Torna in scena Ezra in gabbia o il caso Ezra Pound: scritto e diretto da Leonardo Petrillo e prodotto da Tsv – Teatro Nazionale e Oti – Officine del Teatro Italiano nell’ambito del progetto “VenEzra”, promosso dalla Regione Veneto e ideato dallo stesso regista, debuttò nel 2018 al Teatro Goldoni di Venezia, la città che fu per il poeta l’ultimo amato rifugio e che ora ne accoglie le spoglie. Lo spettacolo, interpretato da un intenso Mariano Rigillo, incredibilmente vicino per età e aspetto all’ultimo Pound, racconta in un monologo costellato di letture tratte dai Cantos e dall’opera poundiana i tredici anni di prigionia del poeta americano, dalla «gabbia del gorilla» pisana al manicomio criminale St. Elizabeths di Washington, dove fu rinchiuso a seguito delle accuse di collaborazionismo e tradimento destate dai discorsi radiofonici trasmessi dal 1940 al 1943 attraverso l’Eiar. La ripresa dello spettacolo è disponibile su RaiPlay.
Il Poeta. Una gabbia, definitiva come una «bara verticale». L’ombra del filo spinato stagliata sul blu torbido di un cielo interiore. La Poesia, personificata e assisa su un trono di libri, fedele compagna anche in tempo di guerra, anche nell’inferno pisano, lei che sempre aveva creduto di cantare la pace, e «provato a scrivere il Paradiso»1.
Così si apre il processo del “caso Pound”, in una proiezione al contempo materiale e psichica della gabbia del Mediterranean Theater of Operations di Pisa. Ma è un teatro ben diverso a ospitare l’arringa tenuta da Pound, avvocato di sé stesso, l’unico che gli è concesso: è il luogo dove l’arte regna sovrana, dove la libertà di parola non può essere negata, dove tempo e spazio sono riplasmati dalla scrittura che prende vita, e ciò che è stato, come ciò che non è stato, può tornare a essere, o accadere per la prima volta. Ed ecco che assistiamo alla storia di Pound, e a un processo che non ebbe mai luogo.
È il protagonista stesso a chiamare noi spettatori a diventare giuria e, in fondo, giudici. E lo fa uscendo dalla sua prigione e sedendosi sul bordo del palco, abbattendo i muri della gabbia e insieme della quarta parete, per dichiarare che il teatro è un luogo di libertà, e che teatro non è solo ciò che avviene sul palco, ma anche, e soprattutto, ciò che accade in noi spettatori. Ci provoca, mettendo a nudo il perché del nostro essere lì: conoscere la verità, ed emettere anche noi la nostra sentenza. Guardiamo il palco, il banco dell’imputato, per dare a Pound il processo che non ha mai avuto.
Siamo così investiti della responsabilità di avere il coraggio di prendere posizione: posizione nei confronti di un uomo in cui coesistono la poesia sublime, l’umanità generosa raccontata dall’amico Hem (Hemingway) e le accuse di fascismo e antisemitismo. Senza prendere scorciatoie. Senza scindere l’uomo dal poeta, condannando l’uno e assolvendo l’altro. Mettendo piuttosto a tacere il pregiudizio e il timore di cadere vittima delle stesse accuse, di fronte al mondo e di fronte alla nostra coscienza, e ponendoci in ascolto. Siamo invitati ad accogliere la Poesia non dimenticando la Storia, bensì ponendole a confronto.
Se infatti al termine dello spettacolo, durante i saluti finali, il protagonista esorta gli spettatori ad andare a casa portando con sé la convinzione che Pound sia stato un grande poeta, non si tratta di un invito a chiudere gli occhi di fronte agli ideali che lo animavano. Sono la poesia stessa e più in generale la scrittura a rendersi testimoni del pensiero dell’uomo, prima ancora che del poeta.
Teste per la difesa è infatti la Poesia, interpretata da Silvia Siravo, che si esprime attraverso le parole dei Cantos e di altri scritti poundiani. Frammenti dal passato del Pound poeta, che sembrano mettere in discussione le accuse rivolte al Pound dei Radiodiscorsi.
