La sterminata biografia di Philip Roth, edificata lui vivente, è anche un epinicio intonato per lo scrittore americano (1933-2018). Come della sua opera si parla in termini di “capolavori”, “genio”, “il più grande scrittore americano” ecc., così la biografia – Blake Bailey, Philip Roth. La biografia, trad. Norman Gobetti, Torino, Einaudi, pp. 1045, € 26 – è stata accolta con espressioni del tipo “si legge come un romanzo” (ma è davvero un elogio?), “capolavoro narrativo”, ecc. Roth in vita collezionò premi e onorificenze a non finire (Pulitzer compreso), e dopo un inizio incerto divenne una vera star delle lettere, a cui mancò solo il Nobel per l’apoteosi finale («Il Michael Jordan della scena letteraria americana», secondo un cronista dell’epoca).

Il libro di Blake Bailey, professione biografo, è certamente un buon libro, documentato (non mancano suggestive fotografie), ricchissimo di notizie, fatti, pettegolezzi, punti di vista molteplici (la non sempre benevola disposizione dei colleghi, Bellow, Updike, Mailer, Capote, ma questo è scontato), interpretazioni delle opere con annessa didascalia per decifrare dietro il personaggio la persona reale (tutti i libri di Roth attingono a piene mani alla sua vita), perché in fondo questo è il nocciolo di ogni biografia, genere quanto mai spinoso sia per il biografo che per il biografato: il nesso tra l’opera e la vita (L’oeuvre et la vie hanno titolato per più di un secolo i francesi).

Ci sono biografie classiche, senza riandare alla storiografia antica, come quella di Petrarca dello Wilkins, innumerevoli biografie romanzate, le più recenti biografie “scientifiche” (un ossimoro per accademici in carriera) e infine moderne “biografie autorizzate” come questa. Ma se la biografia di un uomo politico o d’azione è scandibile lungo una serie di fatti e circostanze (politici, militari, diplomatici, pubblici in senso lato) che ripercorrono un’esistenza sullo sfondo di un’epoca, la biografia di uno scrittore appare, in quel genere misto che di per sé è la biografia, una sottospecie che si muove lungo i confini frastagliati di campi diversi e spesso in conflitto tra loro: racconto, storia documentaria, introspezione psicologica, critica letteraria.

Una storia esemplare?

Può dare capolavori come il già citato Wilkins, vertice di uno stile narrativo sobrio ed elegante, può focalizzarsi raccogliendo fonti e documenti (utilissimi per altro) come quella di Ziegler e Pichois che passano al microscopio la vita di Baudelaire, raccogliendo perfino le ricevute del sarto, ma stentano a comporre un ritratto vivo. Poi c’è la versione postmoderna, quella che strizza l’occhio al pubblico (nel libro di Bailey si cita Flaubert che ammoniva gli scrittori a scegliere tra “avere lettori o accontentarsi di un pubblico”!) promettendo un esaustivo docufilm cartaceo, condendo la vita di una celebrità con particolari eccitanti che tengano desta l’attenzione del lettore. La biografia di Bailey sembra almeno in parte appartenere a questo ultimo repertorio, non a caso, appunto, si legge “come un romanzo”.

