È un venerdì qualsiasi di metà ottobre: la giornata è limpida, il cielo sopra la baia di New York è azzurro, non c’è una nuvola che ne interrompa il colore. Manca poco ad Halloween, che qui in America è a tutti gli effetti una festività, eppure la temperatura è gradevole: si può addirittura stare senza giacca. Mi trovo su un traghetto, non molto grande e con poche altre persone a bordo, il tratto di mare da percorrere è davvero breve, in netto contrasto con il ferry che sta partendo nello stesso momento proprio sulla mia destra: quello è ricolmo di gente, sottocoperta e sul ponte. È il traghetto che porta a Liberty Island, la casa della Statua della Libertà. La mia meta, invece, è molto meno turistica, molto meno affollata, nonostante la splendida giornata: sto andando a Governor’s Island. Se non l’avete mai sentita nominare non è strano. Si tratta di un luogo aperto al pubblico solo di recente: fino al 2005 è stata una zona militare, interdetta ai non addetti ai lavori. E solo dal 1904 è un isolotto di centosettantatrè acri, prima era poco meno di cento, fu poi ingrandita con le macerie dei lavori della prima rete metropolitana della città. Ora è una pacifica oasi nel mezzo della baia newyorchese proprio di fronte alla selva di grattacieli di Manhattan. Da qui lo sguardo spazia tranquillamente anche su Brooklyn e sul ponte Giovanni da Verrazzano che collega Staten Island laggiù a est con Brooklyn. Nella zona meridionale dell’isola c’è anche un punto panoramico da cui si gode di una vista privilegiata su Lady Liberty.

Appena sbarcata sull’isola, mi accoglie Judy, un’arzilla signora sui settant’anni e capelli corti, originaria di Milwaukee, ma che vive da anni a Brooklyn, che si propone di farmi da guida per un tour dell’isola: accetto subito. Partiamo alla scoperta di questo grande parco con i suoi colori autunnali: rosso, marrone, arancione. Ci sono zucche dovunque, la grande festa della zucca sarà tra qualche giorno.

Judy, nel frattempo, mi racconta la storia dell’isola, del suo ruolo strategico per la difesa della città durante la guerra di indipendenza dagli inglesi – sull’isola ci sono ben tre fortificazioni – delle personalità che sono passate di lì, da George Washington a Ronald Reagan, che proprio in una delle ville stile coloniale dell’isola ha incontrato per la prima volta Michail Gorbaciov.

Nel silenzio di questo luogo, la squillante voce di Judy ci narra di spie russe scomparse nel nulla e soldati italiani fatti prigionieri, indietro nel tempo fino a quando a New York non si parlava inglese, ma olandese e la città si chiamava Nuova Amsterdam. E Governor’s Island era Noten Eylandt, “l’isola delle noci” in lingua olandese che a sua volta era la traduzione di Paggank, l’antico nome datole dai Lenape, la popolazione di nativi che abitava la baia prima dell’arrivo degli europei.

Qui Judy mi racconta una storia particolare: secondo lei New York è una città più olandese che anglosassone. La sua anima cosmopolita, aperta, rumorosa, piena di vita, il via vai di persone diverse per età, religione, colore della pelle, il caos delle lingue che si sentono  mentre cammini per strada, il suo spirito accogliente – una visita alla famosa Ellis Island è necessaria – nascono proprio nel periodo olandese, quando la baia apparteneva alla Compagnia delle Indie occidentali, che sì batteva bandiera olandese, ma nella realtà era un’entità sovranazionale, votata al commercio e agli scambi. L’anima di New York è un’anima mercantile. Un luogo di continui traffici, spostamenti di persone, cose, un luogo in costante cambiamento: lo skyline della città, oltre che alle sue inconfondibili torri di vetro e acciaio è caratterizzato dalle impalcature: nuovi palazzi e grattaceli nascono, senza soluzione di continuità in ogni momento dell’anno.

C’è un detto che descrive perfettamente New York: “la città che non dorme mai”. Ed è vero. A qualsiasi ora del giorno e soprattutto della notte il via vai di persone è continuo. La metropolitana, sette giorni su sette per 24 ore al giorno accoglie, trasporta, butta fuori centinaia di migliaia di persone, le strade di Midtown sono affollate di turisti ogni ora – è difficile trovarci un newyorchese, ammesso che ne esistano ancora o ne siano mai esistiti – i rooftop dei grattacieli sono presi d’assalto, dall’Empire State al Top of the Rock,  dal nuovissimo Summit sopra la stazione Centrale da cui si vede tutta Manhattan e Central Park, oppure al One World Observatory al 101° piano del grattacielo nato sulle ceneri delle Twin Towers, che sulla punta meridionale della penisola permette un inedito scorcio sulla baia, sulla Statua della Libertà, e spazia fino al New Jersey. La sensazione che ti lascia la città è di grandezza: qui tutto è esagerato. Palazzi e grattacieli proiettano ombre gigantesche sulle Avenue, automobili enormi – nessuno in città ha l’utilitaria, girano tutti con il suv e non ci sono moto o motorini, le porzioni di cibo sono esorbitanti, il caffè non esiste espresso o ristretto ma l’unità base è quello americano lunghissimo, i cookies sono grandi come una mano: tutto è huge e tu ti senti piccolissimo.

