M.S. – Natalia Sanmartin Fenollera (Galizia, 1970, foto) è una delle più vivaci e promettenti scrittrici spagnole. Il suo primo romanzo, Il risveglio della signorina Prim (Mondadori 2014), è diventato un caso internazionale: racconta le avventure di Prudencia Prim, una donna giovane e brillante, ma stanca dello stress della nostra società. Troverà un nuovo orizzonte di senso (e forse anche l’amore…) nel magico mondo di Sant’Ireneo de Arnois, un quieto paesino che ha dichiarato guerra alla frenesia della modernità. Presentiamo l’intervento che la Fenollera ha tenuto lo scorso aprile al Convegno Scrivere. Per chi e perché. Gioie e fatiche dell’artista organizzato dalla Pontificia Università della Santa Croce di Roma.
Non ho una lunga esperienza come scrittrice. Il risveglio della signorina Prim è il mio primo romanzo e quando ho iniziato a scriverlo non sapevo nemmeno se sarebbe stato pubblicato e non potevo in alcun modo immaginare che sarebbe stato poi tradotto in otto lingue, tra cui l’italiano e l’inglese, e venduto in oltre settanta Paesi.
Perché non potevo immaginarlo? Non solo perché era il mio primo libro, ma anche perché la mia intenzione nello scriverlo non era quella di raccontare una storia, ma di discutere alcune idee che oggi si danno per certe e incontestabili. Se dovessi definire Il risveglio della signorina Prim, direi che è una storia apparentemente semplice, con quella semplicità tipica delle fiabe, è però anche una storia costellata di cannoni. Sono dei cannoni strani, perché sono coperti di zucchero e cioccolato, come la casa di Hansel e Gretel, ma sono pur sempre dei cannoni. La storia inizia con l’arrivo di Prudencia Prim, una donna giovane indipendente e piena di titoli accademici, a Sant’Ireneo de Arnois, un quieto paesino i cui abitanti hanno dichiarato guerra al mondo moderno. La signorina Prim è arrivata in risposta a un annuncio di lavoro pubblicato da un gentiluomo ferocemente antimoderno e irritantemente tradizionale, che ha bisogno di una bibliotecaria per ordinare i suoi libri. Lo scontro tra queste due personalità, opposte e forti, e la frequentazione dei peculiari abitanti del luogo metteranno a repentaglio buona parte delle ferme convinzioni dell’autosufficiente Prudencia Prim e cambieranno la sua vita per sempre.
Non si tratta di un thriller, non è un romanzo poliziesco né un noir, non è nemmeno una storia erotica, né una narrazione storica. Che cos’è allora? Sono solita dire che è una fiaba, nel senso che non è un romanzo realista, nonostante parli di cose profondamente reali. Ha la licenza delle fiabe, che ci permettono di intensificare i colori in certi aspetti e renderli più morbidi in altri, e che permettono la libertà di variare i punti di vista e di forzare lo sguardo per concentrare l’attenzione su cose che a volte passano inosservate.
Dai ribelli di Sant’Ireneo alla scoperta dell’amore
Quando iniziai a scrivere Il risveglio della signorina Prim mi proposi di costruire una storia che potesse essere letta su tre piani differenti, perché ogni lettore potesse scegliere il proprio. Il primo modo è di leggerla come una storia di costume che si svolge in un paesino particolare e, parallelamente, come una storia d’amore. È la lettura che hanno fatto in molti. Ma è una lettura che sa di poco, perché come storia d’amore è troppo contenuta per i canoni attuali e perché il libro non è una storia d’amore. Almeno non nel senso che oggi diamo a questo termine, anche se contiene una storia d’amore con la a minuscola e un’altra con la A maiuscola.
Il secondo modo per avvicinarsi al libro – e qui troviamo già uno dei cannoni – è come una dichiarazione di guerra, come un grido di ribellione contro la modernità e i suoi demoni. La storia affronta lo scontro tra due modi radicalmente diversi d’intendere il mondo: quello tradizionale, rappresentato dagli abitanti di Sant’Ireneo, e quella moderno, difeso dalla signorina Prim. Gli ireniti, chiamiamo così gli abitanti di Sant’Ireneo, sono profondamente ribelli, ma è una ribellione un po’ speciale, perché non guarda in avanti, ma indietro, non rivendica il nuovo ma il vecchio, non cerca il futuro nel futuro ma nel passato.
