Pubblichiamo l’intervento di Luciano Violante, Presidente della fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine, durante la serata di presentazione del libro di Ugo Borghello I cattolici nella vita pubblica (pp. 164, euro 14). L’evento si è svolto lo scorso 13 settembre presso la Sala Leo De Berardinis del teatro Arena del Sole. L’incontro, promosso dal gruppo Bpm, è stato introdotto dall’avvocato Giorgio Spallone e da Stefano Bolis, responsabile direzione Emilia Adriatica Banco Bpm; è intervenuto il card. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente conferenza episcopale italiana, con un videomessaggio. Il prof. Paolo Biavanti ha introdotto e moderato la presentazione.

La condizione umana appare oggi contrassegnata dalla forza della morte e dalla debolezza della vita. La morte si presenta come ragionevole alternativa alla vita, anche fuori dei casi di gravi intollerabili patologie. Le guerre si diffondono a quasi tutte le latitudini ed è ormai difficile tenere il conto degli altri morti, quelli per esodo. Non è sufficiente essere contro la guerra e contro la morte. È troppo facile. Bisogna essere contro la guerra non perché siamo dalla parte di uno dei contendenti, ma perché siamo dalla parte della vita. Se non lo facessimo ci dimostreremmo incapaci di rinvenire il senso di ciò che manca alle nostre società.

La globalizzazione finanziaria, particolarmente invasiva nei paesi del benessere, conosce l’individuo e ignora la società; sottrae alle democrazie le risorse per l’uguaglianza e sottopone ogni ambito della vita al parametro della convenienza economica. L’individualismo svuota i doveri di solidarietà, mina la coesione sociale e la stessa etica del vivere insieme. Prevalgono le solitudini. Oggi siamo collettivamente soli, ha detto qualcuno. Nella solitudine fiorisce il dolore e diventa più difficile vivere. «Date parole al dolore» dice sir Malcolm, nel Macbeth, «il dolore che non parla sussurra al cuore sopraffatto e lo fa spezzare».

Percentuali impietose

Una ricerca svolta in Canada nel maggio 2023 (researchco.ca 2023/05/05) ha rilevato che il 28% dei cittadini canadesi consentirebbe la richiesta di suicidio assistito da parte di persone senza dimora. Il 27% consentirebbe la legalizzazione dell’accesso alla Maid (Medical Assistence in Dying), se l’unico motivo di afflizione fosse la “povertà”, senza alcuna malattia in corso. «In alcune parti del Canada è più facile accedere all’eutanasia che ottenere una sedia a rotelle»: lo ha detto il ministro canadese per l’Inclusione, Carla Qualtrough, citata in una ricerca dell’Università di Cambridge.

Il suicidio assistito è possibile in Canada per chiunque sia maggiorenne e abbia dichiarato di patire una sofferenza di qualsiasi tipo che ritiene soggettivamente insostenibile. Dalla sua legalizzazione, nel 2016, il numero di decessi per eutanasia in Canada è aumentato ogni anno. Nel 2019, il 2% di tutti i decessi in Canada è avvenuto per eutanasia e nel 2021 questa quota è salita al 3,3%. Alcune aree del Canada stanno attualmente segnalando tassi di mortalità superiori al 7%. Nel 2021, il Canada ha avuto 10.064 decessi, superando tutti gli altri paesi per decessi assistiti segnalati annualmente. A partire dal prossimo anno le regole canadesi potrebbero consentire la morte anche per persone la cui unica condizione sia la malattia mentale. Marie Gomas, autore di Fin de vie: peut-on choisir sa mort? riporta un altro studio canadese secondo il quale l’eutanasia farebbe bene ai conti pubblici: «Secondo la Canadian Medical Association, l’eutanasia potrebbe far risparmiare 139 milioni di dollari ogni anno». Favorire la morte diventa politica di bilancio.

