Pubblichiamo l’introduzione di Andrea Monda, direttore dell’Osservatore romano, alla nuova edizione di Elogio della filosofia (Ares, pp. 160, euro 16), uno dei saggi più importanti del filosofo tedesco Josef Pieper (Rheine, 4 maggio 1904 – Münster, 6 novembre 1997).

Sono uscito dal liceo classico innamorato della filosofia. Grazie anche ai professori, tre in tre anni, che, in modo diverso uno dall’altro, mi contagiarono la loro passione per il pensiero. Eppure, allora non scelsi di studiare filosofia all’università, presi invece la strada dello studio del diritto. Prevalse la linea della “concretezza” (mi dissi, non credendoci troppo). E infatti, uscita dalla porta, la filosofia si prese la sua rivincita e rientrò dalla finestra: anni dopo, forse stufo di troppa concretezza, mi presi una seconda laurea optando non per gli studi filosofici, ma addirittura per quelli teologici. Questo conferma la tesi di partenza del saggio di Pieper quando definisce il filosofare come il «riflettere sul significato ultimo e profondo della totalità di ciò che ci viene incontro; e questo filosofare così inteso rappresenta un’occupazione non solo piena di senso, ma anzi necessaria, da cui un individuo spiritualmente vivo non può assolutamente esimersi».

La filosofia non è lusso, ma una necessità. Avevo provato a esimermi, ma non era possibile (il che è consolante: vuol dire che ero, almeno all’epoca, “un individuo spiritualmente vivo”). E così mi trovai a studiare teologia, il che vuol dire anche rifare il percorso di tutta la filosofia, e, non contento, mi ritrovai qualche anno dopo, lasciato il settore legale di un concretissimo istituto di credito, a insegnare religione nei licei di Roma. A cercare cioè di trasmettere quella sapienza di pensiero filosofico e teologico alle giovani generazioni. Insegnare religione oggi agli adolescenti, anche nel cuore di Roma, culla del cattolicesimo, equivale a praticare uno sport estremo. Non solo perché nel frattempo le giovani generazioni hanno perso il contatto con tutto quello che è il cristianesimo, smarrendone anche la lingua e l’alfabeto, ma soprattutto perché il contesto sociale e culturale in cui ci troviamo in questo inizio di terzo millennio non è proprio favorevole a “cose” come la religione o la filosofia… Esse appaiono come delle vecchie ed eleganti signore che però hanno perso molto del proprio fascino e risultano quasi un anacronismo, un dagherrotipo o al massimo una foto in bianco e nero. Questo almeno a livello di adulti, perché poi, in realtà, se si ha il coraggio di porre ai giovani la domanda della filosofia, ancora una volta questa si riprende la rivincita. George Foreman, l’imponente campione dei pesi massimi, una volta ha definito la boxe «quello sport verso cui tutti gli altri tendono». Così è la filosofia (anche se poi va detto che la filosofia tende a sua volta verso la teologia): non è un caso che siano i professori di filosofia quelli che hanno l’impatto più forte tra gli studenti, quelli che “restano”, quelli che “segnano dentro” (in-segnare) anche a distanza di anni. E questo è confermato anche quando i professori che restano sono quelli di altre materie: sono “rimasti dentro” come punti di riferimento dei loro studenti perché sono riusciti, insegnando la propria materia, a incrociare quella domanda lì, quella della filosofia, che alberga nel cuore degli esseri umani, quella «sul significato della totalità che viene incontro». Certo il contesto che noi adulti abbiamo costruito intorno alle nuove generazioni di studenti non è proprio a favore dello studio della filosofia.

