A conclusione di questo Quaderno monografico presentiamo un racconto Laura Bosio, che ci porta alla scoperta di Liuba, ragazza della martoriata terra del Dombass con un passato di umiliazioni e sogni infranti, come l’amore per un giovane e misterioso italiano di nome Andrea. Liuba, si chiama proprio come la donna delle poesie di Montale, è delicata e molto riservata, ma in una notte di dicembre sceglie di raccontare la sua storia agli amici italiani che l’hanno accolta… Abbiamo chiesto all’Autrice di raccontarci la genesi del testo: «Nel 2017, su invito del Comune di Peccioli, accettai di scrivere un racconto per il progetto “Voci” dell’artista Vittorio Corsini. Si trattava di inventare una storia ispirata a una chiesa del paese o altro luogo dei dintorni, sui quali Corsini avrebbe realizzato un’opera: una scultura intorno a cui sedersi per ascoltare il racconto registrato da chi lo aveva scritto, in uno scambio dove non ci fosse predominanza di una parte sull’altra. Mi venne affidata la chiesa del Carmine e, non so perché, scrissi una storia che aveva a che fare con la guerra nel Donbass. Ne sapevo pochissimo e feci molte ricerche. Per esigenze del progetto, il racconto (poi pubblicato in Voci. Un coro a Peccioli per un progetto di Vittorio Corsini, Gli ori, Pistoia, 2021) fu da me ridotto della metà. Questa è la versione integrale». Tra i libri più recenti di Laura Bosio, Erba matta (Aboca 2021), Una scuola senza muri (ED 2019), Le stagioni dell’acqua (Guanda 2021) e i romanzi scritti con Bruno Nacci La casa degli uccelli (Guanda 2020) e Per seguire la mia stella (Guanda 2017).

Era arrivata d’estate, un giorno di pioggia, con la corriera che dal paese porta a un piccolo santuario poco lontano dal nostro agriturismo. L’aspettavo alla fermata, sull’altro lato della strada, con l’ombrello aperto davanti alla macchina. Non ci eravamo mai incontrate, ma non c’era possibilità che ci sbagliassimo in quella campagna deserta tra gli ulivi.

La prima cosa che avevo visto di lei erano gli stivali di gomma blu elettrico che scendevano all’indietro gli alti scalini della corriera, poi era spuntato, di schiena, un piumino bianco, troppo caldo per la stagione anche se quel giorno tirava vento, e subito dopo una coda di cavallo bionda che usciva da un berretto di tela. Per ultimo, mentre si girava, era apparso uno zaino da montagna che doveva essere pesante a giudicare dalla fatica con cui l’aveva sollevato per metterselo sulle spalle.

Mi era venuta incontro di corsa, con un’andatura buffa, carica e infagottata com’era, agitando le mani. Quando mi era stata di fronte, mi aveva abbracciata e baciata sulle guance. Grazie, aveva detto commossa. L’ombrello si era rovesciato sul tetto della macchina. L’avevo chiuso, le avevo preso lo zaino, molto pesante in effetti, e l’avevo lasciato cadere sul sedile posteriore. Che diavolo aveva messo lì dentro?

Nei pochi chilometri che ci separavano da casa, aveva tenuto gli occhi fissi sui tergicristalli in movimento, senza parlare. Liuba – si chiama proprio così, come la donna delle poesie di Montale – «La casa che tu rechi con te ravvolta, gabbia o cappelliera, sovrasta i ciechi tempi come il flutto arca leggera e basta al tuo riscatto…» – era una ragazza, eppure aveva lo sguardo di chi ha imparato già tanto della vita e del mondo.

L’ingresso nell’agriturismo dal cancello principale le aveva cavato di bocca altre due parole: «Che bello!». Non sapevo ancora che era in Italia soltanto da un mese e che il suo vocabolario era ridotto a poche frasi. Il parroco della chiesa del Carmine, che me l’aveva mandata, si era limitato a dirmi l’essenziale di lei, che era ucraina, che era fuggita dalla guerra, e che nel suo Paese aveva frequentato l’università. Era sola e le serviva un lavoro.

