Si stende abbagliando sul mare aggricciato da un brivido d’oro, il tramonto infuso. E poi terra, e case e porti, e ancora acqua e raggio come via diretta al cielo e ai suoi tesori: ed è subito pista d’atterraggio, si scende a Salonicco. Da lì, una macchina e via per la penisola Calcidica, chiamatela anche Halkidiki, con la volta che s’incendia, raddoppiata nello specchio dell’Egeo incuneato tra le dita delle tre terre che la compongono: Kassandra, Sithonia e Monte Athos. Il mio traguardo sta nel mezzo, come la poesia, per Seamus Heaney, il poeta traduttore di Sofocle e del suo Filottete: «Tra il senso / delle cose degli dei e quello degli esseri umani. // È la stessa linea di confine sulla quale / opera anche la poesia, sempre in mezzo / tra cosa vorresti accadesse e cosa accadrà, / gradito o meno», recita il coro. Io sfreccio veloce in quello iato, tra la veggente inascoltata e la primordiale casa degli dei, tra la meta turistica che non visiterò e la terra sacra e inaccessibile alle donne, eccezion fatta per galline e gatte, dove venti grandi monasteri si dividono il greco suolo subito dopo Ouranopolis.

Tempo di vacanze e trappola, per me, presa tra il bisogno d’oblio, svaporato dalla calura estiva, e la traduzione di un frammento dell’Aiace di Seamus Heaney. Tra spiaggia e folle carneficina voluta dalla dea Atena, alla cui memoria è intitolato l’albergo in cui vado a sistemarmi.

Non sono nella tua terra d’origine – si dice sia Salamina, Aiace, figlio di Telamone – né in quella che ti ha dato la morte – Troia infiorata dal tuo sangue: Ai è inciso sulle foglie della pianta risorta – e neppure dove sei sepolto – sopra il promontorio Reteo. Eppure ti cerco e ancora non parli, non mi visiti. Sto seduta a fissare il mare, sulla spiaggia di Elia, dando le spalle alle tue spoglie. Nel pomeriggio proverò a guardare a oriente tracciando con gli occhi una linea retta che arrivi all’Ellesponto.

Apriti ai chilometri d’acqua, rialzati possente e fendimi con la tua spada a doppio taglio, come doppiamente era stato ferito il tuo onore e come doppio eri già nel compagno Oileo. Perché la tua sia lama sfavillante. Posa lo scudo ricoperto di sette pelli di toro, smetti lo schermo, irradiati pazzo fin dove sarò, tua concubina traducente, invasa e demente per l’istante necessario a catturarti – come tu hai catturato, stretta al laccio, your captive, la tua preda.

Ma innocua, io. Furia e carezza.

Neo Marmaras

Così faccio il giro della Sithonia, da Elia, la località tra Nikiti e Neos Marmaras, andando verso sud e puntando al lato orientale della penisola. A Neos Marmaras si può cenare in riva al mare, alla Taverna di pesce To Simadi, per esempio, con portate piuttosto abbandonanti innaffiate da ouzo e retsina. Quando l’onda sale, avendo i piedi ormai a mollo e con in corpo una buona dose d’alcol, l’allegria è assicurata… E qualcosa ne sapeva anche il grande poeta nordirlandese.

La prima volta, con la moglie Marie e gli amici Dimitri e Cynthia Hadzi, Heaney visitò la Grecia nell’autunno del 1995. Un anno e un’esperienza indimenticabili, in qualche modo restituiti nei sei “Sonetti dall’Ellade”, poi contenuti in Luce elettrica, dove la poesia si amplia ad abbracciare l’Europa, non solo i luoghi della sua Irlanda. Era infatti a Pilo quando, con 24 ore di ritardo, venne a sapere della vittoria del Nobel. Quella sera, dopo aver parlato con il figlio Christopher che gli comunicò la notizia, Seamus festeggiò in un ristorante davanti al porto: «Polipo e patate fritte tra pescherecci e taverne. Luce delle stelle e luce elettrica che si riflettono nell’acqua. Mi sentivo strano lì», ricorda in Stepping Stones, «come doveva essersi sentito Telemaco. Ma Telemaco stava per avere dei consigli dal vecchio, saggio Nestore, mentre non c’è istruttore che ti possa dire come comportarti davanti alla munificenza della Svezia». Guardando il Parnaso, il poeta beveva ouzo, il liquore, e a Desfina, un comune vicino a Delfi, mangiava pasteggiando con il vino greco aromatizzato con l’aggiunta di resina di Pino d’Aleppo, il retsina: «La mia testa era leggera, ero iper, sbronzo, boreo / mentre ci fiondavamo giù verso la pianura degli ulivi, / pneumatici fischianti e frenetici con il clacson / per tornanti che curvavano come una scrittura bustrofedica», scrisse in uno dei suoi sonetti.

