Sullo scorcio dell’anno da poco trascorso, Berlino ha celebrato il bicentenario della nascita dell’archeologo tedesco più famoso di sempre, Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia. Nella fascinosa cornice dell’Isola dei Musei, sino al 6 novembre, la James-Simon-Galerie e il contiguo Neues Museum hanno ospitato la mostra Schliemanns Welten (I mondi di Schliemann), ricca di centinaia di oggetti e reperti di scavo, rivelatrice di tratti poco noti del personaggio che – prima di votarsi all’archeologia – fu un importante uomo d’affari e un instancabile globetrotter. La sua vicenda umana, tra sfide e avventure sempre nuove, si caratterizza come un lungo viaggio verso un mondo, quello della Grecia cantata da Omero, cui sarebbe approdato solo alla soglia dei cinquant’anni.

Dal Venezuela all’Estremo Oriente

Schliemann nacque il 6 gennaio 1822 a Neubukow, nel Granducato di Meclemburgo, quinto di nove fratelli. Dopo la prematura morte della madre, a causa delle rovinose vicende del padre (un pastore protestante di dubbia moralità) crebbe in condizioni precarie, con studi disordinati, forzosamente lasciati alla fine dell’adolescenza per un posto da garzone in una drogheria. A diciannove anni decise di emigrare in Venezuela su una nave olandese. Il viaggio si concluse con un naufragio nel Mare del Nord, ma lui si salvò, sbarcò ad Amsterdam e vi rimase, trovando impiego presso un’agenzia commerciale, la Schröder & Co. Quando si prospettò l’apertura di una filiale a San Pietroburgo, il giovane imparò velocemente il russo (grazie al suo talento arrivò a parlare fluentemente dodici lingue) e nel 1846 vi si trasferì come agente. Vi sarebbe vissuto per quasi vent’anni, avviando già nel 1847 un commercio in proprio di beni coloniali destinato a grandi sviluppi e impalmando la figlia del suo avvocato, Jekaterina Lyshina, che gli diede tre figli. Prima di compiere i trent’anni Schliemann era già un uomo molto ricco, ma la sua fortuna addirittura raddoppiò tra il 1850 e il 1851 con la corsa all’oro in California, dove si trasferì temporaneamente. In seguito, effettuò innumerevoli viaggi in ogni parte del mondo. Lo colpì soprattutto l’Oriente estremo: rientrato in Europa, ne scrisse in un libro, La Chine et le Japon au temps présent, pubblicato a Parigi nel 1867.

Due anni dopo divorziò, chiuse le sue attività commerciali e lasciò la Russia, stabilendosi nella Ville Lumière, dove frequentò la Sorbona. Lo stesso anno sposò l’ellenica Sophia Engastroménou, di trent’anni più giovane, da cui avrà altri due figli. Con lei, usando Omero come un Baedeker, percorse la Grecia: il risultato fu Ithaka, der Peloponnes und Troja. Archäologische Forschungen, che Schliemann presentò come dissertazione all’Università di Rostock, nel nativo Meclemburgo.

Alla ricerca della città perduta

La sua carriera di archeologo iniziò ufficialmente nel 1870-71 in Asia Minore, alla ricerca della mitica Troia, il cui sito era ancora ignoto. Sul campo, due ipotesi: Bunarbaschi, all’estremità meridionale della Troade, e Hissarlik, più vicina ai Dardanelli. L’espatriato inglese Frank Calvert, l’ennesimo cultore di Omero che possedeva una fattoria in quest’ultima località, lo incoraggiò a scavari lì.

Dopo un anno di magri risultati, l’impaziente Schliemann avviò uno scavo di 800 m2, profondo 17, per accedere agli strati inferiori della collina, a suo parere relativi alla Troia omerica. Tale cesura, nota come “fossato di Schliemann”, rimosse parte del tumulo, con seri danni per le ricerche future. Fu brutale, certo, ma anche Evans, a Cnosso, trent’anni dopo fece dei disastri: la scienza archeologica muoveva allora i suoi primi passi, e procedeva anche per tentativi.