La sua stanza al pianterreno le era piaciuta, vicino alla lavanderia e al cortile con l’orto e le galline: le aveva guardate come se le fossero famigliari. Dallo zaino aveva tirato fuori, sparpagliando il suo bagaglio sul letto, qualche maglia stropicciata, di cotone e di lana, un paio di gonne e di pantaloni, sacchetti di plastica trasparente con sneakers e ballerine, due camicie da notte di flanella blu a stelline d’oro, biancheria colorata, un nécessaire da bagno. E una fisarmonica, di piccole dimensioni, che aveva appoggiato su una sedia con cura. C’era anche un libro scritto in russo, molto sciupato, che aveva riposto nel cassetto del comodino. Non le ho mai chiesto che cosa fosse. Le ho fatto poche domande nei due anni che è stata qui, tutto quello che ho saputo me l’ha raccontato lei.

Non aveva avuto da ridire, a differenza di altri, sullo scamiciato azzurro, scollatura a barchetta, che ho scelto come divisa del personale di servizio, lungo fino al ginocchio per le donne, con i lacci sui fianchi, e più corto, ma dello stesso colore e modello, per gli uomini. Per evitare che si sentano ridicoli ne indosso uno anch’io, a quadretti bianchi e verdi. Forse diamo davvero l’idea di un asilo, come qualcuno dice, ma non è quello che siamo?

Mio marito, finché è rimasto con me, non l’ha messo una sola volta. A distanza di anni in qualche modo lo capisco. Questo posto è mio da sempre, il casale dei miei nonni che i miei genitori avevano abbandonato per andare a vivere in città e che io ho recuperato nel periodo dell’agriturismo nascente. A poco a poco l’ho trasformato in un sobrio resort con piscina, sauna, palestra attrezzata, negozio di vini toscani e olio, ristorante con una decina di tavoli all’interno e altrettanti all’esterno dalla primavera all’autunno, vista sugli alberi da frutto del nostro giardino e a perdita d’occhio sulla campagna. Eccessivamente mio perché qualsiasi altro e soprattutto un marito possa sentirsi a suo agio, me ne rendo conto adesso, scoperta tardiva. Una giudiziosa e un po’ assurda casa di bambola per adulti che i miei clienti gradiscono, giocando insieme a me.

Liuba, però, non era venuta a giocare. Accanto alla sua stanza avevo organizzato una specie di camera d’ospedale per mio padre, svanito di mente, forte di corpo e di cuore, bisognoso di tutto.

C’è un momento in cui ci si ritrova soli con il corpo, il proprio, certo, ma ancora prima quello di un genitore, un parente, un fratello che dobbiamo accudire. E allora ci accorgiamo di essere l’accidente senza senso di cui raccontano alcuni filosofi, uomini e donne gettati sulla terra e costretti senza motivo a stare al gioco fino in fondo. Carne, potenziali carcasse. A volte, entrando in una macelleria, ci si stupisce di non essere appesi lì, al posto dell’animale. Non è pessimismo a buon mercato, né patetica disperazione a effetto. È che a un certo punto della vita cade il velo. La collettività in mezzo alla quale viviamo, e che siamo, diventa una cornice di sogni, entusiasmi, progetti, illusioni, battaglie, ideologie, religioni, passioni, e rimaniamo soli con il corpo, l’unico ecce homo evidente e concreto. Resta il volto, dove andare a scovare l’io fragilissimo, e spesso insensato, che dentro il corpo freme.

Tutto questo, più che i libri, è stata Liuba a insegnarmelo, così giovane, così scandalosamente ragazza, con quei suoi gesti intelligenti e sicuri verso mio padre, un uomo mite, chiuso, che amavo, e che mi costava tanta sofferenza vedere così. L’energica e riservata Liuba, con il suo viso sempre un po’ arrossato, perfettamente in grado di dominare le emozioni, impeccabile nei suoi vestiti poveri e nei comportamenti che non lasciavano intravvedere neppure uno spiraglio di nudità. Finché una sera di dicembre, mentre cenavamo in cucina (il ristorante era chiuso per la pausa settimanale), dopo un anno e mezzo di vita fianco a fianco, d’improvviso si era aperta, spalancata come un tronco d’ulivo, e la sua storia era uscita in un italiano stranamente limpido, fluente, senza potersi più fermare.