Non “come” però. È un romanzo, l’ultimo romanzo scritto da Philip Roth con l’aiuto del suo paziente e docile scriba. Non per questo si mette in dubbio la paternità della scrittura di Bailey, la sua acribia e la sua passione di ricercatore-intervistatore, il libro non è stato dettato da Philip Roth al biografo. No. Il romanzo è la vita di Philip Roth quale s’impone al biografo nella direzione indicata dallo scrittore. E una certa perplessità leggendo non deriva dalla vivacità ed esuberanza di questa vita messa a nudo con il consenso del protagonista, ma dal fatto che di una simile vita e opera si sia pensato di fare un mausoleo. L’opera e la vita di Roth sono davvero esemplari? Ma soprattutto, ha senso pubblicare una biografia tre anni dopo la morte dello scrittore? La domanda vale ovviamente per tutto il genere “biografie autorizzate”, che implicano la dubbia e sconcertante contemporaneità dell’Instant Book, anche se hanno richiesto anni di preparazione. Ammoniva Nietzsche: «Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia». Appunto. La biografia di Kafka di Max Brod uscì tredici anni dopo la morte dello scrittore e I Colloqui con Eckerman, per dire, apparvero tra il 1836, quattro anni dopo la morte del poeta (Goethe!), e il 1848. Roth come Goethe? Inoltre, buona parte dei romanzi di Roth ha uno sfondo biografico (per non parlare di Perché scrivere?, saggi e scritti vari 1960-2013) per cui una biografia di Roth inevitabilmente si deve confrontare con l’autobiografia sottesa alle decine di volumi delle opere, rischiando di diventare una biografia al quadrato o di duplicarne i fraintendimenti (come quelli sul presunto antisemitismo o sulla, sempre presunta, misoginia). Roth, sempre scettico sulla propria audacia, aveva comunque espresso chiaramente quello che pensava della biografia: «La biografia conferisce alla morte un’ulteriore dimensione di terrore». Va detto: in questa enciclopedia rothiana si trova tutto quello che ci si aspetta, la famiglia d’origine ebraica piccolo borghese, quella ritratta in Portnoy, lo scellerato matrimonio con la prima moglie sempre a rischio di finire a coltellate, gli accessi di erotismo, le fughe in avanti, i sensi di colpa, la corsa a ostacoli per vincere la gara contro uno stuolo di critici simpatizzanti o detrattori, per non parlare degli antagonisti: Bellow, Malamud, Updike, Mailer…

Ma il filo conduttore, non tanto nascosto, del libro, sembrano essere gli innumerevoli amplessi, più che avventure, dello scrittore (e dei comprimari) che affiorano con frequenza come se costituissero l’elemento portante della sua vita. In un certo senso, se presi come espressione del carattere, lo sarebbero, ma in un altro, raccontati e storicizzati, rischiano di apparire superflui o patetici, anzi, il plot narrativo di una vita spericolata! Si potrebbe dire: lo stesso Roth ha autorizzato tutto questo, prima nei suoi libri, poi lasciando fare o suggerendo al biografo. Vero, ma il biografo è un esecutore testamentario? Esempio: quando ormai Roth e la sua terribile prima moglie Maggie sono separati, ci viene raccontato il flirt di Maggie con una collega, e subito dopo quello della figlia di Maggie, avuta dal primo marito, con l’uomo che aveva licenziato la madre e così via…

Digressioni ossessive

La digressione è un topos letterario, ma qui a volte sembra di trovarsi davanti a un accanimento del biografo bulimico. Gli amori di Foscolo o di Chateaubriand (vedi lo spassoso libro di D’Ormesson) sono parte essenziale della loro vita e dell’opera e il biografo non può ometterli, così quelli di Kafka o di Proust… Ma qui, per lo più, non stiamo parlando di amori! Il sospetto di voyeurismo è difficile da respingere. Nemmeno siamo davanti a una riedizione del Catalogo di un Don Giovanni o di un Casanova. Schnitzler ci ha lasciato lo splendido ritratto di Casanova da vecchio, soffuso di tristezza e solitudine, ma in questi fugaci incontri libertini non c’è altro da dire che sono accaduti (e non sarebbe stata una terribile perdita se fossero stati lasciati nella labile e svagata memoria dei loro eroi e del loro puntiglioso cantore). Compito del biografo non è registrare tutto, la storia documentaria! ma scegliere, cogliere gli snodi fondamentali, soprattutto là dove gli altri frammenti (nessuno conoscerà mai integralmente la vita di un uomo, nemmeno il diretto interessato: al massimo si ricorda un mucchietto di immagini distorte) non sembrano essere decisivi nel carattere o nella evoluzione artistica. A parte queste considerazioni generali, la vita di Roth appare qui in tutta la sua prismatica complessità, dal quasi-esordio scandaloso di Il lamento di Portnoy, che gli attirò la reazione unanime e irata del mondo ebraico fino ad accusarlo di antisemitismo, e che solo alla fine dei suoi anni si tramutò in accoglienza e riconoscimento del suo essere al contrario radicato nell’animo ebraico americano senza ipocrite edulcorazioni, fino alla tormentata vecchiaia.

