Ugo Finetti, giornalista, in Rai dal 1978 al 2008, è stato caporedattore e responsabile di programmi televisivi e radiofonici in particolare sui Paesi dell’Unione europea; direttore di Critica Sociale, vicepresidente del Centro Studi «Grande Milano» e presidente dell’Isap dal 2011 al 2014. Tra i suoi libri: La resistenza cancellata (Ares, 2003), Togliatti-Amendola (Ares, 2008), Botteghe oscure (Ares, 2016) e Storia di Craxi (Boroli, 2009).

Il ricordo di Cesare Cavalleri è quello di un uomo che ci ha voluto bene. In ogni momento passato in sua compagnia si sentiva l’eco delle parole evangeliche: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» e «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ancora in uno degli ultimi suoi commenti al Vangelo a un ristretto gruppo di amici, a fine ottobre scorso, sottolineava come “seguire Gesù” andava fatto secondo un cammino razionale evitando sia un superficiale “entusiasmo” sia la tiepida “routine”. Allo stesso modo voleva bene a ognuno di noi, a ognuno che incontrava rendendosi conto delle problematicità e delle criticità, senza semplificare, ma con attenzione a far ritrovare – anche passando attraverso il dolore – gioia, fede e speranza. Sapeva sdrammatizzare e infondere coraggio.

A ciò si aggiunge il pensiero di quanto tempo ci ha dedicato. Uno dei suoi primi insegnamenti è il valore del tempo che quando si è giovani si può trascurare. Ma il tempo – esortava – è quanto abbiamo di più prezioso. Sono i nostri “talenti” e quindi: non perdere tempo e non farlo perdere. La puntualità lo caratterizzava. Insieme colpiva quel che spesso è definito come la sua “signorilità”. Sin dall’inizio mi intrigavano i suoi gesti: l’attenzione nello sfogliare un libro o, persino, nell’aprire una porta. Man mano, conoscendolo, mi è sembrato di capire che era il suo modo di vivere l’esistenza come un “dono” da tutelare e quindi il rifiuto della sciatteria o, appunto, della routine: non ci sono piccole o grandi cose, ma cose fatte bene o fatte male.

Al tempo stesso questo “spessore” anche delle piccole cose e della vita quotidiana era accompagnato da parole di grande ironia e autoironia. Da qui quelle che sono le sue pagine come critico particolarmente affascinanti: le stroncature. La stroncatura in Cavalleri diventa un autentico genere letterario: l’autore è desti­tui­to come artista ed è il critico che diventa un artista. Un esempio eloquente è il caso di quanto scrisse su Umberto Eco. Bisogna appunto avere gli argomenti e la capacità di esporli in modo fulminante e veritiero. Ed è questo quel che era centrale in ogni sua discussione: il primato della verità.

Quando, circa vent’anni fa, mi esortò a scrivere La Resistenza cancellata rivisitando criticamente come veniva raccontata nei principali libri di testo di scuole e università, tenne a sottolinearmi che dovevo fare una ricerca veritiera e non secondo una “sceneggiatura di ferro” per dimostrare una tesi precostituita. Nessuna tesi precostituita può sconfiggere la realtà: omettere, strumentalizzare, falsificare significa – citando il Vangelo – edificare sulla sabbia e non sulla roccia.

Nel discutere l’impostazione della ricerca, il punto di partenza era che nel tanto parlare di Resistenza in realtà gli studenti, per la quasi totalità, ignoravano chi ne fossero stati i capi: il comandante generale delle brigate partigiane e il “vero” presidente del Cln dell’Alta Italia: il generale Raffaele Cadorna e il liberale Alfredo Pizzoni. All’epoca, per esempio, erano del tutto sconosciute personalità come il colonnello Montezemolo, il capo militare della lotta clandestina romana poi ucciso alle Fosse Ardeatine.

Il libro ebbe un certo successo anche perché uscito in coincidenza con l’attenzione polemica sull’argomento suscitata da quello di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti. Ma a Cavalleri quel che più interessava non era rivelare episodi che potessero “screditare” la Resistenza, ma soprattutto mettere in luce la verità contestando cioè le ricostruzioni prevalenti che “cancellavano” il ruolo fondamentale svolto dalle formazioni militari e dalle brigate non di estrema sinistra.

Il primato della verità si traduceva anche in grande “curiosità”: disponibilità e interesse per aree e figure non cattoliche. Basti pensare a come guardò con attenzione positiva nella sua critica letteraria al “Gruppo ’63” o a Ennio Flaiano. Ricordava spesso come san Josemaría Escrivá fosse critico verso la testata così perentoria, Studi Cattolici, che poteva sembrare “integralista”.

Negli incontri che organizzava nella storica sede in via Stradivari, infatti, coinvolse numerosi oratori non cattolici e fu così che alcuni come Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, da allora prese – come egli si espresse – a “frequentare” la figura del fondatore dell’Opus Dei. Cavalleri aveva stabilito con lui un rapporto umano e culturale molto forte, che si tradusse anche in libri Ares e articoli per Studi cattolici.

A sua volta Cesare non nascondeva fragilità che ci sorprendevano come la sua commozione recitando testi letterari, per esempio, Il libro della passione di José M. Ibánez Langlois che venne musicato, su suo impulso, dal giovane compositore Gianmario Liuni.

Verità e umanità apparivano come sue grandi coordinate. Negli ultimi incontri mi premeva il pensiero dell’attenzione che aveva dedicato a ognuno di noi. Parlammo delle riflessioni di papa Francesco – citate da Carlo De Marchi, il figlio del nostro amatissimo Paolo, nel suo recente libro Fammi innamorare della mia vita – dedicate alla “stanchezza della gente” come quella provata dagli apostoli. Mi sembrava uno dei suoi fardelli che appunto Cesare sopportava come “il pastore con l’odore delle pecore” e “il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini”.

Non vorrei però ricordare un Cavalleri troppo buonista. Era anche grintoso. Una volta, a esempio, gli chiesero la cortesia di inviare la copia di un mio libro a uno storico. Prendendo nota dell’indirizzo che gli dettavo commentò: «Un farabutto». Si trattava di un accademico che insisteva nell’attaccare alcuni santi. Lo disse però senza animosità. C’era un velo di misericordiosa ironia: non un insulto, ma l’evocazione di una eterna maschera della commedia italiana. Conoscendo la sua passione per Maria Callas, con Benito Perrone, vicepresidente dell’Unione giuristi cattolici italiani e direttore della rivista Iustitia, insieme alle nostre mogli e ad altre coppie di amici organizzammo un incontro conviviale che fosse occasione di una sua lectio. C’erano anche audio e video. Cesare però, in sostanza, più che alla voce sembrò che si appassionasse ai dolori e alle illusioni della cantante, a quanto – oltre al successo e alle qualità che aveva – aveva sofferto. Anche lei era una persona a cui aveva voluto bene.

Cesare Cavalleri per me è stato un maestro, soprattutto nel senso di una guida. Un maestro insegna e traccia un cammino che può essere fatto anche senza di lui. Se è una guida è diverso: aiuta e accompagna. Senza di lui non ci sono più ascensioni e scampagnate. La sua mancanza ci rende più soli: ci priva di una sicurezza e di un piacere. Maestro lo è certo stato nelle ultime settimane. Era in vista del “grande salto”. Quando a letto riponeva il rosario in una custodia e accennando un sorriso sussurrava: «Aspetto».