Era nata nel Donbass – questo lo sapevo già dai documenti – e lì era cresciuta, in un momento di grave instabilità politica e crisi economica che aveva spinto molti a emigrare nell’Europa dell’Ovest. La sua famiglia aveva una piccola cascina nella campagna, non rendeva molto, ma suo padre e sua madre avevano racimolato abbastanza denaro da permettere alla loro unica figlia di iscriversi al Politecnico di Donetsk, quello dove negli anni Venti aveva studiato Nikita Chruscëv. Poi nel 2014 era scoppiata la guerra. Alcuni manifestanti filorussi, armati e ben organizzati, si erano impadroniti dei palazzi governativi della regione orientale e avevano proclamato, con un referendum, le Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk. Poco dopo, attraverso un secondo referendum, avevano costituito lo Stato federale della Nuova Russia. Il governo ucraino li considerava terroristi, la Russia li aiutava negando ufficialmente il suo appoggio, i miliziani dei due fronti si combattevano a morte, e non hanno mai smesso. Migliaia e migliaia di vittime, stando a dati credibili.

Liuba, come gli altri abitanti della sua regione, parlava il russo, si sentiva più russa che ucraina e parteggiava per gli indipendentisti. A Donetsk, quando faceva l’università, viveva in un appartamento con due ragazze e un ragazzo, tutti studenti, e guadagnava i soldi per il vitto e l’alloggio facendo la cameriera in una birreria che restava aperta fino a tardi, in una confusione di giovani che la guerra aveva reso ancora più vogliosi e attivi, nonostante le case distrutte, i cadaveri sui marciapiedi, le risse che scattavano per un’inezia. O forse proprio per questo.

Una notte d’inverno, molto fredda, intorno all’una, Liuba aveva servito al banco un gruppo di miliziani in tuta mimetica e mitra al collo appena venuti via dal fronte. Sembravano ubriachi, non di birre o di alcol, ma di spari, di battaglie, di violenza, forse di droghe. Erano in compagnia di minorenni, ma non erano una novità, lì da loro, le quattordicenni e le quindicenni che di notte si prostituivano per mettersi in tasca qualche soldo fingendo di essere le «ragazze» dei soldati. Liuba di anni ne aveva diciannove e aveva giurato a sé stessa che non sarebbe mai stata la ragazza di un soldato a quel modo, per nessuna ragione, avrebbe scavato la terra con le mani piuttosto.

Uno dei miliziani del gruppo però l’aveva incuriosita. Era un ragazzo italiano, uno dei giovani europei che più spesso di quanto immaginiamo scelgono la guerra come lavoro.

Si erano sorrisi, si erano piaciuti, si erano rivisti un paio di volte da soli. Andrea – nome da principe per lei – aveva ventun anni, una faccia da bambino, pulita, seria, leggermente fanatica, si sarebbe detto un nerd o un hacker più che un mercenario. Si era arruolato dopo essersi informato a lungo su Internet, in pagine russe dove era entrato in contatto con altri italiani che già combattevano. In Italia era disoccupato e si sentiva consumare. «Non hai paura?», gli aveva chiesto Liuba mentre una sera camminavano per le strade di Donetsk nell’eco delle bombe che arrivava fino in città. Tutto fa paura, aveva risposto lui, specialmente un sistema che impedisce ai giovani di lavorare, di vivere. Ma è finito il tempo delle parole, aveva aggiunto con la sua fierezza di adolescente ferito, adesso bisogna agire.

Mentre raccontava la sua storia, Liuba si alzava spesso per andare in bagno, come se le sue viscere ancora si ribellassero. Tornava, si sedeva al tavolo, beveva un po’ d’acqua, riprendeva a raccontare e si alzava di nuovo, un orecchio alla stanza di mio padre che grazie alle pillole per fortuna dormiva, ignaro di quella guerra, del mondo, del nostro casale diventato una casa di bambola, di cui un po’, senza dirlo, si vergognava, e della stessa vita.

Un mese dopo, durante una breve licenza di Andrea, avevano fatto sesso per la prima volta nell’appartamento che Liuba divideva con gli altri studenti, un sesso dolce, appagante, e si erano innamorati. Vedrai, troverò lavoro in Russia, le diceva lui quando riuscivano a rifarlo, incastrati l’uno nell’altro come animaletti. Quello è un mondo diverso, un sistema diverso. Oppure andrò in Siria, sognava, qualche mio compagno c’è andato e si è trovato bene. Tu verrai con me. Con i tuoi studi non sarà difficile sistemarti. Ho ancora l’Italia nel cuore, diceva stringendosi a lei, ma dobbiamo stare con i popoli forti.

