A distanza di più di cinque mesi continuano in Iran le manifestazioni originate dalla cosiddetta “rivolta del velo”. Le relative notizie non hanno più negli organi di stampa una posizione di primo piano, che invece ora purtroppo è occupata dalle gravi e pericolose evoluzioni delle vicende belliche in Ucraina. In ambito storico e geopolitico convenzionalmente i termini “rivolta” e “rivoluzione” non coincidono, ma indicano fattispecie diverse per intensità e per estensione. Entrambi i vocaboli si riferiscono a sollevazioni popolari contro un ordine costituito, generalmente lo Stato o specifiche istituzioni.

Rivolta o rivoluzione?

La “rivolta” è un moto spontaneo con obiettivi circoscritti; può conseguire risultati apprezzabili ma raramente approda a cambiamenti stabili e radicali. Per questo suo carattere precario e irrazionale e per l’assenza di una precisa strategia, spesso la rivolta ha come esito una cruenta repressione. Al contrario la “rivoluzione” quasi sempre ha un carattere generale e un preciso progetto: può approdare a un rovesciamento dell’assetto politico e sociale e a una sua stabile e rapida sostituzione. Le rivolte possono anche subire evoluzioni, organizzarsi e divenire prodromiche a rivoluzioni.

Alla luce di quanto detto, come considerare le drammatiche recenti turbolenze in Iran? I disordini iniziali hanno avuto indubbiamente i caratteri della rivolta. La sanguinaria repressione – attuata dalla Polizia Morale1 nella raccapricciante e pretestuosa convinzione che lo spargimento di sangue degli oppositori sia halal2, cioè consentito dal Corano (come precisò la scrittrice Shirin Ebadi riferendosi a pregresse analoghe situazioni)3 – ha avuto come effetto quello di trasformare l’iniziale ribellione delle donne in una generale richiesta di democrazia4. Studenti, lavoratori, uomini e donne protestano nelle piazze sollecitando riforme economiche e sociali; resistono a una dura e feroce repressione, agli arresti, alla brutale e impietosa esecuzione di condanne all’impiccagione. Il regime – convinto che le proteste in corso nel Paese siano fomentate da ingerenze straniere, soprattutto da parte di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita – continua a essere in difficoltà. Gli esiti di questa drammatica situazione sono ancora imprevedibili. Paradossalmente le fasi e l’evoluzione dei tumulti hanno molti punti in comune con quei disordini che, strutturandosi, hanno favorito la Rivoluzione islamica del ’79, che portò al potere l’attuale Regime. La dura reazione delle forze dell’ordine non riesce a fermare le proteste, che si sono trasformate in una sfida aperta. Queste turbative pertanto potrebbero essere prodromiche a una rivoluzione.

Repressione e apertura

Le contestazioni sono sempre più inclusive: dalle donne si sono estese agli uomini e ai giovani. Lo sdegno è generale e incontenibile. La rivolta è trasversale, va oltre la questione del velo5. La rivista americana indipendente The Atlantic già a fine settembre (2022) aveva scritto che «in piazza i ricchi residenti dei quartieri nord di Teheran si sono ritrovati fianco a fianco con i poveri del lato sud della città, alle proteste partecipano gli abitanti delle grandi città come quelli dei centri di provincia». Le manifestazioni ormai si sono estese in tutto il Paese, coinvolgendo almeno centosessanta città. Il regime cerca di arginare il dissenso adottando una doppia e apparentemente contraddittoria strategia: repressione e nello stesso tempo una cauta apertura, attuata liberando anche attivisti e manifestanti in occasione dell’amnistia disposta per celebrare il 44° anniversario della rivoluzione islamica. Secondo l’agenzia di stampa iraniana per i diritti umani Hrana6, dall’inizio dei disordini (seconda metà di settembre 2022), avrebbero perso la vita più di cinquecento manifestanti, mentre 19 mila circa sono stati gli arrestati. Durante le proteste sarebbero stati uccisi più di settanta bambini, di cui uno soffocato dai lacrimogeni. La magistratura iraniana è sempre più intransigente e oltranzista: a febbraio ha dichiarato di aver emesso una decina di condanne a morte, mentre per gli attivisti le pene capitali irrogate sarebbero almeno il doppio. Alcune sentenze di condanna sono state rapidamente eseguite e motivate con la formale imputazione di “inimicizia contro Dio” (moharebeh). Il moharebeh è una fattispecie prevista dall’articolo 279 del Codice Penale islamico, che «punisce chi usi un’arma contro la vita, la proprietà o la castità delle persone o provochi terrore che crei un’atmosfera di insicurezza». Per il suo contenuto eccezionalmente vago e generico, questo reato è uno strumento molto usato dal regime iraniano, che lo interpreta in modo arbitrario per attribuirle il contenuto repressivo più conveniente per mantenere il controllo della popolazione e per contrastare condotte pericolose per la stabilità politica.