Ma il protagonista non chiede di essere assolto. Chiede che gli sia riconosciuto il diritto di essere giudicato. Chiede di essere ascoltato. Un uomo in gabbia è un poeta senza voce, eppure Pound in quella gabbia scrive: scrive ovunque, scrive su ogni oggetto scampato alle maglie della sicurezza schegge di poesia, e scrive forse i Cantos più poetici, e più umani.
Cantos che dovevano essere per l’America quello che i poemi omerici furono per la Grecia, e la Divina Commedia per la cultura italiana. Un monumentale mosaico della storia della letteratura e dell’umanità, in un eterno e contemporaneo rimestarsi di epoche e culture, al fine di cantare, e creare, un mondo nuovo, un mondo epurato dalla corruzione dell’“usura”, dal culto dell’oro e dall’idolo della moneta. Un’ossessione che il protagonista, non senza una punta di humor, riconosce come innata, riconducendola fino al suo stesso nome (pound in inglese significa moneta), e che chiuse intorno a lui le sbarre della gabbia. Un’ossessione che ritorna come una litania nel corso dello spettacolo, quasi una eco infinita che continua a riverberare nelle prigioni di Pound, e arriva a infestare il teatro stesso con il suo ritmo assillante.
Invettive in cui riecheggia Dante, il poeta dell’esilio, il poeta che inizia il suo viaggio con una discesa agli inferi. Ed è una vera e propria catabasi l’esperienza della gabbia e dei suoi strascichi al St. Elizabeths, e oltre.
Quando ne uscì, non fu perché prosciolto, bensì perché privato della personalità giuridica, e con essa dei diritti, del diritto che ci rende responsabili, anche perseguibili, ma umani, e liberi: il diritto di parola. La gabbia era ora invisibile, ma forse ancor più tragicamente reale.
Lo spettacolo si chiude con una registrazione di Pound che recita il Canto LXXXI, tratto dalla sezione dei Pisan Cantos, in cui rivendica la necessità di agire, e prendere posizione, e condanna l’ignavia, dietro le sbarre di un antinferno dove l’agire è interdetto:
Deponi la tua vanità,
Dico, depònila!
Ma avere fatto piuttosto che non fare
questa non è vanità
[…]
L’errore sta tutto nel non fatto2
L’uomo era ancora senza voce, ma la Poesia parlava in sua vece: «Ma io avevo scritto i Cantos. Non avevo altro da aggiungere».
E così, nel buio di un palco in cui si dissolve una scenografia tanto essenziale da apparire metafisica, uno spazio introspettivo dove erano apparsi e poi svaniti come uniche visioni la gabbia, i libri divenuti pulpito della Poesia, e un tavolino con la vecchia Remington, salutiamo sulle note della “poundiana” Desolation Row di Bob Dylan un poeta, forse, libero. Svaniscono l’arancione dell’uniforme da fatica dell’esercito americano e il bianco del camice del manicomio, e l’oscurità della scena sembra inghiottire il nero del lungo cappotto, del cappello e del bastone. Sfugge a questo vuoto solo la sciarpa bianca ritratta nelle fotografie dell’ultimo Pound, il Pound che all’inizio degli anni ’70 avremmo potuto veder passeggiare per le calli veneziane.
Raccontare questa storia significa «radiografare il pensiero di un condannato a morte prima dell’esecuzione», scendere nell’abisso e trovarvi le vette della visione poetica, una scintilla di libertà. La stessa libertà che siamo chiamati a esercitare noi spettatori e giudici, uscendo dalla gabbia del pregiudizio e trovando il coraggio di ascoltare il poeta e, insieme, l’uomo. E di comprendere ciò che rimane.
Ciò che sai amare rimane
il resto è scoria.
Ciò che tu sai amare non sarà strappato da te
Ciò che tu sai amare è il tuo vero retaggio
1 E. Pound, Appunti per il CXVII et seq., in I Cantos, a cura di Mary de Rachewiltz, Mondadori, Milano 1985, p. 1493.
2 E. Pound, LXXXI, in I Cantos, a cura di Mary de Rachewiltz, Mondadori, Milano 1985, p. 1023.
3 Ivi, p. 1021.