Qual è il ruolo del diritto rispetto all’integrazione, all’immigrazione e all’inclusione. Che cosa fa e che cosa può fare il diritto in questo àmbito? Penso di non sbagliarmi se il primo pensiero che abbiamo è quello della regola e della sanzione penale per gestire e controllare, regolamentare l’ingresso dei flussi nell’attraversamento delle frontiere. Tutti i Paesi usano delle regole per gestire questi imponenti flussi migratori.

Nel 2010, è stata introdotta nel nostro ordinamento la sanzione penale per l’immigrazione clandestina e, ancora più pesantemente, è sanzionato il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, i cosiddetti scafisti, per cui le sanzioni sono importanti, come il carcere e le grosse pene pecuniarie.

A un certo punto era stata introdotta una norma penale ancora più odiosa: l’aggravante di clandestinità, per cui lo stesso reato compiuto da un cittadino era punito meno severamente di quanto lo era se commesso invece da una persona irregolarmente presente sul territorio. Nel 2012, questa norma è stata stroncata dalla Corte costituzionale.

La criminalizzazione

Di fronte a questi grandi movimenti di popoli c’è l’esigenza di controllare le frontiere, di garantire la sicurezza. Che serva dunque l’uso del diritto penale è un fenomeno non solo italiano. Judith Resnik, una grande studiosa di Yale, parla di crimeimmigration usando questi giochi di parole così facili in inglese per indicare che si affronta il tema soprattutto attraverso la criminalizzazione.

Pensare al diritto semplicemente tramite la sua capacità sanzionatoria, di costrizione e di coercizione, di uso della forza, risponde proprio a quella idea di paura che a cui faceva riferimento il card. Zuppi (cfr pp. 6-7). Ho letto recentemente un bel libro di Tommaso Greco, La legge della fiducia (Laterza, Roma-Bari 2021, pp. 192, euro 14,00), che analizza come in diversi periodi storici, il diritto abbia cambiato faccia e a un certo punto, soprattutto dall’età moderna in poi, si pensa al diritto come allo strumento che deve intervenire quando si crea una sfiducia, si rompe un rapporto fiduciario con l’altro, si insinua un elemento di sospetto, di paura e diffidenza.

E Greco lo fa risalire proprio a Machiavelli: in un bel passaggio, il Machiavelli dei Discorsi dice: «è necessario presupporre che tutti gli uomini siano dei colpevoli e abbiano sempre a usare la serenità dell’animo loro ogni qualvolta ne abbiamo la libera occasione perché gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità».

L’inasprimento della pena non è una soluzione

Allora pensare al diritto come solo sanzione risponde inavvertitamente, quasi non ce ne rendiamo conto, e non soltanto nell’ambito dell’immigrazione, all’idea che l’altro è da guardare con diffidenza.

Quando noi abbiamo, non soltanto in riferimento agli ultimi mesi, un problema che sta emergendo, chi ha la responsabilità del governo del Paese, ma anche i giuristi in generale, tendono a pensare che la prima risposta debba essere quella di un inasprimento delle pene.

Questo paradigma è l’unico possibile? Si può fare solo questo? E soprattutto: quando il diritto fa questo, risolve i davvero i nostri problemi?

Quando eravamo noi al governo c’era il grande problema degli incendi boschivi estivi. Alla fine dell’estate si emise un Decreto Legge che introduceva un inasprimento delle pene. Così è stato fatto con i rave party dal governo odierno, ma anche nei governi precedenti è successo: è un atteggiamento molto istintivo.

Questo modo di reagire segnala l’esistenza di un problema grave. Quando inaspriamo le pene, oltre segnalare un sintomo di un problema serio che si sta verificando nella vita sociale (vale per la questione ambientale, così come per la violenza sulle donne: tutti grandi fenomeni che stanno affliggendo il nostro tempo), questo inasprimento delle pene elimina effettivamente alla radice il problema che vuole affrontare.