Un limite al successo della protesta è l’assenza di una leadership. Tuttavia questa caratteristica potrebbe tradursi in un vantaggio: una ribellione acefala in concreto è più difficile da sedare (il suo carattere diffuso infatti non facilita il successo di iniziative di contrasto mirate, come ad esempio l’arresto o l’eliminazione del leader).

La sirianizzazione dell’Iran

L’incertezza degli esiti del conflitto fra libertà e oppressione, l’irreversibilità della contrapposizione fra autorità e manifestanti, l’assenza al momento di prospettive di pacificazione, aprono anche la possibilità di una sirianizzazione dell’Iran. In proposito è oggetto di propaganda governativa la tesi che esplicitamente sostiene che le proteste sarebbero state istigate da agenti stranieri al fine di sovvertire l’ordine pubblico, nonché per favorire atti di violenza e vandalismo e per provocare rivolte. Questa situazione di precarietà ha risvegliato anche le velleità terroristiche di gruppi fondamentalisti. Il 26 ottobre 2022 quindici pellegrini sono stati uccisi in un attacco terroristico al Santuario sciita di Shiraz, nell’Iran sud-centrale, che è stato compiuto da armati takfiri7 secondo la Mehr News Agency, l’agenzia governativa di informazione; l’attentato è stato rivendicato dall’Isis. Rispetto alla Siria tuttavia l’Iran è un Paese molto più strutturato e dalle istituzioni più solide; sembra pertanto improbabile che il drammatico contesto siriano possa ripetersi in Iran. Gli iraniani inoltre sono un popolo con una maggiore compattezza.

Come è avvenuto durante la Primavera Araba, le sollevazioni non criticano l’Islam, ma una sua errata interpretazione, che sarebbe responsabile delle derive violente delle teocrazie islamiche. Per il momento sembra che la comunità internazionale voglia prudentemente evitare di assumere atteggiamenti di concreta solidarizzazione con i manifestanti. Iniziative di questo tipo potrebbero essere considerate a livello governativo ingerenze negli affari interni e determinare come reazione un inasprimento della repressione.

La situazione dei cristiani

Le proteste in atto da settembre dopo la morte di Mahsa Amini (16 settembre 2022), vittima del presunto8 feroce pestaggio della Polizia Morale per non aver indossato correttamente l’hijab, suscitano forti e fondati timori in tutti i gruppi etnici e religiosi del Paese. I cristiani che vivono in Iran – che già in tempi normali sono vittime di arresti arbitrari, detenzioni e aggressioni da parte della polizia, che reprime le cerimonie relative alle confessioni religiose diverse dall’Islam in quanto ritenute crimini contro la sicurezza nazionale – hanno motivo per solidarizzare con i manifestanti. Le loro celebrazioni religiose sono vietate. Sono altresì vigenti limitazioni alla costruzione e al restauro delle chiese ed è perseguita la detenzione “ingiustificata” di Bibbie. Particolarmente precarie sono la libertà, l’integrità fisica e persino la vita, dei convertiti dall’Islam al Cristianesimo; questi “neocristiani” possono essere accusati di apostasia e subire come sanzione anche la pena capitale. Spesso le istituzioni dei Paesi occidentali, oltre ad affermazioni di facciata, in virtù di una malintesa ed opportunistica laicità ed equidistanza dalle religioni, evitano in concreto iniziative di supporto a chi si oppone alle violazioni della libertà di culto nelle teocrazie islamiche come quella iraniana. Paradigmatico in proposito è il caso di Ata Fathimaharloei e di sua moglie Somayeh Hajifoghaha, una coppia di iraniani convertiti al Cristianesimo e per questo minacciati di morte in Iran. Ata e Somayeh quest’anno, per la quarta volta in cinque anni, hanno avuto rigettata la loro richiesta di asilo dalle competenti autorità francesi. Il motivo del rifiuto sarebbe la mancata e adeguata certificazione della sincerità della conversione, ritenuta presuntivamente una conversione di comodo. Ata e Somayeh, assieme ai due figli Moein e Daniel, erano arrivati in Francia nel 2018, costretti a scappare dall’Iran in quanto minacciati dopo che le autorità avevano scoperto che Ata frequentava una chiesa cristiana. Ata è considerato dai mullah come un apostata, mentre la moglie è accusata di essere un’adultera. Entrambi, nel caso in cui fossero costretti a tornare in Iran a causa dell’ostinazione della Francia a non accettare la loro richiesta d’asilo, rischiano pene gravissime e nel peggiore dei casi la condanna a morte. Dal secondo rifiuto della domanda di asilo non ricevono più sovvenzioni dallo Stato, e pertanto il loro nucleo familiare ha serie difficoltà economiche9. Purtroppo in Iran ci sono molte storie simili a questa. Indubbiamente il criterio della sincerità della conversione è difficile da verificare.