Anch’io corro verso la mia meta che guarda all’Asia Minore.

Sulle orme di Aiace

Come cambiano i colori appena ti spingi, di metro in metro, più a sud, appena apri occhio e orecchio. Taglio su taglio. È rito violento. Giovani pini hanno mani innumerevoli, ciuffi di mani appollaiate sui rami, come quelle che disegnano i bambini. Foresta con rocce mai grigie. Si fa largo in me il suono battente dell’epifania che avanza: tun tun tun. Tamburo di guerra e zoccolo in agonia. Lo trovo: viene dai recessi, insieme ai tuoi occhi. È un attimo quella profondità buia nelle pietre che ora si tagliano a blocchi. Ancora lame precise. E poi improvvisi, quasi in verticale, mi sbucano davanti recinti e ricoveri, pens and paddocks, di povere greggi che cucineranno, tra quelle lamiere. Da qui in poi, ce ne sono a ogni passo.

Pastorizia che mi avvicina a te, Aiace, al punto convenuto dove vorrei strappare un giovane virgulto d’olivo e affidarlo alle acque. Ora le piante si abbassano, sono cespugli che appurano la visione: il monte Atos che si staglia. Ma devo oltrepassarlo, trovare la punta che valica l’Egeo e mi fissa alla tua tomba, sull’Ellesponto. Dalla strada principale che fa il periplo della penisola, a un certo punto si svolta a destra, dove pare che la carta indichi una possibile fuga verso est. Ci sono calette e bar che invitano alla sosta. Sarebbe bello sedersi lì a bere qualcosa, senza pensare a niente o essere tiranneggiati da Aiace che preme, chiede di comunicarsi senza però pronunciare parola, aglossos. Sarebbe bello, sì, ma non oggi, oggi vado avanti fin dove la strada finisce. Solo un’altura da scalare con la mia tenuta da spiaggia e le scarpe da trekking. Il sole che impala anche alle cinque del pomeriggio. Scalo lo stesso, guardo. Ma c’è ancora terra tra di noi, penisola calcidica che si infiltra e ci separa. E il monte Athos che fa la guardia e sbarra il passaggio.

Più avanti, devo andare e vado. E allora è un Camel Trophy di strade sterrate in un paesaggio da Far West. Cammino esausta. Cosa non si deve fare per tradurti, folle guerriero, valoroso e invasato. Inoltrarsi, graffiarsi tra gli sterpi. Piss and muck, ovvero il cacatoio dei turisti. Lo schivo e giungo qui, di più non posso.

Ulivi, vento & schiuma

Il ramoscello d’ulivo rimane con me. Se lo lanciassi, il vento me lo riporterebbe indietro, qui piantata sul promontorio dove, in basso, l’onda schiuma. Sentimi, invasami tu, con quelle parole che scuotono le viscere agganciandosi a un vissuto personale, un travaso che non è mai nella proporzione dell’uno a uno, perché «whatever is given can always be reimagined», tutto ciò che è dato può essere reimmaginato, dice Heaney: è vita che pulsa quando la visita dell’altro diventa inaggirabile e, per un breve tratto, si fa aderenza. Bisogna puntare gli occhi, scalare e scivolare perché alla fine, «when we moved I had your measure and you had mine…». Ed è un atto d’amore. Come quello che scarico su questa terra di acque carezzevoli che riempiono gli occhi di tutte le tonalità degli azzurri. Tutte le acque che lambiscono roccia, sabbia, alga, tutte le profondità. Tigania Beach, per esempio, poco più a sud del luogo in cui ho forzato i miei occhi a guardare. Grandi ombrelloni a foglie di palma e un bar-ristorante appollaiato sulle rocce, le assi di legno a terra, le botti usate come tavolini e una vista che spazia lontano, dalle pietre a sfioro d’acqua dove sono piantati altri ombrelloni fogliosi, al mare aperto: ci si ritempra con l’onda che sciaguatta morbida alle radici del mondo pensando a una vita quaggiù, lontano da tutto, aspettando che il cielo schiarisca e mostri qualcosa in trasparenza, un dono portato dal vento. Sia dato credito alla poesia, diceva Seamus Heaney nel discorso scritto per il Nobel. Il poeta ricordava soprattutto la bellezza del viaggio compiuto con la mente attraverso le parole della radio che rimandavano l’incantatorio brusio di Babele. Quel che colpisce è il ricordo sincero, l’universo intero nascosto in una fattoria della contea di Derry. Il microcosmo che diventa un tutto rotondo e sonoro. E la parte umana, umanissima che ci riporta al compito principale della poesia, quello cioè di penetrare sempre più a fondo nella fibra tenera dell’essere umano, fragile, empatico e pieno di gloria: per questo, solo per questo. «La forma poetica, in altre parole, è ingrediente cruciale del potere che la poesia ha di fare quello per cui le si dà e sempre le si darà credito: il potere di persuadere quella parte vulnerabile della nostra coscienza di essere nel giusto a dispetto di tutte le manifeste ingiustizie che le sono intorno, il potere di ricordarci che siamo cacciatori e raccoglitori di valori, e che anche le nostre solitudini e angosce sono degne di credito, in quanto anch’esse testimoniano della nostra autentica umanità».

