Che strana occupazione è la caccia! Tempo fa, il conduttore di una nota trasmissione radiofonica, sosteneva la posizione certo inaspettata, ma solo apparentemente contraddittoria riguardo al profondo amore che i cacciatori proverebbero nei confronti degli animali. Tesi impegnativa, ma non lontana dalla verità. La spericolata teoria può essere confermata anche da coloro che con l’atavica disciplina hanno intrattenuto soltanto rapporti minimi, di sponda, come i fugaci incontri con i battitori che rientrano malinconici e stanchi alle proprie auto, con gambe affaticate e aspettative più o meno deluse. Imbattersi in un cacciatore lascia spesso l’indecifrabile sapore del déjà vu; e, talvolta, si sprecano i racconti di incredibili inseguimenti e meravigliose creature: narrazioni fantasiose, in cui il ricordo si moltiplica e si espande nell’esagerazione del desiderio (del resto, come si suol dire, «nessuno conta più balle quanto un cacciatore a valle»). Questo singolare sportivo, in fondo, è semplicemente un entusiasta, il cui il tono di studiata nonchalance, molte volte ostentato, viene contraddetto dalla passione che ne accende lo sguardo. Esagerazioni o meno una cosa è certa: egli ama l’animale cui dà la caccia, secondo un percorso logico, a prima vista perverso, che trova riscontro anche in altri comportamenti della nostra curiosa specie. Ora, arrivati a questo punto, potremmo essere tentati di stimare la caccia contraddittoria e anacronistica, oltre che futile e un po’ stupidotta. Non è così, e, per chi avesse dubbi, viene in soccorso il grande pensatore José Ortega y Gasset, il quale, sebbene non la praticasse, è perfettamente in grado di penetrarne i segreti, con la lucidità del suo pensiero e la perspicuità della sua prosa.

«Una calda amicizia produce prefazioni»

Le meditazioni su questa remota occupazione, che il filosofo trascrisse nel 1943 per introdurre il libro dell’amico Eduardo de Yebes, Veinte años de caza mayor, sono state più volte raccolte e pubblicate. Appaiono adesso anche per Oaks Editrice (Filosofia della Caccia, 2021, pp. 100, euro 12), opportunamente commentate e presentate dalla bella e intelligente prefazione di Marco Cimmino. Il primo dato che merita attenzione concerne il motivo per cui il conte di Yebes incaricò proprio il pensatore spagnolo, essendo questo «così alieno dal sangue e pessimo cacciatore». I due erano amici di vecchia data, d’accordo, ma, dal momento che, come scrive lo stesso Ortega «non si vede come una calda amicizia debba produrre prefazioni», ipotizziamo che l’intendimento del conte fosse quello di fornire una seria impalcatura concettuale e filosofica alla disciplina. Un secondo aspetto non irrilevante e ben enucleato da Cimmino nella prefazione è, per così dire, di natura ambientale: Ortega y Gasset scrive questo pamphlet mentre la Seconda guerra mondiale esigeva il suo crudele tributo di sangue. Dalla cavalleresca figura del cacciatore, nella sua emblematica rappresentatività con i ritmi, le leggi e i rituali che lo contraddistinguono si propaga l’irriducibile grido di protesta contro la violenza della moderna guerra, frenetica e iper-tecnica.

Cacciare per sentirsi vivi

Scorrendo le pagine le riflessioni, mai scontate, si susseguono numerose. Non possiamo che concordare con il fatto che l’uomo necessiti di continue occupazioni per sentirsi vivo. In questo senso il filosofo è ultimativo, affermando che le attività piacevoli, in fondo, si riducono soltanto a quattro: caccia, danza, sport e conversazione. Da una breve e convincente rassegna storica il pensatore sottolinea poi come «lo si voglia o no, con simpatia o stizza» l’occupazione da sempre più amata da tutte le classi sociali è proprio la caccia. E se le cose stanno così, leggiamo tra le righe, un motivo dovrà pur esserci. Illuminante, soprattutto rispetto al contesto storico che quelle riflessioni ha prodotte, è il rapporto tra caccia e progresso. Per il filosofo la minaccia principale all’antica disciplina è rappresentata dalla ragione. La stessa ragione nel nome della quale, proprio in quei giorni, gli eserciti di mezzo mondo incrociavano le spade appena fuori di casa sua. Insomma, il progresso, in ogni determinazione, sembra antitetico alla caccia: se l’uomo desse sfogo alla sua soverchiante abilità tecnica contro l’animale, si tratterebbe di un massacro ragionato e non della disciplina di cui si vuole parlare. Nonostante ciò, sarebbe ipocrita negare la componente di violenza a cui sicuramente va ascritto parte del fascino di questa misteriosa attività. Lo scontro primordiale, l’eccitazione orgiastica precedente allo spargimento di sangue, e il pensiero proibito di aver commesso un delitto, giocano un ruolo determinante. Tuttavia, da queste pagine, è chiaro che cacciare non è soltanto un atto di arbitraria violenza di specie, come pure molti credono, ma piuttosto un rito ancestrale, una celebrazione degli istinti più viscerali dell’essere umano. Un’istintualità delle origini che, proprio nella caccia, si riproduce e perdura a dispetto di ogni avanzamento tecnico. Laddove l’uomo viene incessantemente risospinto in un vorticoso presente di accelerazione continua, andare a caccia ha la lucente seduzione di un ritorno alla natura, di un rientro nella sempre più lontana dimensione del sacro. E così anche noi, pagina dopo pagina, ci caliamo negli affascinanti misteri di questa arte e, con curiosità rinvigorita e animo attento, andiamo a caccia di concetti. Come fare? Per ora apriamo questo libro e addentriamoci guardinghi, poi si vedrà.