Credeva di avere aperto gli occhi, Andrea, e non si accorgeva di averli chiusi. Non voleva vedere che cosa stava succedendo in Russia, in Siria, la povertà, le mafie, le esplosioni a ogni svolta di strada. Soprattutto non voleva guardare in faccia l’orrore in cui era precipitato.

Ma Liuba sì, lei voleva essere vigile, voleva accorgersi di tutto, e quando Tania, una delle studentesse dell’appartamento di Donetsk, le aveva raccontato le violenze che le donne subivano dai soldati, aveva sentito le budella in rivolta. Così una sera, appena aveva rivisto Andrea che l’aveva raggiunta al pub più pallido del solito, con il cranio rasato, gli si era gettata contro come una furia. Lui l’aveva trascinata in un angolo buio del locale e aveva negato, con decisione, poi con rabbia, ma lei aveva scorto l’angoscia nei suoi occhi, due occhi angosciati in quel volto da bambino ubbidiente, e l’aveva stanato. Lui piangendo aveva vuotato il sacco.

Le aveva raccontato un episodio che lo scuoteva ancora. Nell’autunno del 2014, finito l’addestramento, aveva raggiunto per la prima volta il fronte. Poi era stato trasferito in un battaglione di volontari che in quel momento costituivano il nucleo della difesa filorussa ed era arrivato nelle vicinanze di un villaggio. Andrea era stato assegnato alla sorveglianza degli edifici della base, un’ex accademia di polizia dove erano tenuti i prigionieri. Lì aveva osservato un movimento preoccupante. I soldati che tornavano dal fronte, in stato di shock e il più delle volte ubriachi, spesso scendevano nelle cantine a «sfogarsi» sui detenuti. Aveva assistito allo scatenarsi di quelle violenze un turno di guardia dopo l’altro, impotente, mentre dalle cantine salivano le urla e il rumore delle botte.

Un giorno lo avevano messo di guardia a un edificio dove era rinchiusa una donna, «una spia e una puttana», gli avevano detto. A un certo punto uno dei comandanti era entrato nell’edificio ed era andato dritto nella stanza dove c’era la donna, per farle l’«interrogatorio». Qualche minuto dopo lui l’aveva sentita gridare. Il comandante era uscito senza salutare e il giorno dopo era tornato. Stessa scena, stesse minacce, rumore di botte. La donna continuava a non parlare, probabilmente non aveva nessun segreto da rivelare. Il comandante si era ripresentato con un prigioniero: «Se non ti decidi a parlare, sarà lui a prenderle!», aveva urlato, e al di là della porta erano piovuti colpi per due o tre ore. Il giorno successivo altra incursione, questa volta da solo. Al centro della stanza c’era un materasso. Dai rumori che si sentivano, non c’era dubbio che la stesse violentando. La sera Andrea aveva portato da mangiare alla donna. Era livida, aveva un labbro spaccato, e camminava a fatica.

Andrea era riuscito a farsi trasferire in un battaglione diverso, dove a scene come quella non aveva più assistito, almeno fino a quel momento.

Devi denunciare quel comandante, aveva gridato Liuba, devi farlo. Lui era corso fuori dalla birreria. Lei gli era andata dietro e l’aveva afferrato per un braccio. Devi denunciarlo, urlava strattonandolo. Un soldato avvinghiato a una ragazzina in minigonna e tacchi alti li aveva notati. Andrea era scappato via mescolandosi alla folla nella strada.

Liuba non l’aveva più rivisto. Per giorni e giorni aveva chiesto sue notizie a ogni soldato che entrava nel pub, era andata anche a cercarlo in una caserma vicina al fronte. Una notte, un tipaccio che era entrato barcollando tra i tavoli le aveva detto che era morto in battaglia. Come un eroe, le aveva sussurrato chinandosi su di lei, ed era esploso in una risata. Puzzava, la sua bocca di bastardo.

Quella sera Liuba ne aveva avuto la certezza: Andrea era stato ammazzato per quella confessione che lei gli aveva estorto.