Ma che uomo e scrittore è stato Philip Roth? Aveva una fortissima personalità, questo è fuori di dubbio, fino a sembrare in alcuni momenti quasi accecato da sè stesso, come scrive in chiusura di La mia vita di uomo: ««Questo io che sono io, io e nessun altro che me».

Un uomo complesso e contraddittorio: generoso (non lesinò aiuti economici ai dissidenti cecoslovacchi, o a una sua editor licenziata e afflitta da un tumore, o alla famiglia di un amico congolese che voleva espatriare durante la guerriglia, pagò gli studi universitari alla sua cuoca, fu sempre pronto a intervenire in aiuto di qualcuno), scostante e maligno («È solo la prospettiva del premio Nobel a tenere in vita Arthur Miller da un ottobre all’altro»), presuntuoso (Nicole Kidman snobbandolo dirà a un amico a proposito delle sue avances, che non risparmiava a nessuna donna: «Digli di crescere»), affabile e gentile in privato, con crisi di pianto sconsolate, insicuro (all’uscita di un libro migrava all’estero per non leggere le recensioni negative, che poi però furtivamente si procurava…), capace di intrattenere amici, salotti e tavolate con buffonerie e imitazioni travolgenti, strafottente (all’uscita di Patrimonio: «Non so cosa è successo. Mi amano! Dove ho sbagliato?»  dirà a Finkielkraut), crudele nel troncare di punto in bianco una relazione (quante delle sue donne minacciarono di suicidarsi?), iroso e sospettoso (ne sapevano qualcosa i suoi editori, spulciò l’edizione delle sue opere nella prestigiosa Library of America perché non si fidava di nessuno), impulsivo, arrogante (ma capace di pentirsi e mettere una pietra sopra a dissapori che il suo carattere irascibile creava anche con gli amici stretti: «Potremmo estirpare il mese di marzo dalla lunga storia della nostra amicizia?», scrive all’amico Conarroe).

Non si esagera constatando che da questa biografia emerge una dote sopra tutte: Roth è un genio assoluto dell’autopromozione o marketing che dir si voglia, come quando in occasione dell’uscita di Operazione Shylock (1993), fa passare il libro per la narrazione vera di una sua impresa di controspionaggio che il Mossad israeliano avrebbe imposto di raccontare come se fosse un romanzo! Onnipresente nei suoi libri per mezzo di personaggi-avatar, da Zuckerman a Pipik, in cui si incarna con un trasformismo a tratti esilarante, suscitando nei critici a lui avversi il rilievo, non del tutto erroneo, di saccheggiare a piene mani le trame dei romanzi dalla propria vita, e dai malcapitati con cui veniva in contatto, in mancanza di una immaginazione originale o comunque debole.