Straordinario fu ciò che l’ar­cheo­logo trovò il 31 maggio 1873: un fascio di oggetti d’oro che chiamò, evocativamente, “Tesoro di Priamo”. Fu subito portato in Grecia, di frodo, per non spartirlo con i turchi, che avviarono immediatamente una causa legale. Schliemann, alla fine, pagò alla Sublime Porta 50.000 franchi d’oro, cinque olte la sanzione inflittagli, ma mantenne la parte sostanziale del tesoro, ritornando a scavare a Hissarlik.

Le sue “antichità troiane”, alla fine, assommarono a più di 10.000 pezzi, che oltre agli ori (esposti nel 1877 con successo a Londra in quello che è oggi il Victoria and Albert Museum) includevano ceramiche, utensili metallici, fusaiole da telaio e tanto altro ancora.

Il destino del tesoro

Famoso nel mondo, Schliemann dovette attendere a lungo gli allori germanici: come l’antropologo Leo Frobenius pochi decenni dopo, lui pure patì l’avversione degli accademici di casa che lo reputavano un dilettante e financo un truffatore o un falsario. Fu infine il suo buon amico Rudolf Virchow, fondatore della Berliner Gesellschaft für Anthropologie, Ethnologie und Urgeschichte, a introdurlo nelle patrie istituzioni. Grato, Schliemann accettò di cedere l’intera collezione a Berlino (numerosi erano gli aspiranti acquirenti), con la clausola che mai sarebbe stata smembrata.

Accorpata con decreto imperiale il 24 gennaio 1881, essa costituisce uno dei fondi speciali degli Staatliche Museen, cui mancano, però, i pezzi migliori del “Tesoro di Priamo”, quelli d’oro, sottratti dall’Armata Rossa nel 1945 come bottino di guerra. Riapparsi nel 1994 a Mosca e San Pietroburgo, nel 1998 sono stati dichiarati dalla Duma russa, contro le leggi internazionali, proprietà di Stato.

In seguito, sempre sulle tracce degli eroi omerici, Schliemann si portò sulla terraferma ellenica. Nel biennio 1874-76 scavò a Micene, in cerca delle sepolture regali degli Atridi. Scoprì tombe di grande importanza, pensando di aver trovato anche la sepoltura di Agamennone e la sua maschera funeraria d’oro: questi, in realtà, visse tre secoli dopo. Nel 1880-81, in Beozia, portò in luce il “Tesoro di Minia”, mitico fondatore di Orcomeno, e nel 1884, nell’Argolide, alcuni resti del Palazzo reale di Tirinto.

Arguto comunicatore

Anche se fino all’ultimo Schliemann sostenne che il tesoro di Hissarlik datava ai giorni di Priamo, i successivi rilievi stratigrafici fatti da Wilhelm Dörpfeld – il successore che lui stesso designò – ne certificarono la pertinenza al II livello (2400 a.C. circa), con la Troia omerica posizionata tra il VI e il VII livello (1250 a.C. circa). Ma ciò non pose in discussione il suo lavoro.

Schliemann sarà per sempre ricordato come il visionario che calò nella realtà i miti di Omero, materializzando dalle nebbie della Storia una delle più straordinarie facies dell’età del bronzo europea, la cultura micenea.

Negli ultimi anni cedette un po’ alla megalomania: volle che la sua residenza ateniese, l’Ιλίου Μέλαθρον (La casa di Ilio), fosse decorata con scene della sua carriera di archeologo, famigliari inclusi, e nel cimitero maggiore della capitale fece innalzare un ἡρῷον, un mausoleo in stile dorico, con la dedica (HRWI SCLIMANNWI (“All’eroe Schliemann” sull’architrave e fregi figurati che lo ritraggono sui siti di scavo e mentre legge Omero alla moglie Sophia.

Sono le tessere finali di un grande mosaico iniziato il giorno in cui Heinrich Schliemann decise di associare al Mito la sua stessa vita, mettendosi “in scena”. Anche le sue mezze verità e i suoi eccessi erano funzionali a quel progetto, che mirava a portare il giovane povero di Neubukow sul tetto del mondo. Tutta la vita Schliemann lottò per questo e vi riuscì – agli albori della comunicazione di massa – anche avvalendosi dei media in modo innovativo e creativo, dalla fotografia ai rotocalchi.