Le pandemie sono state raccontate in alcuni dei capolavori della letteratura di ogni tempo, dall’Iliade di Omero alla Peste novecentesca di Camus. Tra queste narrazioni, un posto di rilievo spetta alle pagine di Alessandro Manzoni (foto, ritratto di Francesco Hayez, Milano, Pinacoteca di Brera) che nei capitoli XXVII, XXXI e XXXII dei Promessi sposi rievocò la crudele pestilenza che afflisse Milano tra il 1630 e il 1631 e che decimò la sua popolazione. Il percorso di Bruno Nacci ci fa riscoprire la grande arte manzoniana mettendo in luce come gli inserti storici del romanzo non siano divagazioni dal cuore della narrazione, ma un irrinunciabile punto di forza del libro. Bruno Nacci ha curato classici della letteratura francese, si è occupato di Blaise Pascal, di cui ha scritto il saggio biografico La quarta vigilia. Gli ultimi anni di Blaise Pascal (La Scuola di Pitagora 2014). Ha scritto il noir L’assassinio della Signora di Praslin (Archinto 2000), cronaca di un fatto di sangue dell’Ottocento. Con Laura Bosio ha scritto i romanzi storici Per seguire la mia stella (Guanda 2017) e La casa degli uccelli (Guanda 2020). Per Ares ha curato e tradotto il Viaggio in Oriente di Nerval e ha scritto i racconti di Destini – La fatalità del male (2019). La sua opera più recente in narrativa è Congedo delle stagioni. Primavera (Ronzani, Vicenza 2022, pp. 192, euro 15).

Fin dai primissimi versi dell’Iliade, la peste (loimos, nousos kakē, intesa genericamente come epidemia) segna per sempre la letteratura occidentale, lasciando tracce importanti in classici come Tucidide, Sofocle, Ovidio, Virgilio, Lucrezio, Boccaccio, Montaigne, Defoe, Manzoni, Poe, Camus, per non parlare dell’Esodo (e perché non ricordare i trentaquattro sonetti Er còllera mòribbus del Belli, che a causa della pestilenza perdette la moglie?). L’elenco degli autori, per quanto riguarda l’Europa, sarebbe molto più lungo, mai però come quello delle periodiche ondate del male, il cui vertice fu raggiunto, forse, intorno alla metà del Trecento, quando mieté circa un terzo della popolazione, e si dovettero aspettare varie generazioni prima di tornare ai livelli demografici precedenti, incidendo significativamente sullo sviluppo della nostra civiltà. La maggior parte delle forme di contagio viene dall’Oriente, che non ne è dunque immune, se è vero che nella sola Cina dal 242 a.C. agli inizi del Novecento, si calcolano circa trecento epidemie.

Manzoni, alle prese con la prima stesura del suo romanzo, che nell’epistolario chiama rabâchage (all’inizio era stato tentato di scegliere come soggetto Spartaco), fu affascinato dall’idea di far svolgere l’azione sullo sfondo della peste che si abbatté su Milano e il contado nel 1630, come scrive a Claude Fauriel: «Infine una peste che ha permesso l’esercizio della scelleratezza più inaudita e vergognosa, i pregiudizi più assurdi, e le virtù più toccanti». Continuò a documentarsi con un’acribia degna di Flaubert, non solo durante la stesura del Fermo e Lucia, ma anche a ridosso dell’edizione definitiva dei Promessi Sposi del 1840, come testimoniano le lettere a Carlo Morbio. Rifletterà sul genere che aveva scelto per il suo capolavoro in Del romanzo storico (1829), arrivando alla conclusione paradossale: «È un componimento nel quale riesce impossibile ciò che è necessario». E, quasi a ribadire l’inconciliabile presunzione di accostare invenzione e storia, fece seguire all’Adelchi il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, 1822, così come farà seguire ai Promessi sposi la Storia della colonna infame, appendici in cui poté meglio articolare il suo pensiero sul terreno storiografico puro rispetto a quanto ne aveva tratto per le pagine in prosa e poesia, dove aveva sacrificato la completezza documentaria alle esigenze del racconto. Dunque la Storia, a cui non cesserà mai di dedicarsi fino ai testi sulla Rivoluzione francese del 1789 e sulla Rivoluzione italiana del 1859, mosso dall’urgenza di capire e di interrogarsi sull’assurdità di quel grande mattatoio che era ed è la Storia, con un mai celato rammarico: «Luigi XVI era il solo che potesse dare alla Francia quei beni senza guerre civili, senza guerre esterne, senza teste portate sulle picche, senza uomini scannati a torme per intere giornate, senza centuplicare le carceri, senza migliaia di supplizi, senza province desolate, senza villaggi bruciati e pezzi di città diroccati».

