L’annuncio ha suscitato stupore: Papa Francesco sarà in Mongolia il 31 agosto 2023. Sarà il suo 43° viaggio internazionale. Ma, a differenza di quelli già effettuati, il viaggio apostolico in programma è assolutamente inedito, piuttosto inaspettato e fortemente emblematico: inedito, perché è il primo successore di Pietro a mettere piede nel lontano Stato dell’Asia; inaspettato, anche se già ventilato, perché i cattolici in quella Nazione sono un’esigua minoranza e non godono ancora di vescovi indigeni; emblematico, perché è ricco di significati. Per questi aspetti, che trascendono i rapporti tra la Santa Sede e la Mongolia, il prossimo viaggio papale assume un’importanza del tutto eccezionale che qui cerchiamo di sottolineare.

La notizia dell’evento è stata diramata dalla Sala stampa vaticana il 3 giugno 2023. Nella stessa data è stata ripresa da L’Osservatore Romano con poche righe, ma ben evidenziate in prima pagina: «Accogliendo l’invito del Presidente e delle autorità ecclesiali della Mongolia, Papa Francesco compirà un viaggio apostolico nel Paese asiatico dal 31 agosto al 4 settembre di quest’anno». Due giorni dopo, il medesimo quotidiano riportava due articoli che indicavano le ragioni, almeno parziali, di un’iniziativa che non manca di sorprendere, ma che non è frutto di improvvisazione.

Nelle periferie della Chiesa

Tutto fa pensare che il viaggio sia stato preparato da tempo e con cura. Un elemento a comprova di ciò è costituito dalla promozione eccezionalmente rapida e piuttosto “anomala” di Giorgio Marengo nella gerarchia ecclesiastica. Nato a Cuneo nel 1974 e ordinato presbitero a 25 anni per l’Istituto Missioni Consolata, divenne prefetto apostolico di Ulan Bator, in Mongolia il 2 aprile 2020. In pari data fu eletto vescovo titolare, fatto “inusuale” per un prefetto apostolico che normalmente non è insignito della dignità episcopale. Appena due anni dopo, il 29 maggio 2022, il Papa annunciò la sua creazione a cardinale. Pertanto egli è attualmente il più giovane membro del Collegio cardinalizio, dopo essere stato il più giovane vescovo della Chiesa cattolica. La spiegazione di un’ascesa così celere nella carriera ecclesiastica pare intuibile: non sta tanto nei meriti personali acquisiti da Giorgio Marengo, considerata la sua giovane età, quanto piuttosto nella volontà del sommo Pontefice di onorare il popolo nel quale egli opera e la comunità cristiana da lui governata, in attesa di farvi visita come sprone per un impegno missionario più incisivo. I numeri parlano chiaro. I sacerdoti collaboratori del prefetto apostolico di Ulan Bator sono in totale 29, di cui solo due autoctoni. Perciò la plantatio Ecclesiae con clero indigeno in Mongolia appare ancora una meta non vicina.

Da queste premesse risulta più comprensibile un primo significato del prossimo viaggio internazionale di Francesco, illustrato sul giornale edito in Vaticano dallo stesso cardinale Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, circoscrizione ecclesiastica situata nella capitale della Mongolia e unica nel Paese che ha un territorio esteso cinque volte quello dell’Italia. Marengo ha espresso la gioia per la visita del Pastore della Chiesa universale alla minuscola comunità dei suoi fedeli, circa mille e cinquecento locali, cui si aggiungono pochi stranieri di passaggio per lavoro o per incarichi diplomatici. Papa Francesco, si sa, ha sempre dimostrato interesse per le periferie della Chiesa e del mondo, al punto che esso dà una prima giustificazione del suo futuro viaggio in Estremo Oriente. Ma, in questo caso, non potendo aspettarsi folle osannanti, come Giovanni Battista egli sarà «voce di uno che grida nel deserto» per attrarre persone che avvertono un’esigenza di salvezza fra i tre milioni di abitanti della Mongolia, in maggior parte buddisti tibetani e per il 40% atei dichiarati, che vivono accanto a esigue minoranze religiose di varie fedi, tra cui quella cristiana. Pertanto, la visita del sommo Pontefice in Mongolia rappresenta un forte impulso per l’evangelizzazione avviata da pochi decenni e un’ottima opportunità per annunciare il Vangelo a molti che non lo conoscono.