Un’inchiesta del giornale olandese, Volkskrant, del 17 giugno 2023 rivela che ogni anno nei Paesi Bassi vengono eseguite 115 eutanasie relative a persone che “soffrono psicologicamente”. Theo Boer, scienziato componente della commissione belga per l’eutanasia, ha dichiarato al Figaro, 8 dicembre 2022, che nei Paesi Bassi si è passati dalle duemila eutanasie del 2002 alle diecimila di oggi. Nei Paesi Bassi, l’eutanasia è legalizzata dal 2002 per gli adulti e i bambini al di sopra del 12 anni. Il cosiddetto Groningen Protocol (settembre 2004) contiene quattro direttive per una active ending of life on infants: in presenza di sofferenze insopportabili e senza speranza di guarigione, con il consenso dei genitori, che sono i soli abilitati ad attivare la procedura, previo consulto medico, mediante esecuzione accurata della procedura.

Nello spazio privato, compreso il caso drammatico del suicidio assistito in caso di gravi patologie, la morte è individuale e la procedura è oggetto di specifici codici regolatori. Ma circolano incontrastate schegge di una cultura della morte spesso presentata in abiti compassionevoli o neoliberali. Nel 2020 sul profilo Facebook del presidente di una Regione, si definivano gli anziani: «Persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese, che vanno “però” tutelate». Nell’agosto 2021 un affermato giornalista ha scritto su un quotidiano nazionale a proposito del Covid: «Non capisco proprio perché per salvare dei settuagenari od ottuagenari, in genere affetti da due o tre gravi patologie, sia bloccata la vita di intere generazioni a cui il covid non poteva far nulla. Che muoia chi deve morire e smettiamola con questa tragica farsa».

Banalizzare il fine vita

Sui siti per ragazzi si trova di tutto. Dal “Fantamorto”, al “chocking game”, e decine di altre sigle che indicano tutti lo stesso genere di attività: soffocarsi, auto lesionarsi da soli o in compagnia, con le braccia o con corde, sciarpe, catene. Sino alla possibilità della morte.

Darsi la morte diventa un argomento ordinariamente ragionevole che si dipana tanto nella vita comune quanto nel gioco. Il rischio di queste posizioni è aprire la porta a nuove tragedie, determinate dalla immaturità del giovane, al quale nessuno ha spiegato il senso della vita, o dalla povertà dell’anziano. La percentuale degli ultra-ottantacinquenni raddoppierà nel 2050; il fabbisogno sanitario sarà di circa 7 miliardi. Già oggi il costo di una giornata di degenza in una struttura dedicata alle cure palliative è di circa 300 euro e quello di una giornata di ricovero in un ospedale pubblico è di circa 470 euro. Quale sarebbe il destino dei malati, vecchi e poveri in una società che invecchia, con una sanità costosa, dove la vita non sia il valore assolutamente prioritario e dove circoli la banalizzazione della morte?

Nello spazio privato, la morte è un fatto individuale. Nello spazio pubblico, invece esplodono le morti di massa. Da trent’anni siamo circondati da guerre: nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan, in Ucraina, nel Nagorno Karabakh, in decine di stati africani, in dittature, come l’Iran, che usano la pena di morte come strumento di controllo sociale. La guerra non distrugge solo le città; distrugge anche le vite, anzi è decisa per distruggere vite. Ma questa inevitabile conseguenza passa in secondo piano nella cronaca. Facciamo il conto dei missili e dei proiettili, delle case distrutte, delle fabbriche sventrate. Ma il conto dei morti dev’essere nascosto in qualche file criptato. Siamo di fronte alla consapevole trascuratezza di una mortalità, che non ha mai conosciuto in tempi moderni dimensioni così globali.

Alle guerre si aggiungono gli esodi. Generazioni intere fuggono e muoiono a tutte le latitudini. Uomini, donne, bambini, nude vite, affogate nel Mediterraneo, nel Rio Grande, tra Messico e Stati Uniti; morte per freddo sui valichi tra Italia e Francia o nelle foreste tra Bielorussia e Polonia; abbandonate nei lager nordafricani o nel deserto; vaganti lungo le rotte balcaniche, tra le isole greche e turche o parte del mondo, in quelle vicine all’Australia. L’unico diritto loro riconosciuto è quello di languire.