Lamartine, che come Goethe amava senza remore Manzoni, lo avrebbe difeso quando proprio le pagine sulla peste vennero criticate come un corpo estraneo alla narrazione: «Non sono di questo parere, questa parte è la più bella del libro». Concordi anche i tre grandi lettori ed editor, si direbbe oggi, del romanzo: Ermes Visconti, Claude Fauriel e Tommaso Grossi. In tempi più recenti, in occasione del centenario della prima stesura del romanzo nel 1923, un altro grande e acuto lettore sia di Leopardi sia di Manzoni, Giovanni Gentile, osservava:

«Guerra e peste, grandi perturbamenti sociali o sciagure d’intere popolazioni agiscono sulla via della Provvidenza al modo stesso dei pensieri, delle memorie, dei sentimenti che maturano nel segreto degli animi […]. Tale poesia può sembrare ai torpidi di mente e di cuore un canto di rassegnazione e di rinunzia. Essa è, invece, l’annuncio e la rivelazione della più possente energia, ignota a tutta la letteratura, poesia e filosofia, italiana e non italiana, dei secoli antecedenti […]. Il Manzoni […] è tra i più grandi d’ogni tempo, e d’ogni gente; e per tale sua dote eccellente, il suo libro, come quello di Dante, sarà sempre per gli italiani un libro nazionale […]. E gl’italiani torneranno nei secoli a celebrare nell’autore non solo il poeta […] ma il maestro che […] insegnò agli italiani l’arte di vivere degnamente».

Aggiunse poi, anticipando la storia non sempre felice della fortuna del romanzo:

«E il Manzoni cadde nelle scuole, e in mano ai pedanti, ai confrontatori delle due edizioni, ai manipolatori della teoria della lingua, ai rimasticatori della morale evangelica».

L’inizio del morbo

I capitoli del romanzo dedicati alla peste sono il XXXI e il XXXII, ma già nel capitolo XXVII si accenna al crescendo sinfonico che vede nella guerra e nella carestia i prodromi della peste, annunciando la sospensione del racconto vero e proprio:

Seguiron poi altri grandi avvenimenti, che però non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de’ nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.

L’immagine del vento di tempesta ricorda e forse anche cita una famosa terzina di Dante, a rendere tutta l’impotenza, dei due amanti nel canto V dell’Inferno, della moltitudine di uomini di ogni genere e ceto nel romanzo:

 

La bufera infernal, che mai non resta,

mena li spirti con la sua rapina;

voltando e percotendo li molesta.

E davvero la guerra del Monferrato, la carestia, la discesa delle truppe imperiali per intromettersi nello scontro tra Spagna e Francia segnano non una parentesi nella narrazione, come vorrebbero i detrattori del Manzoni, ma l’attenzione attonita del narratore a quella grande Storia, letta agostinianamente come intreccio tra la Città dell’uomo e la Città di Dio, in cui, secondo il Dottore di Ippona: «Piacque certamente alla provvidenza divina riservare in un tempo futuro per i giusti alcuni beni […] e per gli empi dei mali […] invece i beni e i mali legati a una condizione temporale li volle comuni a entrambi». E dalla tempesta tutti, buoni e cattivi, verranno travolti e cambiati. Non faranno così gli Hugo e i Tolstoj?

Nel cap. XXXI Manzoni espone prima di tutto una fenomenologia della peste, con uno sguardo quasi entomologico, scandendone la successione dei momenti, ciascuno dei quali esprime l’impatto del male prima nelle coscienze che nei corpi, evidenziando la malafede generale che, rifiutandolo, se ne rende schiava e complice.

Un male invisibile
  1. a) Negazione della peste presso il popolo:

Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel Senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato […] la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.

Dunque cecità, rifiuto, ma al tempo stesso, nota Manzoni, dilagava una bizzarra curiosità per conoscere il nome di chi abbia per primo portato il contagio della strana malattia! Come se la sua individuazione fosse un segno di perspicacia, e non di ottuso compiacimento.

  1. b) Alla negazione della gente comune si affianca quella, più sofisticata, delle classi sociali elevate, come nell’esemplare figura di un certo signor Lucio descritto nel Fermo e Lucia, in parte simile alla figura di Don Ferrante dei Promessi Sposi:

«Tutto questo», diceva il Signor Lucio, «in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine, che hanno scaldata la testa d’alcuni i quali per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia, e pietà nello stesso tempo, il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con giudizio, e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant’anni, e del buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d’un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perché? perché l’ha trovata nei suoi autori. Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl’impicci».

Come già descritto da Tucidide, la peste porta come prima conseguenza la corruzione, si nascondono i malati per timore del lazzaretto, nel quale a un certo punto venivano reclusi, e della confisca dei beni:

Non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati.

  1. c) Il rifiuto della peste si trasforma rapidamente in odio contro i medici che la denunciano e invocano provvedimenti pubblici:

L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria.

  1. d) Il passo successivo, quando il male opera una devastazione non più negabile e ci si è rassegnati a chiamarlo con il suo nome, consiste nel cercare un colpevole:

Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe.

Alla fine, così riassume con ironia Manzoni:

In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro […]. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.

Inviati del demonio
  1. e) Nel cap. XXXII Manzoni descrive la credenza che i colpevoli della peste siano gli untori, individui scellerati che hanno come scopo, inviati dal demonio, dalla Francia o dalla Spagna, di diffondere il contagio:

S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi.