Ventiquattro ore dopo l’annuncio da parte della Sala stampa vaticana del viaggio papale in Mongolia è stata comunicata la visita di due giorni nel Paese asiatico dell’arcivescovo mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali della Segreteria di Stato. La sua missione, programmata da tempo, è iniziata il 4 giugno 2023 e ha avuto successo. Gallagher è stato ricevuto dalle massime autorità della Repubblica mongola allo scopo di rafforzare le relazioni bilaterali con la Sede Apostolica, come ha evidenziato L’Osservatore Romano il 5 giugno.

Diritti e libertà religiosa

Pertanto, il secondo obiettivo del prossimo viaggio di Francesco in Asia si colloca nell’àmbito del diritto internazionale tra due soggetti di quel livello, come sono la Santa Sede e la Repubblica di Mongolia, i quali dal 1992 hanno stabilito tra loro piene relazioni diplomatiche. Il cammino di reciproco avvicinamento delle due parti è durato secoli e ha imboccato una via costruttiva soltanto da una trentina di anni con il crollo della Repubblica Popolare Mongola, avvenuto nel 1992 e caratterizzato dalla fine del regime comunista che l’aveva tenuta soggiogata per oltre mezzo secolo. Non va dimenticato che lo Stato della Mongolia era preso in una morsa che lo schiacciava, complici anche i suoi confini geografici, tra l’ex Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese. L’estinzione della prima permise alla Repubblica mongola di autodeterminarsi garantendo alla sua popolazione una democrazia reale e i diritti di una effettiva libertà religiosa.

La visita del Papa, opportunamente preparata dalla missione di mons. Gallagher, avviene dietro invito – del resto indispensabile per un viaggio pontificio – del Presidente della Repubblica mongola. È intuibile che i due interlocutori abbiano nella loro agenda molti punti da discutere, nel comune impegno di alimentare una proficua collaborazione tra lo Stato e la Chiesa a beneficio della nazione erede dell’antico impero fondato da Gengis Khan. Inoltre, la dimensione universale della Chiesa cattolica potrà facilitare efficacemente la sintonia e la sinergia delle due autorità sovrane, pur situate su piani diversi, nel concerto internazionale di cui fanno parte, per favorire la pace nel mondo gravemente minacciata in diverse aree della terra. In proposito, il riferimento più immediato è alla guerra scatenata in Ucraina dalla Russia, confinante con la Mongolia per ben 3.485 chilometri. Infine, i positivi rapporti tra Santa Sede e Mongolia costituiscono un fulgido modello da seguire da parte di altri Stati, per i quali è augurabile una svolta a sicura tutela dei diritti umani, primo fra tutti quello della libertà religiosa.

La Santa Sede e Pechino

In questo quadro, il prossimo viaggio del Papa assume un terzo significato che trascende sia i confini della Chiesa in Mongolia sia i rapporti bilaterali tra la Santa Sede e la Repubblica mongola. Investe direttamente il Paese più popolato del mondo, la Cina, alle porte della quale Francesco bussa da tempo per entrarvi al fine di sviluppare un dialogo costruttivo con la Repubblica Popolare Cinese, superpotenza sulla scena mondiale. La Mongolia ha legami storici, geografici, culturali ed economici molto stretti con il Paese di Confucio, perché i due Stati confinano tra loro per ben 4.677 chilometri e anche perché la Cina incorpora una popolazione di etnia mongola nella regione autonoma chiamata Mongolia interna. Perciò il messaggio che Francesco lancerà dalla capitale Ulan Bator non potrà non avere forti risonanze soprattutto a Pechino.