Questa idea di cercare il futuro nel passato sembra una contraddizione. Specialmente per noi che siamo soliti associare la ribellione all’idea di rifiutare o distruggere qualcosa d’insoddisfacente per costruire al suo posto qualcosa di nuovo e di migliore. Ma in realtà si tratta di una di quelle idee che di solito non si mettono in dubbio e di cui invece la storia insegna a dubitare. Se pensiamo ai tempi successivi alla caduta di Roma, per esempio, vediamo che i popoli romanizzati sentivano nostalgia del passato e guardavano con ansia il futuro: lo vedevano molto scuro, perché erano rasi al suolo da invasioni di tribù barbare che distruggevano tutto ciò che trovavano sulla loro strada. A quella gente mancavano i vecchi tempi con l’ordine, l’amministrazione e il diritto che Roma aveva portato fino agli ultimi angoli dell’impero. Per loro il progresso non era avanti, piuttosto era rimasto indietro.
C’è una commovente terribile desolazione nei testi che narrano quel crollo, quell’oscuramento della civiltà. È la voce di uomini che guardano il presente con orrore, che non possono nemmeno immaginare il futuro e che piangono un passato perduto. San Girolamo, per esempio, che tanto amò e studiò nella sua giovinezza i grandi autori latini, parla del sacco di Roma a opera di Alarico in questo modo: «La mia voce si spegne nella gola mentre detto, i singhiozzi coprono le mie parole. La città che conquistò il mondo è stata a sua volta conquistata… La più brillante luce dell’orbe intero si è estinta, è stato decapitato l’impero romano. Per dirlo chiaramente, il mondo muore insieme a una città. Chi avrebbe mai pensato che Roma, edificata sulle vittorie nel mondo intero, sarebbe dovuta cadere e trasformarsi a sua volta in madre e tomba di tutti i popoli?».
Per i popoli di quei tempi progredire non significava abolire vecchie strutture, ma cercare di resistere alla distruzione, di conservare frammenti di civiltà. La Breve storia dell’Inghilterra di Chesterton spiega molto bene questo paradosso. Chesterton sosteneva, con quel buon senso che lo caratterizzava, che la parola progresso in sé stessa indica solo una direzione: in avanti. Ma soltanto un insensato prenderebbe una direzione come un fine. Perché non è la stessa cosa progredire verso una valle di latte e miele o verso un oscuro precipizio.
Gli abitanti di Sant’Ireneo de Arnois, il paesino in cui arriva la signorina Prim, hanno la sensazione che la civiltà attuale abbia davanti a sé un precipizio e non una fertile valle. Sostengono l’idea che viviamo in un’epoca inquietante: sembra che il sole stia calando, le verità siano impazzite e gli uomini abbiano perso la capacità di riconoscerle.
Fuga dal mondo moderno per una vita più libera
Molti lettori mi domandano dove sia Sant’Ireneo o se esista un luogo come quello tratteggiano nel romanzo oppure se è semplicemente un’utopia. La risposta è che Sant’Ireneo è un luogo fittizio, ma non è un’utopia, perché si tratta di un tipo di comunità che è nel Dna dell’Europa, è nelle nostre fondamenta. Un minuscolo paesino nato attorno a un polmone spirituale, che nel romanzo è un’abbazia benedettina di rito romano tradizionale, nel quale si conservano vecchie e sagge idee, come quella che ci ricorda che la vita umana deve essere soggetta a un ordine per essere veramente umana. Un luogo dove si coltivano i vincoli di vicinato, esistono famiglie solide, l’economia è piccola e i suoi abitanti combattono una battaglia per conservare il meglio di un passato senza il quale non si può comprendere il presente né si può affrontare il futuro.