E l’Occidente?

Non si può escludere che i Paesi occidentali, con esercizi di neutrale e passiva laicità, vogliano in concreto evitare iniziative di supporto ai manifestanti che possano essere qualificate come islamofobe (in quanto contrarie alla Repubblica Islamica) o in ogni caso fonti di effetti negativi.

Il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar10 sulle pagine di Le Monde, dopo aver precisato che la rivolta in Iran si è progressivamente trasformata in un’insubordinazione totale, afferma che la società iraniana è sempre più insofferente nei confronti della teocrazia islamica.

Si tratterebbe di un sistema che ha fallito ovunque: nell’ecologia, in termini di sviluppo del Paese, nello stabilire un rapporto pacifico con il resto del mondo e anche in termini di giustizia (perché i ricchi del regime hanno monopolizzato i beni sociali).

L’Iran sarebbe diventato uno Stato caratterizzato da una repressione generalizzata, che non esita ad uccidere i suoi cittadini11.

1 In Iran la Polizia Morale (Gasht-e-Ershad, istituita nel 2005) è una forza di polizia che è responsabile di vigilare sull’osservanza dei precetti islamici e delle relative norme di comportamento.

2 Più precisamente nella religione islamica, con l’aggettivo halal si intende ciò che è conforme ai precetti islamici. Con il termine haram si intende invece ciò che è proibito.

3 Shirin Ebadi, Azadeh Moaveni, Il mio Iran, Sperling & Kupfer, Milano 2007. «Shirin Ebadi, l’avvocatessa iraniana premio Nobel per la pace (2003 ndr), ripercorre in questo libro le tappe principali della sua vita professionale e privata. Un cammino profondamente segnato dalle sue nobili battaglie per difendere i diritti dei più deboli, al punto da essere condannata a morte dal regime di Teheran. Ma Shirin non ha mai rinunciato ai suoi ideali e ha continuato a lottare per i bambini maltrattati, per le madri che chiedono giustizia per i figli destinati alla pena capitale dopo un processo sommario, per le mogli ostaggio di mariti violenti. In una società dove per legge la vita di una donna vale la metà di quella di un uomo, la voce vibrante dell’autrice dimostra come si possa diventare padrone del proprio destino e sovvertire lo status quo. Un’autobiografia appassionante e coraggiosa, che offre un contributo prezioso al controverso dialogo tra mondo musulmano e Occidente». (dal sito della casa editrice: https://www.sperling.it/)

4 Già il 10 marzo 1979 le donne iraniane manifestarono per la prima volta lungo le strade di Teheran contro i nuovi governanti della Repubblica islamica al grido di: “La libertà non è né occidentale né orientale, è universale!” chiedendo il ritiro della norma sul velo obbligatorio. Dopo le proteste, conclusesi il 14 marzo di quell’anno, la disposizione venne ritirata.

Khomeini allora affermò semplicemente che le donne avrebbero dovuto mantenere un abbigliamento modesto.

5 In Iran il velo è diventato stabilmente obbligatorio dal 1983, anno in cui il regime instauratosi dopo la Rivoluzione del 1979 approvò una legge al riguardo. Nel corso degli anni successivi furono introdotte altre norme, anche molto restrittive, per imporre il rispetto delle sanzioni in caso di violazione della prescrizione: nei casi più gravi è prevista l’incarcerazione.

6 Human Rights Activists News Agency.

7 Le Autorità iraniane sciite definiscono takfiri, cioè miscredenti, i gruppi islamici sunniti armati.

8 La polizia sostiene che il decesso è avvenuto per un imprevisto malore.

9 Le informazioni sulle vicende della coppia Ata Fathimaharloei e di sua moglie Somayeh Hajifoghaha sono tratte dal sito Tempi.it

10 Farhad Khosrokhavar (Teheran, 21 marzo 1948) è un sociologo iraniano. Dal 1998 è direttore di ricerca dell’Ehess, l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. I suoi interessi di ricerca comprendono la sociologia politica, la sociologia della religione, l’Islam contemporaneo e l’Iran.

11 L’articolo Farhad Khosrokhavar, sociologue: Le mouvement des femmes s’est désormais transformé en une insoumission généralisée è stato pubblicato online il 2 novembre 2022.