Conviviamo superficialmente con la morte. Conseguentemente non andiamo alla ragione delle tragedie; non riflettiamo sui fondamentali, non cerchiamo di ricostruire un ordine. Ci limitiamo ad allontanare dai nostri occhi il disdoro di corpi neri coperti da stracci. Abbiamo perciò deciso di affittarli a governi lontani poco sensibili ai diritti umani, che in contropartita di ingenti somme di danaro, si impegnerebbero a trattenerli biologicamente in vita. L’affitto della vita dei migranti in cambio della loro custodia è alla base dell’accordo del 2016 tra Unione europea e Turchia e di altri accordi analoghi che l’UE e alcuni paesi europei hanno stipulato con governi africani, dalla Tunisia, alla Libia, al Rwanda.

La parabola del Samaritano non ci ha insegnato nulla. Il samaritano scorge sul bordo della strada una persona aggredita dai briganti. Si avvicina, si ferma e lo soccorre perché patisce la contorsione delle viscere, lo “splagchnizomai”, come dice il Vangelo di Luca (10, 25-37). Ma noi non patiamo lo “splagchnizomai” del samaritano. Come il Levita e il sacerdote, guardiamo all’altra parte. I fuggitivi sono gli indesiderabili del XXI secolo. Le democrazie si dimostrano incapaci di districare il groviglio. I fuggitivi, senza terra, senza rifugio e senza meta, sono diventati un indistricabile problema umanitario. Non riflettiamo neanche sulla loro condizione umana, non tanto per risolverla, ma per capirla, perché solo capire può portare a risolvere. Ancora una volta resta la nuda vita abbandonata a sé stessa, con i puri bisogni biologici, priva di qualsivoglia diritto della modernità. Tra i diritti inalienabili dell’uomo, in quanto tale, non necessariamente cittadino, dovrebbe esserci la vita. Invece fiorisce la morte. Pongo una domanda. Perché non si parla anche delle vite dei giovani russi mandati a morire da Putin? Non hanno valore? Fa aggio sul valore della vita, il valore delle relazioni internazionali, per le quali essi sarebbero colpevoli quanto il loro comandante in capo? Levare l’indice ammonitore nei confronti di queste tragedie, accusando questa o quella scelta politica, è ridicolmente presuntuoso. Come se ciascuno di noi fosse estraneo, non fosse titolare di propri specifici doveri nei confronti dell’altro. Perciò tacere è tragicamente irresponsabile. Le politiche della immigrazione se non diventano politiche che cominciano a mettere in campo il primato della vita, dovunque essa sia, diventano inevitabilmente programmazione di eventi di morte.

Per una politica di speranza

Bisogna ribadire la sacralità della vita ed espellere il silenzioso protagonismo della morte. Resto sul terreno laico: la vita è sacra perché irriproducibile. Se ne siamo convinti bisogna metterla al centro. Non con arroganti campagne che travestono il bigottismo sotto ipocrite buone intenzioni. Ma con discussioni libere e aperte sulle politiche sociali come politiche di vita. Il lavoro, la formazione, il salario, gli asili, la famiglia, la vecchiaia, non possono vivere disgiunte le une dalle altre perché hanno tutte insieme come riferimento persone viventi in carne e ossa. Uscire dalla commiserazione; cominciare a parlare della vita, delle sue ragioni. Far entrare nel dibattito pubblico il tema della vita contro il tema della morte. I cittadini che credono nei valori della democrazia devono assumersi il coraggio di trattare le questioni della vita come determinanti dell’attuale condizione umana. Il debole ha bisogno di speranza nell’azione di un potere più forte. Politiche senza speranza sono politiche di morte; le politiche della vita, invece, sono, essenzialmente, politiche di speranza.