Gli ireniti sono fuggiti dalla vita moderna, da un mondo smisurato e pieno di rumore, da una cultura occidentale che ha perso la scala dell’umano e ha dimenticato un’altra antica idea, come sono belle le vecchie idee che sopravvivono alle giovani vite degli uomini: che il mondo deve essere a misura d’uomo e non il contrario.
La terza lettura è la più importante e anche quella meno evidente. Le avventure di Prudencia Prim a Sant’Ireneo de Arnois narrano la storia di una conversione religiosa, che non tutti i lettori scoprono perché è raccontata al modo della lettera rubata di Poe. È così presente, è così in vista, tanto immersa tra i fili del romanzo… che molti non la vedono.
Perché fare in questo modo? Raccontano che un giorno Evelyn Waugh, uno dei miei scrittori preferiti, era a una festa e a un tratto gli si avvicinò una signora per fargli dei complimenti a proposito del suo ultimo libro. Waugh, che era acido e corrosivo come pochi, le rispose in un modo così brusco che fece sì che l’ammiratrice esclamasse: «Come è possibile che lei, essendo cristiano, sia così sgradevole?». E lui rispose: «Ciò che lei non sa, signora, è che prima di essere cristiano io ero appena umano».
Ricordo Evelyn Waugh e questa percezione così chiara che aveva dell’effetto della grazia su sé stesso perché Ritorno a Brideshead è stato per me un modello al momento di plasmare la storia di conversione contenuta ne Il risveglio della signorina Prim. Waugh cercò di esporre in quel magnifico romanzo, per quanto sia possibile spiegarlo, come la grazia ci guida attraverso gli avvenimenti della nostra vita, attraverso le persone che conosciamo, attraverso le nostre gioie e le tristezze, attraverso la contemplazione della bellezza e specialmente attraverso le molte ferite e le cadute. È ciò che, con tutte le limitazioni che il tema richiede, ho tentato di fare nel libro ed è ciò che spiega perché le chiavi di questa terza lettura non siano evidenti come le altre. Perché di solito Dio non è evidente, sarebbe tutto molto più semplice se lo fosse, ma in realtà non lo è, e ciò è qualcosa che conoscono particolarmente bene i convertiti: è l’esperienza della grazia che agisce in modo soave, che parla piano, che parla all’udito, senza fretta, senza forzare, con delicatezza.
Lo stesso Waugh disse una volta che convertirsi era come salire attraverso una ciminiera e passare da un mondo di ombre, dove tutto era come una caricatura delle cose, al mondo reale. L’epitaffio del cardinale britannico John Henry Newman raccoglie un’idea simile: «Dalle ombre e dai simboli verso la verità». Nelle Cronache di Narnia di C.S. Lewis troviamo un personaggio che spiega come le terre di Narnia siano un’ombra o una copia «della Narnia reale, che è sempre stata qui e qui sarà». E la signorina Prim si sconcerta quando un pomeriggio quattro bambini le spiegano in un giardino che il Vangelo è una fiaba reale, non perché assomiglia alle fiabe, ma perché le fiabe assomigliano al Vangelo. È l’idea affascinante sulla rivelazione come mito vero che sostenevano Tolkien e Lewis.
La scala di Prudencia & la fonte dell’Amore
È anche in questa terza lettura che si inquadra la storia d’amore della signorina Prim. Prudencia percorre tutta la scala dell’amore nel romanzo. All’inizio della storia, quando arriva a Sant’Ireneo, ama principalmente sé stessa, protegge accuratamente la sua autostima ed è molto preoccupata della sua dignità. Poi scopre un secondo tipo di amore, l’amicizia, mentre va conoscendo a poco a poco gli ireniti e si va integrando nel paese. Poi ne arriva un terzo, l’amore tra l’uomo e la donna. Un amore che è realmente possibile solo quando si raggiunge il quarto, la fonte di tutti gli altri: l’Amore divino. È allora che tutto si ordina, l’amore per sé stessa, l’amore per gli altri, tutto occupa il posto giusto quando s’incontra l’Amore con la A maiuscola.