I rapporti tra la Santa Sede e lo Stato più grande dell’Asia non sono mai stati facili. Essi, nella prima metà del secolo scorso, furono molto ostacolati dalla Francia, che sui cristiani in terra cinese faceva pesare il suo protettorato, mentre esercitava sulla Repubblica di Cina un’egemonia di tipo coloniale, con la complicità di altre potenze europee.
Fu Celso Costantini, primo delegato apostolico in Sinis, a inaugurare una fase nuova, in pieno accordo con la Sede Apostolica. Egli si mosse secondo una strategia basata su tre direttrici, generalmente non ben vista dai missionari occidentali in Cina: staccare le missioni cattoliche dall’abbraccio nefasto delle potenze coloniali; “piantare” la Chiesa tra gli eredi del Celeste Impero con vescovi, preti e religiosi indigeni; inserire la linfa del Vangelo nelle vene della cultura cinese.

L’attuazione di questo programma conobbe tappe storiche indelebili: nel 1924 Celso Costantini convocò e presiedette il Primo Concilio Cinese a Shanghai, che consacrò la grande svolta; nel 1926 a Roma furono consacrati da Pio XI e dallo stesso Costantini i primi sei vescovi cinesi, messi a capo di altrettante circoscrizioni ecclesiastiche; nel 1927 Costantini fondò il primo Istituto religioso clericale indigeno, tutt’ora fiorente in Estremo Oriente; nel 1928 ottenne il riconoscimento legale dell’Università cattolica Fu Jen a Pechino, aperta l’anno prima; nel 1929 fondò l’Associazione generale della Gioventù Cattolica Cinese. Quando il primo delegato apostolico a Pechino concluse il suo mandato nel 1933, lasciò una comunità in sviluppo con ben 23 vescovi indigeni, che furono i predecessori degli attuali presuli cinesi. Nel contempo, il numero di fedeli autoctoni raggiunse i tre milioni su una popolazione di circa quattrocento milioni.

Va a merito del cardinale Celso Costantini essere stato pure il principale tessitore della trama che portò alle piene relazioni diplomatiche stabilite tra la Repubblica di Cina e la Santa Sede negli anni Quaranta del secolo scorso. Poi la rivoluziona maoista scatenò una persecuzione crescente nei confronti dei cattolici, espulse nel 1951 il nunzio apostolico mons. Antonio Riberi e “congelò” ogni relazione con Roma. Un lento disgelo tra la Repubblica Popolare Cinese e la Sede Apostolica si verificò durante i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Quest’ultimo nel 2007 inaugurò una linea nuova, tesa a creare qualche spazio alla libertas Ecclesiae e a porre fine alla frattura creatasi tra vescovi e fedeli ufficialmente riconosciuti dal governo, da una parte, e presuli “clandestini” alla guida di comunità civilmente non riconosciute, dall’altra parte. Tuttavia, Papa Ratzinger non ebbe la soddisfazione di concretizzare alcunché di quanto sperato, impresa che invece riuscì parzialmente al suo successore.

Francesco e Xi Jinping

Nel mese di marzo 2013 Francesco e Xi Jinping assursero in contemporanea ai rispettivi alti incarichi di successore di Pietro e di capo indiscusso della Repubblica Popolare Cinese. Allora papa Bergoglio mandò un messaggio gratulatorio al Presidente cinese, che gli rispose con riconoscenza. Dal mese di giugno 2014 i rappresentanti delle due autorità sovrane iniziarono un percorso di avvicinamento mediante contatti reciproci, frequenti, regolari, ufficiali, ma molto riservati. Essi giunsero all’Accordo provvisorio, della durata di due anni, firmato il 22 settembre 2018 in una riunione tenutasi a Pechino tra mons. Antoine Camilleri, sottosegretario per i rapporti della Santa Sede con gli Stati, e da S.E. il sig. Wang Chao, viceministro degli affari esteri della Cina. Il testo dell’Accordo, entrato in vigore un mese dopo, fu confermato nel 2020 e riconfermato nel 2022 fino al 2024. Il suo contenuto è stato mantenuto segreto. Fu comunicato solo il suo oggetto essenziale: la nomina dei vescovi in Cina viene concordata tra il Papa e la Repubblica Popolare Cinese.

