L’ambientazione di un semplice pranzo domenicale diventa il palcoscenico di una riflessione profonda, dove la quotidianità si fonde con l’ineluttabilità dell’esistenza. La morte, ovvero il pranzo della domenica di Mariano Dammacco è un’opera teatrale che esplora con delicata intensità il fluire del tempo e la consapevolezza della fine, affrontando i temi universali della morte, della memoria e del legame familiare. Il tutto è trattato con una scrittura sobria, ma estremamente potente, capace di evocare emozioni complesse senza mai scivolare nel melodramma.
Al centro della narrazione c’è una donna matura, interpretata magistralmente da Serena Balivo, che ogni domenica si reca dai genitori anziani per condividere un pasto. C’è la necessità di non fare tardi, per evitare di farli preoccupare. Ci sono i pasticcini mignon da comprare, sempre gli stessi: tre bignè, tre cannoli, due veneziane. C’è il parcheggio da trovare proprio davanti alla palazzina dei genitori, per raccoglierne il saluto quando arriverà il momento della partenza. Prima che la porta si spalanchi e il papà accolga la figlia con la gioia di sempre. C’è il primo di pasta, il secondo di carne, preceduto da una “cofanata” di patatine fritte.
Questo rituale semplice diventa una metafora della resistenza alla morte. Non si tratta solo di un pranzo: è un atto simbolico, che porta con sé l’intensità dei ricordi e dei legami familiari. La performance stralunata di Balivo è un capolavoro di empatia e leggerezza, capace di esprimere la nostalgia e il dolore con il minimo movimento, conferendo al suo personaggio una profondità straordinaria.
Il monologo è una danza lenta e riflessiva. Ogni gesto, ogni parola, sono pesati con cura. La figura di questa donna dai capelli ricci corti e brizzolati, curva sul tramonto – suo, dei genitori, come la canzone di De Gregori – appare sospesa nel tempo, tra il passato che la pervade e il futuro che si fa sempre più vicino. L’interpretazione mantiene una dimensione leggera: il tempo che scivola via è solo il preludio a un nuovo inizio. La morte, in questo contesto, non è vista come un evento tragico, ma come una compagna silenziosa e inevitabile, che si fa sentire in ogni piccolo gesto quotidiano.
La scenografia contribuisce efficacemente a questo senso di sospensione temporale. Il palco è spoglio ma simbolico: un tavolino rettangolare a ridosso della tenda, con tre bicchieri e una bottiglia. Il rettangolo diventa triangolo: tre posti a tavola, sostanzialmente vuoti. La presenza di una sola sedia potrebbe alludere a un futuro che è già passato, a un tramonto che è già oriente. L’elemento del numero tre richiama la famiglia che sta lentamente separandosi. Un senso di ambiguità pervade il monologo, che non chiarisce in quale arco temporale si svolga la vicenda. I tendaggi chiari, contrapposti al nero dell’abito della protagonista, si illuminano delicatamente di vari colori, evocando l’idea di un tempo che si piega su se stesso, tra presente e passato. Il gioco di luci amplifica l’atmosfera di transizione e malinconia, diventando un altro linguaggio narrativo che, senza parole, dilata le emozioni dei personaggi, creando una dimensione in cui l’attimo sembra fermarsi.
La morte permea la pièce. Non si manifesta come un evento clamoroso, ma emerge nei rari silenzi, nei gesti non pronunciati, nei ricordi che riaffiorano nel discorrere quotidiano in solitaria. È il centro dei dialoghi intimi di una figlia con i genitori: i necrologi letti dal papà, i sospiri della mamma che riflette sul fatto che molte delle persone defunte siano più giovani di lei. Ogni nome è un ricordo, ogni ricordo un sorriso, e insieme una staffilata. La morte è un passaggio continuo, che si intreccia con la routine e il movimento perpetuo della vita.
Il monologo invita lo spettatore ad accogliere la finitudine senza paura, come una parte naturale della vita, proprio come accogliamo ogni domenica un altro pranzo. In questo gioco entra anche l’ironia, che esorcizza la paura, con battutine macabre e piccole scaramanzie.
La musica di Marcello Gori accompagna con grazia ogni scena. Le melodie delicate, malinconiche, nostalgiche, si intrecciano con il silenzio, creando una sensazione di sospensione che amplifica gli stati d’animo del personaggio reale e di quelli evocati, senza mai invadere la scena. La musica diventa respiro, eco di un tempo labile.
Il testo di Dammacco è un equilibrio perfetto tra delicatezza e profondità. Il pranzo domenicale, nell’apparente monotonia, diventa un’occasione di riflessione sul legame familiare e sulla perdita, su ciò che resta e su ciò che fluisce nel passare del tempo. L’autore punta su una scrittura essenziale (finalista all’ultimo Premio Ubu come nuovo testo italiano), ma evocativa, che trasforma la ripetizione del quotidiano in un inno alla vita.
Un altro aspetto affascinante è l’ironia che pervade il monologo. Balivo mescola comicità e malinconia, creando un contrappunto che dona umanità al personaggio. La figlia esorcizza la separazione imminente, affrontando la morte con un sorriso. La sua ironia non è mai forzata, ma piuttosto una strategia per affrontare il dolore con leggerezza, creando una connessione profonda con il pubblico.
L’interpretazione di Serena Balivo è impeccabile. Ogni parola, ogni movimento, è perfettamente calibrato. L’attrice, intrecciando in modo schizofrenico ricordi e proiezioni, esprime in modo straordinario il passaggio tra memoria e abbandono, tra il legame che resiste e quello che inevitabilmente svanisce. La sua performance non è solo un omaggio all’amore filiale, ma anche alla bellezza della vita che si consuma come una candela, ma che non smette mai di brillare attraverso il ricordo.
La conclusione della pièce lascia spazio a una riflessione sulla speranza: un barlume di salvezza che non si limita alla memoria, ma suggerisce l’esistenza di una vita oltre la morte. La fine è un passaggio che continua a perpetuarsi nel tempo, come un ciclo che non smette di ripetersi, che si fa memoria e promessa.
In un contesto che potrebbe sembrare un’esplorazione privata e intima, il monologo riesce ad allargare il suo messaggio a un’esperienza collettiva. Per chi ha vissuto il rito del pranzo domenicale con i genitori anziani, l’opera diventa una riflessione profonda sulla perdita, ma anche sul valore dei legami familiari e sull’importanza di ciò che rimane nel tempo che scorre. La morte, quindi, non è solo separazione, ma una rivelazione di ciò che conta davvero: l’amore, i legami e la bellezza di un tempo che passa, ma che continua a vivere nei ricordi e nel cuore.
Questo gioiellino di un’ora, che abbiamo apprezzato al Teatro Elfo Puccini di Milano, è una riflessione teatrale che tocca profondamente l’anima dello spettatore, lasciando un senso di dolceamara bellezza. Come un abbraccio che sa di addio, ma che non smette mai di essere amore.

La scenografi spoglia: il tavolo a ridosso della tenda, tre bicchieri e una sedia. Foto di Angelo Maggio