Il ruolo del carcere

Se noi andiamo a guardare che cosa accade nel mondo penale rispetto al problema migratorio, ci sono due dati che emergono dall’ultima relazione del Garante dei detenuti – che tra l’altro è responsabile non solo per le carceri, ma anche per i centri di detenzione e altre realtà dove si limita la libertà personale – che danno una panoramica della situazione. I dati ci dicono due cose: innanzitutto che nelle nostre carceri le persone immigrate sono circa il 30%, un numero molto alto, certo un po’ in flessione negli ultimi 5 o 6 anni, ma soprattutto che quelli che sono in carcere hanno delle pene molto brevi: dai 6 mesi all’anno.

Questo che cosa comporta? Chi ha un po’ di familiarità con il mondo penale, col mondo delle carceri sa benissimo che quei sei mesi, un anno, sono un tempo in cui è sostanzialmente impossibile offrire un’opportunità di formazione, di lavoro, di sviluppo di un percorso anche personale che possa indurre la persona a non ricadere nel solito giro. Tipicamente i reati in questione sono quelli di spaccio di droga, di furti, di piccole rapine, che indicano una realtà che vive di espedienti. Non si riesce a organizzare in pochi mesi un percorso, a offrirlo e che poi possa avere successo, che possa veramente assicurare che la pena abbia la funzione che la Costituzione garantisce, cioè della rieducazione, di dare una seconda possibilità.

L’obiettivo è la rieducazione

La sanzione penale è e può essere necessaria per quelle ragioni di protezione del resto della popolazione, per ragioni di sicurezza. È inevitabile e necessario fermare, isolare la persona che sta minacciando la sicurezza degli altri, che sta usando strumenti di prevaricazione, violenza e attacco alla persona. Tuttavia c’è da chiedersi se, questo strumento, oltre che fermare il male che si sta diffondendo, riesca a ottenere il suo obiettivo che è quello appunto della rieducazione.

Dobbiamo interrogarci quando noi reagiamo ai fenomeni e problemi emergenti soltanto con lo strumento penale. Perché lo strumento penale può essere un segnale veloce, perché lo posso immediatamente annunciare nei casi di emergenza, perché non richiede un investimento di risorse molto lungo. Però questo segnale deve essere accompagnato da qualcosa che lavori nel lungo periodo e in un’ampiezza di sguardo e profondità, altrimenti lo strumento non sarà sufficiente ad affrontare il problema che vuole segnalare.

E allora che altro modello di diritto abbiamo? Che cosa dice la Costituzione? Già l’articolo 27 afferma qualcosa di significativo, non soltanto per un senso di umanità nei confronti dei detenuti, ma anche per convenienza.

Istituzioni e cittadini

Concludo richiamando solo due princìpi costituzionali. L’articolo 3 comma 2 afferma che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona, ostacoli di ordine economico e sociale. C’è qualcosa da fare in positivo, perché il diritto, non è solo repressione. L’articolo 2 dice che la Repubblica si impegna nei doveri di solidarietà.

Non è che rimuovere gli ostacoli o esercitare la solidarietà spetta alla società civile mentre le Istituzioni debbono spartirsi i compiti e intervenire solo nella repressione. Repubblica è l’insieme delle Istituzioni e dei cittadini, sono le Istituzioni centrali e locali, vale a dire terzo settore, ma anche imprese. Entrambi hanno questo compito proattivo. Se noi vogliamo evitare di reagire e usare il diritto solo come paradigma della paura, dobbiamo anche pensare a un diritto che sappia sostenere questo impegno in positivo, in modo proattivo da parte delle istituzioni.

Nel suo intervento la prof.ssa Marta Cartabia, Presidente emerito della Corte costituzionale italiana e docente ordinario di Diritto costituzionale e di Giustizia costituzionale presso l’Università Bocconi di Milano si concentra sui danni provocati da un’applicazione esclusivamente sanzionatoria del diritto. Criminalizzare l’immigrazione pone seri ostacoli all’integrazione giuridica e sociale. Segnaliamo che l’intervento non è stato revisionato dall’autrice.