Quanto alle donne importanti della sua vita, il secondo matrimonio con la famosa e bellissima attrice di cinema e di teatro Claire Bloom (lanciata da Chaplin in Luci della ribalta, 1952) fu meno spaventoso del primo, ma la Bloom scrisse in seguito un libro di ricordi, Leaving a Doll’s House (1996), in cui, dopo il divorzio, ripagava con gli interessi il comportamento non proprio impeccabile di Roth che la definirà «uno scorpione travestito da farfalla» (avendo in mente forse l’analogo epilogo della relazione tra Flaubert e Louise Colet, che pubblicherà a sua volta il diffamatorio Lui, meritandosi una delle più taglienti battute dello scrittore francese). Il divorzio comunque finirà nei talk-show e in parcelle per gli avvocati. Roth d’altra parte aveva sempre ammesso «l’eccitazione di avere un io multiplo che si comporta in modi diversi a seconda delle sue numerose vite, e di possedere un talento per la sfrenatezza incredibilmente munifico». Le sue numerose vittime erano avvertite e avrebbero potuto metterlo nel conto. Se nella biografia Roth scrittore appare carico di medaglie, lauree ad honorem, recensioni entusiaste e altre denigratorie, film tratti dalle sue opere (e da lui mai amati, neppure La macchia umana, 2003), ma sempre in cima alla notorietà, la sua figura pubblica, le sue relazioni, i suoi amori, le sue amicizie, gli scontri furibondi nel libro di Bailey prevalgono forse sul senso profondo di quello che in mezzo secolo è andato scrivendo, e le analisi delle opere, pur presenti in modo sbrigativo, sembrano più che altro rispecchiare le vicende della loro accoglienza pubblica da una parte e la suscettibilità dell’autore dall’altra.

L’uomo, forse meglio indagabile con sonde di profondità invece che con il periscopio, fu certamente più angosciato. Ma perché? Questa sarebbe la domanda appropriata, di quanto volesse apparire e di come viene ritratto. In un’opera della vecchiaia Everyman (2006), là dove sembra voler giocare a carte scoperte e non più indossando e togliendosi le maschere dei suoi personaggi scrive: «Ma la cosa più straziante è sempre la normalità, il constatare ancora una volta che la realtà della morte schiaccia ogni cosa», e non a caso il personaggio (come Philip) riporta l’ammonimento del padre: «Devi prendere le cose come vengono. Tenere duro e prendere le cose come vengono. Non c’è altro sistema». Le sue ammissioni più intime non lasciano dubbi: «La mia vita è un problema che non so risolvere» o, in modo ancora più vero e grottesco (lui che è stato il re del grottesco americano): «Dovevano sbattermi in prigione quando avevo vent’anni e tenermi chiuso lì dentro fino ai settanta. Così avrei evitato di fare danni. E non intendo danni alla comunità, intendo danni a me stesso».

Quali danni? Quelli psicologici, che richiederanno anche ricoveri in una struttura psichiatrica per timore del suicidio? O quelli morali, quando, lui che si dichiarava irrimediabilmente ateo e respingeva ogni appartenenza a confessioni religiose, ivi compresa e soprattutto quella ebraica, confesserà all’amico Jack Miles (lo scrittore teologo di Dio. Una biografia) di pregare spesso, ammonendo però «Tientelo per te». Philip Roth pensò sempre a una biografia che ripristinasse la sua figura umana sfregiata soprattutto dal libro della Bloom (scartò prima Ira Nadel, diffidandolo da scrivere una biografia non autorizzata, poi quello che doveva essere il suo biografo naturale, l’amico Ross Miller, che non si era piegato del tutto alle sue intenzioni, per approdare infine a Blake Bailey). Nel complesso, se è lodabile la sua costante campagna contro il politically correct, che si nutre non di rado della piena coscienza di voler dare scandalo, e se in taluni grandi affreschi, come Pastorale americana (1997), riesce a far emergere le faglie più nascoste della società americana, altrove si ha l’impressione di assistere a una incessante ruminazione, condita con un nichilismo farsesco, al contrario di quello di Camus per intenderci, che non di rado si compiace di una visione asfittica della realtà, caricaturale, cosa di cui a tratti sembra essere consapevole, come quando paragona la vita letteraria americana a quella cecoslovacca durante il regime comunista, e osserva che in Cecoslovacchia «niente è permesso e tutto conta» mentre negli Stati Uniti «tutto è permesso e niente conta». Fu vera gloria?