L’accordo, oltre che provvisorio, è parziale. Non affronta altri problemi aperti tra le due parti, come i seguenti: la libertà religiosa dei fedeli cinesi e la loro uscita indenne dalla clandestinità; il ridimensionamento del ruolo della Associazione Patriottica Cattolica Cinese, che in passato ha esercitato funzioni in contrasto con la costituzione della Chiesa cattolica; il riordino delle circoscrizioni ecclesiastiche – che per la Santa Sede sono 135 più la nuova diocesi di Chengde, istituita dal Papa nel 2018, mentre il regime cinese le aveva ridotte a 98; l’erezione canonica della Conferenza episcopale nella terra di Confucio attualmente invalidamente costituita dell’autorità statale; l’impatto delle norme civili emanate dal governo di Pechino sulla comunità cattolica del Paese, incompatibili con quelle canoniche.

L’impegno del Papa nel proseguire per la via del dialogo con le autorità cinesi è estremamente forte e deciso – nonostante il vento contrario elevatosi persino all’interno della comunità ecclesiale nella terra di Confucio – in vista di risolvere gradualmente i diversi problemi sopra segnalati. La visita di Francesco alla Mongolia offre una preziosa possibilità che sollecita le autorità di Pechino a cercare maggiori convergenze con la Sede Apostolica per il bene non solo dei cattolici cinesi, che ammontano ad almeno 15 milioni, ma anche dell’intero popolo, fiero di una civiltà ultra-millenaria. Questa stessa tradizione di civiltà dovrebbe invogliare la Repubblica Popolare Cinese ad assecondare i valori etico-spirituali che stanno tanto a cuore alla Santa Sede, nella comune ricerca di soluzioni pacifiche, fino a giungere, se Dio vorrà, a piene relazioni diplomatiche tra i due soggetti di diritto internazionale.

1 Il primo articolo è di D. Castellano Lubov, «L’arrivo del Papa in Mongolia incoraggia fedeli e missionari», L’Osservatore Romano (5 giugno 2023), il quale riposta un’intervista al cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator. Il secondo articolo, nella stessa pagina del medesimo quotidiano, è intitolato «L’arcivescovo Gallagher nel Paese asiatico nel quadro delle relazioni bilaterali», ma non è firmato.

2 Vedasi B. F. Pighin, «A 100 anni dalla “Maximum illud”: il suo legame con l’evangelizzazione in Cina», Ephemerides Iuris Canonici 59 (2019), pp. 137-165.

3 Gli atti di detto concilio, rimasto finora unico della Chiesa cattolica in Cina, sono pubblicati in Primum Concilium Sinense, Anno 1924 a die 14 maii ad diem 12 iunii in ecclesia S. Ignatii de Zi-Ka-Wei celebratum, Acta – Decreta et Normae – Vota, ecc., Zi-Ka-Wei 1929.

4 Costantini, Con i Missionari in Cina (1922-1933): memorie di fatti e di idee, vol. I, Roma 1946, pp. 339-347.

5 F. Pighin-S. Ee Kim Chong, Il primo istituto religioso clericale cinese. La “Congregatio Discipulorum Domini” fondata nel 1927 da Celso Costantini, Venezia 2022.

6 In materia vedasi A. A. Nasr, Un ponte con la Cina. Il Papa e la Delegazione apostolica a Pechino (1919-1939), Venezia 2021, pp. 91-137.

7 F. Pighin, «I rapporti diplomatici tra Chiesa cattolica e Repubblica di Cina: un lungo percorso giunto felicemente alla meta», Ephemerides Iuris Canonici 55 (2015), pp. 99-118.

8 Benedetto XVI, «Lettera ai Vescovi, ai Presbiteri, alle Persone Consacrate e ai Fedeli Laici della Chiesa cattolica nella Repubblica Popolare Cinese», 27 maggio 2007, Acta Apostolicae Sedis 90 (2007), pp. 553-581.

9 Giovagnoli, «La Chiesa in Cina sulle orme di Celso Costantini a una svolta storica», Ephemerides Iuris Canonici 59 (2019) 167-183.

10 In precedenza i due predecessori di Francesco inviarono messaggi alle supreme autorità della Cina, ma non ottennero risposta.

11 B.F. Pighin, «Per un accordo tra Santa Sede e Governo cinese sulla nomina dei Vescovi nella terra di Confucio», Ephemerides Iuris Canonici 57 (2017), pp. 567-588.