Il contrasto tra la fantasia persecutoria degli untori (che porterà Manzoni a scrivere la Storia della colonna infame) e la cruda realtà dei morti trasportati per le strade di Milano sulle carrette, ispirerà una delle pagine più atroci del romanzo, quella che strappò un moto di raccapriccio a Goethe:

Eran que’ cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera; ché, a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan que’ mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio.

Le Osservazioni del Verri

Al di là della rappresentazione, fisica e morale, della peste, qual è il pensiero di Manzoni sui tragici fatti del 1630-1631? Da una parte, come dirà nella Storia della colonna infame, egli riprende esplicitamente le pagine di Pietro Verri, Osservazioni sulla peste, 1777, elogiandole ma, al tempo stesso, denunciandone il limite per così dire ideologico, perché il grande illuminista fa discendere quei comportamenti prossimi al delirio, dall’«ignoranza dei tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario», che richiede solo una modificazione del sistema penale e della concezione filosofica a esso sottesa, unici veri responsabili della catena di comportamenti individuali aberranti. Se non che, come sottilmente nota Manzoni, così facendo nell’opera di Verri «rimane l’orrore e scompare la colpa», perché, una volta accettato lo storicismo del grande illuminista, non rimane che o negare la Provvidenza o accusarla.

Al contrario, Manzoni vuole mostrare che non tutto è riconducibile all’arretratezza delle leggi, alle superstizioni e ai pregiudizi: «È un sollievo pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa». Manzoni, apologista morale, denuncia la colpa di chi operò sapendo di trasgredire ogni legge umana e divina, ma si guarda bene dall’opporre, come Verri, a un sistema politico, in senso lato, un nuovo sistema, in quanto è convinto che comunque gli uomini, mossi dal male (interesse, crudeltà, disprezzo della vita, viltà, egoismo) troveranno modo di trasgredire anche leggi diverse o di adattarle alla propria perversa volontà: «La violenza era un fatto… di tutti i tempi, ma una dottrina di nessun tempo», in questo non lontano dal sarcasmo leopardiano sulle magnifiche sorti e progressive, consapevole che in tempi di sconvolgimenti sociali la forza del conformismo condiziona anche i migliori: «Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Nella Storia non operano forze sufficienti a garantire i precetti di un’antropologia cristiana (il buon senso!) né le “idee” bastano a correggerla. Ed ecco perché nei Promessi sposi, al generale disorientamento che sembra travolgere tutto e tutti in occasione di uno sconvolgimento naturale, Manzoni contrappone l’umile, silenziosa ed eroica testimonianza dei Cappuccini, l’Ordine a cui nel momento più drammatico della peste venne affidata la gestione del Lazzaretto (dei lazzaretti). Tra le farneticazioni della mente e gli atroci comportamenti (un vecchio linciato in chiesa!), una guerra folle che avrà come unica conclusione il ritorno dei contendenti alle posizioni iniziali, il pronto accorrere dei religiosi e la ferma determinazione del cardinal Federigo incarnano la pietas nell’unico modo reale in cui ci si può opporre al male senza condividerne i tristi mezzi. A essi viene delegato il controllo della spaventosa massa di malati (circa 50.000), con pieni poteri, che Manzoni così commenta:

Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell’abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato, senz’altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz’altro fine che di servire, senz’altra speranza in questo mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso, e si supponeva che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti, essi lo dovevano avere.

Spietato cronista della storia

In un altro punto la riflessione manzoniana si distingue, e distacca, da quella del Verri, quando osserva che i fatti narrati fanno sorgere in chi legge l’idea, la presunzione, che noi ci saremmo comportati in modo diverso, ritenendoci più avvertiti, superiori. Nella versione del Fermo e Lucia, spesso più argomentata di quella dei Promessi Sposi, così scrive:

Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute, e predicate, con che fiducia applicate ai casi, e alle deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti, sarebbe stato in molte cose l’uomo il più illuminato, e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le contraddizioni.

Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di errori tanto marchiani. E perché no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi unanime d’idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre, dominanti in somma per una, due, più generazioni; divenute poi il ludibrio delle generazioni susseguenti. Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi, e della caduta loro. Si vedrebbero le più solenni stravaganze, raccolte insieme, e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente avute in conto di verità incontrastabili […]. Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante. Osservando riunite tante opinioni false e credute si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera […]. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un orrore della discussione, un’ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto all’autorità dei morti, e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso. Ora, mettiamoci un po’ la mano alla coscienza; quante dottrine non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo!

Spietato cronista della Storia, Manzoni non si fa illusioni, nessuno è esente dal peccato, dalla miseria morale, dal tradimento delle idee e degli uomini, ma la Storia rimane il solo terreno su cui si misurano le intenzioni, sul modello di una scarna e rigorosa visione cristiana, come esplicita nelle Osservazioni sulla morale cattolica: «Ah! chi ha insegnato al mondo, che Dio non si onora che colla mansuetudine e coll’amore, col dar la vita per gli altri e non col toglierla loro, che la volontà libera dell’uomo è quella sola facoltà di cui Dio si degna ricevere gli omaggi?».