Il cuore pulsante, caotico della città è Times Square, dove si incrociano la Settima Avenue e Broadway: qui vieni abbagliato dalle luci neon dei cartelloni pubblicitari che illuminano a giorno la strada a qualsiasi ora, dal rumore delle voci dei turisti, dei venditori ambulanti di hotdog – in vendita a quattro dollari l’uno, New York non è una città economica: qui l’odore di benzina misto al bollito che emanano i camioncini ti nausea, e le urla dei venditori di biglietti per i bus turistici scoperti ti rintronano. Per strada è tutto un fragore di clacson e di motori di macchine e di sirene di ambulanze e di camion dei vigili del fuoco: quando riesci a raggiungere un luogo più silenzioso è come quando esci da un concerto o da una discoteca: le orecchie pulsano, hanno bisogno di tempo per riabituarsi.

Per trovare un po’ di pace dal rumore e vedere un scorcio di città più tranquillo, e dove forse trovare qualche cittadino locale, è meglio inoltrarsi nei quartieri di Lower East Side e del West Village, dove ti accolgono il silenzio e un reticolo di stradine tutte uguali e ordinate: qui puoi perderti senza timore e passeggiare lungo le schiere di case a due o tre piani, ognuna con le sue pittoresche scale a zig zag sulla facciata e, se si va in ottobre, con le scale d’ingresso traboccanti di zucche, fantasmi, scheletri a ragni penzolanti in attesa della notte di Halloween. Qui puoi incontrare anche i newyorchesi: se vai molto presto ci sono uomini e donne in giacca e cravatta e tailleur che corrono verso la metro e il Financial District, se passi più tardi incontri qualcuno che fa jogging, e quando ci sono stata io ce ne erano tantissimi – la maratona di New York d’altronde è il 6 novembre, a poche settimane – chi porta a passeggio il cane, chi chiacchiera. Tendenzialmente hanno tutti in mano un inconfondibile bicchierone di carta con coperchio con caffè americano o qualche altro intruglio rigorosamente pieno di ghiaccio.

Un altro posto dove andare in cerca di veri americani è una partita di qualche sport: per gli statunitensi l’attività sportiva e la competizione sono un momento sacro e lo sport fa parte in modo indissolubile della loro cultura. A New York la scelta davvero non manca: dai Knicks e i Nets del basket, ai Rangers e gli Islanders dell’hockey, alle squadre di calcio, City e Red Bulls. E naturalmente gli Yankees di baseball che sono poco meno di una religione (ci sono i cugini Mets): tutti a New York hanno cappellino il simbolo NY sovrapposto. E il football americano: una domenica ho preso il trenino da New York diretto in New Jersey dove si trova il Metlife, lo stadio dove giocano le partite in casa le due squadre di New York: i Giants e i Jets. In programma c’era la terza giornata della regular season, Giants contro i Ravens di Baltimora. Al di là della partita, è il contesto a rendere tutto straordinario.

Nel piazzale dello stadio mi accoglie una distesa di macchine, un brulicare di persone e musica a tutto volume che arriva da un camioncino con i portelloni posteriori spalancati. Tutto intorno centinaia di persone vestite di blu (Giants) e viola (Ravens) chiacchierano, gridano intorno ai barbecue portatili: ogni pochi metri c’è una macchina con il baule aperto, sedie e tavoli da campeggio e gente che griglia e fiumi di birra. L’atmosfera è rilassatissima, non c’è polizia in tenuta antisommossa o corridoi dedicati solo ai tifosi ospiti: dovunque è un confondersi di colori avversari. Niente a che vedere con le partite di calcio in Italia: anche comprare un biglietto in America è semplice. Niente settori ospiti, tessere del tifoso, trasferte vietate.

Dentro lo stadio, cerco subito il baracchino del merchandise per comprarmi il mio bel cappellino blu e mi avvio sulle scale mobili verso il mio posto: nei corridoi e sugli spalti è un continuo andirivieni di uomini, donne, bambini, con le mani piene di vassoi che traboccano di panini, patatine, pollo fritto, bicchieroni di birra e Pepsi e sarà così per tutta la durata della partita: il football americano è un gioco molto spezzettato, ci sono pause in continuazione per il cambio dell’attacco e della difesa, per lo special team, per i time out. La partita dura anche quattro-cinque ore e il via vai sugli spalti è continuo, ma la regola è sempre una sola: fare festa e divertirsi insieme, possibilmente con hot dog e birra.

Purtroppo, non ho avuto l’occasione di vedere una partita di baseball dal vivo, lo sport americano per eccellenza, con la squadra per eccellenza: per una visita allo Yankee Stadium, mi toccherà tornare a New York.