dell’inflazione da costi. Essa, pertanto, si combatte adottando misure tendenti a frenare l’incremento dei costi di produzione.

  • 3) Inflazione importata

È molto difficile da combattere, perché il grado di interscambio scambio con l’estero dei Paesi industrializzati è molto elevato.

La politica dei redditi

Non può mancare infine, in tema di inflazione, un cenno alla politica dei redditi. I fondamentali obiettivi della politica economica sono costituiti dalla stabilità monetaria, dalla piena occupazione dei lavoratori e dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti (tra un Paese e il resto del mondo).

Esiste nella realtà una certa incompatibilità tra piena occupazione e stabilità dei prezzi (o stabilità monetaria). Alcuni economisti, fautori della teoria secondo cui l’inflazione deriva dall’incremento dei costi, sostengono che questa si sviluppa attraverso la seguente successione di fenomeni: salari crescenti, costi crescenti, prezzi crescenti. Inoltre, l’aumento delle paghe dei lavoratori, oltre a provocare la crescita dei prezzi, può rendere le imprese non più competitive sui mercati esteri: le esportazioni in tal caso tenderanno a diminuire, perché i prezzi sono troppo elevati rispetto a quelli praticati dalle imprese estere concorrenti sui mercati internazionali. Un incremento dei salari dunque, attraverso la sequenza descritta, può creare difficoltà alla bilancia dei pagamenti. Questo fatto, quantunque il discorso sia di carattere elementare, mostra la stretta connessione tra i diversi obiettivi della politica economica di un Paese.

Le controindicazioni

Partendo da tale premessa, si può comprendere il significato della politica dei redditi. Essa, in sostanza, è un provvedimento proposto soprattutto dai keynesiani per frenare l’inflazione da costi e, nel contempo, per dare alle imprese la possibilità di recuperare in competitività sui mercati internazionali: il controllo di tutti i redditi (che rappresentano i costi) – si sostiene – dovrebbe impedire ingiustificati aumenti dei costi. Nella realtà, data la difficoltà di controllare tutti i tipi di reddito, la politica dei redditi è stata basata (nelle esperienze, non positive, effettuate in Olanda, in Inghilterra e negli Stati Uniti) prevalentemente sulla seguente regola: il tasso d’incremento annuo del costo del lavoro dev’essere uguale al tasso d’incremento annuo della produttività del lavoro.

Secondo i monetaristi, la politica dei redditi e dei prezzi non è accettabile perché, sottraendo la determinazione delle quote di reddito ai meccanismi del mercato e modificando arbitrariamente i prezzi, provoca sull’allocazione delle risorse effetti dannosi superiori ai presunti benefici derivanti dal controllo dell’inflazione.