Ricordo un episodio, accaduto quasi vent’anni fa, quando ci fu, nell’aula magna del liceo in cui insegnavo filosofia, un incontro fra docenti, studenti e alcune psicologhe e dottoresse di materie sanitarie; tema dell’incontro: la sessualità (e il suo buon “uso”) da spiegare ai ragazzi, tutto sotto l’alto nome di “educazione sessuale”. L’incontro stava andando liscio, dritto verso l’esplicazione delle technicalities (come se i ragazzi ne avessero bisogno). Ma ecco che, improvvisamente, ma anche inevitabilmente, la discussione prese una piega e ci si andò a infognare sul tema dell’aborto, quest’ospite sempre sgradito e sgradevole. Ero stato ad ascoltare in silenzio fino a quel momento, ma quando sentii una ragazza affermare che il problema non esisteva perché a quel momento della gravidanza (3 mesi) non si poteva parlare di vita, posi una domanda: «Ma se tu non interrompi quel processo, cosa accade allo scadere dei nove mesi? Cosa, sicuramente, “esce fuori” da quel processo?». Intervenne pronto un altro professore con una battuta che tagliò via la temibile diramazione che stava prendendo il dibattito: «Direi di fermarci qui, perché mi sembra che la stiamo buttando in filosofia, evitiamo dai!». Era il professore di filosofia. Questo circa vent’anni fa.

E mi ha colpito, neanche un mese fa, la notizia che per qualche ora ha fatto il giro della Rete (per poi rivelarsi una fake news) che in Spagna era stata avanzata la proposta di togliere l’insegnamento della filosofia dalla scuola. Si trattava invece solo di una re-impostazione dei programmi scolastici, non dell’abolizione di questa materia, ma la cosa che mi colpì è che per qualche ora io ho pensato che la cosa fosse possibile. Non è un tempo buono per la filosofia.

Anche per questo è da salutare con gioia la ripubblicazione di questo saggio di Pieper, uscito per la prima volta nel 1966, perché ogni libro buono è anche un buon antidoto. È uno schiaffo dato al lettore che però permette, come annotava Flannery O’Connor, di far girare di qualche grado il volto del lettore che così potrà acquistare una visione diversa, un punto di vista da una prospettiva diversa.

Questo libro, per dirla con le parole dell’autore, ha a che fare cioè con la realtà, quella «totalità che ci viene incontro e offre resistenza». Efficace definizione che mette a fuoco l’evento dell’incontro. Come educatore mi sono sempre più reso conto della verità insita nell’aforisma di Oscar Wilde per cui le cose importanti della vita non si insegnano né si apprendono, ma si incontrano. Leggere il libro di Pieper significa vivere un bell’incontro. Lo si capisce sin dalle prime pagine quando l’autore spiega del suo metodo, che poi è molto vicino a quello di Socrate, imperniato sul dialogo, cioè sull’ascolto e sulla “pedagogia della domanda”. Sempre Oscar Wilde affermava che «a dare risposte sono bravi tutti, ma a fare le domande giuste ci vuole un genio». Pieper è un genio. Dialogare con lui vuol dire camminare con lui e, con il suo aiuto, comprendere quanto siano strettamente collegate vita e filosofia. La filosofia “serve” alla vita proprio perché non serve a nulla. Viene in mente quello che dice lo scrittore Henry Miller, che l’arte non insegna assolutamente nulla, a parte il senso della vita. Vale lo stesso per la filosofia. Pieper lo precisa molto bene quando sottolinea l’inutilità, la gratuità, la libertà dice lui, della filosofia. Se Ezra Pound cantava l’in-utilitas dell’arte, Pieper è il cantore dell’inutilità della filosofia. Della sua libertà assoluta. In questo coglie il legame della filosofia con l’arte e la religione: «Poesia d’amore e commedia, per poter fiorire, richiedono il medesimo terreno della preghiera e della filosofia». Questo terreno comune alle tre dimensioni è composto da molti elementi, il primo dei quali è senz’altro lo stupore.

È qui, dallo stupore, che tutto ha origine, già Platone e Aristotele lo confermavano per quanto riguarda la filosofia, ma il discorso vale anche per l’arte e la religione. Solo lo stupore conosce, secondo san Gregorio di Nissa. O, se vogliamo dirla poeticamente, rivolgiamoci a una delle più grandi poetesse degli ultimi anni, l’americana Mary Oliver, e alle sue “Istruzioni per vivere una vita”:

Fa’ attenzione

Stupisciti

Raccontalo.

Una poesia di una brevità e densità rare, che provoca proprio la filosofia: non sarebbe quest’ultima la fonte di quella sapienza utile per vivere la vita? Il breve libro che avete tra le mani è un meraviglioso racconto, una perla preziosa che è stata ritrovata e non può andare di nuovo perduta. Buona (e attenta) lettura a tutti!