Nella storia d’amore tra i due protagonisti del libro, la signorina Prim e l’uomo che l’ha contattata per organizzare la biblioteca, c’è la lotta di due personalità totalmente diverse. Diverse non solo per la loro concezione del mondo, ma per il modo che ciascuna ha di accostarsi alla realtà. Lui rappresenta la ragione, una ragione illuminata dalla fede – perché è un convertito – che è l’unico modo perché la ragione non cada nella tentazione di trasformarsi in un mostro cieco. Lei rappresenta il sentimentalismo, che è una vecchia patologia della ragione o, se si preferisce, dei sentimenti, che crescono, debordano e occupano un luogo che non gli spetta, qualcosa che gli antichi diagnosticarono molto bene. La signorina Prim è molto sensibile, ama l’arte e la bellezza, ma pensa con il cuore anziché con la testa. E il cuore ha una funzione meravigliosa e unica – amare – ma fallisce quando lo si utilizza per ciò per cui non è stato creato.
A scuola dagli ireniti, tra saghe, classici & fiabe
Altri cannoni ricoperti di zucchero. Contro quali altri bersagli sparano gli ireniti? Il femminismo come ideologia e specialmente l’educazione moderna sono alcuni di essi. Una delle prime sorprese della signorina Prim è che a Sant’Ireneo de Arnois esiste uno speciale sistema educativo che sbigottisce e scandalizza la bibliotecaria. Gli ireniti educano a casa ed educano in comunità; i bambini ricevono lezioni da diversi abitanti del paese: chi conosce la biologia fa lezioni di biologia; chi è esperto in letteratura, di letteratura; chi si dedica alla matematica, di matematica. C’è una maestra in paese che insegna ai piccoli il trivio, i tre «attrezzi» – drammatica, retorica e dialettica – che fino a non molto tempo fa erano ritenuti imprescindibili per imparare a pensare. La lettura è assolutamente essenziale in questa piccola comunità, con un fervore reverenziale per i classici. Al punto che i suoi abitanti si proclamano orgogliosi che la maggior parte di ciò che il mondo chiama letteratura, Sant’Ireneo lo chiama perdere tempo.
Molti lettori mi domandano se la speciale relazione tra l’infanzia e la letteratura che si ricrea nel libro sia possibile. I bambini ireniti crescono attorniati da fiabe, da buona letteratura infantile, da vecchi poemi, saghe e leggende, da classici, molti classici. Sono bambini capaci di godere de Il vento tra i salici, di Kenneth Grahame, ma anche di riconoscere dei versi di Virgilio in latino. Crescono in un focolare nel quale si può imparare ad amare Peter Pan, Alice nel paese delle meraviglie o le fiabe, ma anche l’Odissea e l’Iliade, i romanzi medievali, Robinson Crusoe oppure Oliver Twist. Altra utopia? È vero che se uno guarda la letteratura infantile del XIX secolo e gli inizi del XX e la confronta con molte delle opere che oggi si scrivono per bambini, giunge alla conclusione che o i bambini di adesso sono meno intelligenti di prima oppure la società li considera meno intelligente di quanto sono. Io credo che la seconda sia la risposta corretta. A questo bisogna aggiungere che ci siamo abituati a chiamare utopie le cose che i nostri predecessori non ritenevano assolutamente irraggiungibili. C’è un aneddoto, ed è un esempio tra i molti, sull’infanzia di Tolkien che serve a illustrare questa idea. Tolkien fu educato in casa sotto la tutela di sua madre, una donna di classe media che aveva ricevuto una buona istruzione. Con il suo aiuto cominciò a leggere a quattro anni e apprese latino, francese e tedesco ai sette, prima di andare a scuola. Ronald Knox, altro convertito britannico (Evelyn Waugh scrisse la sua biografia), a sette anni componeva teneri poemi in latino. Ed ecco Bernard Shaw, che con l’ironia che lo caratterizzava diceva che la sua educazione finì ai sette anni, giusto il giorno in cui i suoi genitori lo mandarono a scuola.