Lasciata Tigania Beach e andando verso nord, un po’ più su, sempre sulla costa orientale di Sithonia, in località Vourvourou, si trova una spiaggia anch’essa “doppia”, come la spada di Aiace: Karydi Beach, più domestica con la macchia mediterranea che ingentilisce l’estate, due seni uniti da un lembo di carne rosa e sabbiosa, due occhi che non chiudono mai la palpebra al cielo.

Avventurandosi invece nell’unico tratto della penisola di Monte Athos su cui una donna possa posare il piede, con un traghetto si può partire da Ouranopolis, luogo decisamente turistico, alla volta dell’isola di Ammouliani e dirigersi poi ad Alykes Beach, dai colori frastornanti, in parte libera e in parte dotata di stabilimenti vari, in cui incontro donne con strani capelli multicolori, divertita per l’estro che ci si può mettere in testa. Al ritorno, è bene dare uno sguardo alla torre di Pitosforo, imponente costruzione bizantina del 1344, e poi imboccare la via che costeggia il mare e la spiaggia per raggiungere l’infilata di locali e assicurarsi un aperitivo.

Stagira, la bella

L’ultima tappa di viaggio la riservo a Stagira la calda, Stagira la bella che si avvolge rocciosa in un cuneo che si srotola nel mare. La prima volta c’era il cancello chiuso e così sono dovuta tornare per vedere quel pugno di case rovinate, un tempio, la tomba d’Aristotele (si dice, ma chissà), che mi ha colpito alla testa e me l’ha fatta vorticare per ore. Il sole a picco, il cancello che ho dovuto scavalcare per non affrontare ancora una volta la salita del ritorno, quella vampa che mi ha fatto terra e polvere che brilla: così il sasso che ho raccolto; e così il sole che ora cala, più di un giorno dopo, e mi coglie ancora a letto, lo squasso che si calma, e due tiri di sigaretta, finalmente, mentre penso alla poesia di Heaney in cui il poeta racconta di aver trovato il sito della Fonte Castalia sbarrato: «Beh, all’inferno, / e all’inferno tutti quelli che mi vorrebbero fermare, facciadituono!», scrive. La sua ira che monta per la promessa fatta a sé stesso, di bere cioè le acque «della fonte Castalia, arrogare / quel tanto a me stesso ed essere il poeta / sotto la scogliera da capogiro del dio Apollo», quella rabbia che defluisce sulle terrazze dove si inchina e muove le labbra tra dolcezza e sfida. La due fonti che sgorgano dalla sorgente si trovano vicino al santuario di Delfi. Lì dovevano purificarsi sia la Pizia che i sacerdoti dell’oracolo e chi chiedeva il consulto. Ma Ovidio, nei suoi Amores, dice che la fonte favoriva anche l’ispirazione dei poeti, quella che veniva dal biondo Apollo, essendo la poesia immortale e non soggetta all’infierire del tempo.

Crudele è invece il mio, che mi ricorda insistente il ticchettare delle lancette. Domattina si riparte per l’Italia. Si ricominci allora dal tramonto, si mettano le ali e le si indori di un sole che non schianti, ma tracci la via per un ritorno che sia ora, qui, e domani ancora.