Io sono cresciuta in un’epoca, gli anni Settanta, nella quale i libri non erano classificati per età e nessuno si stupiva che un bambino sfogliasse un’opera classica e perfino che vi scarabocchiasse sopra. Sono cresciuta in una famiglia numerosa, in quell’atmosfera rumorosa, libera e mezzo selvaggia che si respirava allora nelle famiglie molto grandi. Sono cresciuta con molti fratelli e anche con molti poemi, leggende e fiabe; e classici, molti classici, a portata dei bambini.
L’anno scorso, quando ho presentato Il risveglio della signorina Prim in Germania, ho avuto una conversazione su questo tema con un anziano professore di letteratura che mi ha detto con una tristezza enorme: «I bambini tedeschi non conoscono più Goethe, non viene più letto loro». In un certo senso noi europei siamo diventati come quei nani dei racconti che sono seduti su un tesoro e non hanno tempo per sfruttarlo. Un tesoro di tradizione e cultura di un valore incalcolabile, che è il miglior regalo che uno può dare ai suoi figli. C’è una vecchia Europa costruita con sogni e favolose storie piene di eroi, boschi, draghi, pantani, guerrieri, anelli magici, streghe e cavalieri, mostri, incantesimi, coraggio e sacrificio e che hanno una forza tale che è difficile non sentirsi soggiogati. Questo linguaggio magico delle fiabe, dell’epoca medievale e delle saghe nordiche precristiane è straordinariamente efficace per trasmettere ai bambini verità che non sono facili da esprimere in altro modo. Ricordo che la prima volta che lessi a quattro miei nipoti molto piccoli il Beowulf, nella versione di Tolkien, ascoltarono tutta la storia senza battere ciglio. Questa forza è quasi un incantesimo elfico, è meravigliosa. Sant’Ireneo combatte una battaglia anche per preservare la magia che esiste nell’infanzia. Ci siamo abituati al fatto che i bambini siano presenti continuamente nel mondo degli adulti, che siano al centro delle riunioni e molte volte delle conversazioni. Ma non molto tempo fa, il mondo infantile era una cosa a parte, un paese caldo, sicuro e magico, e questa magia proveniva in buona misura dal non essere esposti agli interessi e problemi degli adulti e dal non essere considerati il centro di qualsiasi riunione. Sant’Ireneo conserva questa magia: quando la signorina Prim penetra in un angolo del giardino in cui i bambini della casa giocano, entra in un mondo al quale non appartiene e che ha le sue leggi proprie. Lei è un’estranea e un’adulta; e loro sono bambini. Sono razze diverse e i loro mondi hanno logiche diverse.
Dovrei parlare di un movente che spieghi perché questo libro, che difende la tradizione di fronte al culto cieco del progresso e che in sé stesso è una storia di conversione, è stato ben recepito da numerosi lettori che si allineano con questo progresso e che non sono assolutamente religiosi. Credo che la chiave sia che non si tratta di una storia scritta specialmente per i cristiani e che non ha alcuna intenzione apologetica. Un racconto semplice che parla di qualcosa che è stato nel cuore umano da sempre: la ricerca del paradiso perduto, l’indefinibile sensazione di nostalgia che tutti portiamo scritta nel cuore. Una nostalgia che a volte ha il sapore dell’infanzia e che nemmeno il rumore, l’attività frenetica, la dismisura di un mondo che non ha più tempo per riflettere sulle vecchie domande, può del tutto tacitare. Il risveglio della signorina Prim inizia con una frase di Newman, presa da uno dei sermoni della sua tappa anglicana, che spiega magistralmente il perché di questa ricerca, di questa insoddisfazione perenne che si trascina l’essere umano: «Credono di avere nostalgia del passato ma in realtà la loro nostalgia ha a che vedere con il futuro». Termino con la citazione di un altro britannico, Robert Hugh Benson, un altro convertito molto speciale per me. Benson era figlio dell’arcivescovo di Canterbury e chierico anglicano, nato nell’epoca vittoriana, scrisse un piccolo libro intitolato Confessioni di un convertito nel quale racconta ciò che siamo con la semplicità e la bellezza magica di una fiaba. «Tutti noi non siamo altro che un gruppo di bambini che vagano per la campagna, sporchi dal viaggio, stanchi e abbagliati dalla gloria».
(Traduzione di Michele Dolz)