Aveva avuto paura, per sé, per i suoi genitori. Aveva lasciato il lavoro alla birreria, l’appartamento a Donetsk, l’università, l’Ucraina in guerra, dove nessuno era davvero innocente, ed era arrivata fortunosamente ad Ancona, senza documenti regolari, ma con la fisarmonica che suo padre le aveva insegnato a suonare quando era bambina. Aveva trovato rifugio in un centro d’accoglienza a Volterra, da dove era approdata qui in paese e finalmente nel nostro agriturismo. In Italia, la terra di quel ragazzo che con il suo amore aveva fatto morire.

Liuba voleva vederlo il Paese da cui Andrea si era sentito respinto, voleva dimostrargli, anche da morto, che la guerra, la violenza, non portano da nessuna parte se non sottoterra, quando va bene e c’è una sepoltura. Voleva fargli capire che un lavoro c’era, anche per una come lei. Purtroppo, non c’era stato per lui, e per tanti come il suo ragazzo.

Quella sera la nostra ridicola divisa azzurra, per non parlare della mia a quadretti bianchi e verdi, mi era sembrata di colpo l’idiozia che in effetti è. Non l’ho cambiata, e nemmeno la casa di bambola che ho arredato con minuziosità infantile. Sapere che a Liuba aveva dato conforto, sicurezza, al punto da liberarla del peso che si era portata addosso per tanto tempo, mi sollevava. Mi inorgogliva persino.

Sette mesi dopo mio padre era morto, una fine prevista, ma che mi aveva lasciata disorientata, spaesata, impaurita. Anche se di lui ormai non era rimasta che una pallida presenza, con mio padre se ne andava il confidente di una vita, l’unico da cui mi ero sempre sentita compresa e che aveva accettato le mie stranezze, le mie ritrosie, senza rimproverarmele troppo.

Liuba non mi aveva lasciata un istante, a casa e al funerale. Pur non essendo religiosa, aveva pregato con me seguendo le parole scritte nel foglietto distribuito sui banchi della chiesa. Proprio la stessa, quella chiesa del Carmine che l’aveva accolta all’arrivo da Volterra e nella quale era ritornata soltanto una volta, a salutare il parroco e a dirgli grazie, come aveva fatto con me.

Il mio ex marito, che a Firenze ha una nuova moglie e una nuova vita, dove c’è spazio anche per un figlio non avuto da me, durante il funerale era stato preso da simpatia immediata per quella bionda ragazzona ucraina che adesso parlava un italiano corretto e spedito. Le aveva chiesto dove l’avesse imparato, domanda che io, per famigliarità, o forse per distrazione, non le avevo mai fatto. Da sola, aveva risposto lei, su un libro che ho portato dal mio Paese.

Ecco che cos’era quel libro consumato che aveva tirato fuori dallo zaino e riposto nel cassetto del comodino: una grammatica italiana dalla copertina in caratteri cirillici che a me non dicevano niente.

Aveva taciuto del ragazzo italiano di cui si era innamorata e che era venuta a cercare in Italia per ricucire in qualche modo la loro vita interrotta. Ma il mio ex marito è un uomo sensibile (si è allontanato da me per causa mia più che sua, per le mie chiusure, la mia protervia anche) e con le sue buone antenne aveva percepito che doveva stare vicino a quella ragazza dalle guance arrossate e l’espressione che domandava aiuto. Con i suoi modi spontanei (me ne accorgo solo ora?) l’aveva allontanata dal mio strazio, che non ero in grado di condividere con nessuno, e l’aveva guidata verso la Madonna in trono dipinta su un muro della chiesa, perché aveva notato che lei la osservava.

«Che cosa ti colpisce?», le aveva chiesto, con la sua capacità di avvicinarsi agli altri, a differenza di me, e lei aveva risposto: «Gli occhi, quelli spaventati della Madonna e quelli chiusi del Bambino. Anche i santi ai lati hanno gli occhi tristi». «Sai da dove viene questa Madonna?», aveva proseguito lui. Liuba aveva scosso la testa. «Arriva dalla terra di Gesù, la Palestina». «Una terra di rifugiati, come me», aveva detto lei tenendo gli occhi negli occhi spaventati della Madonna, in quelli chiusi del Bambino. «E sai qual è la sua particolarità?», aveva insistito lui. «No, non so niente di Madonne, di Bambini Gesù e di Santi», aveva replicato Liuba sollevando le spalle. «Protegge contro le cose negative, le fiamme del Purgatorio». «E che cos’è esattamente il Purgatorio?». E lui: «È il luogo dove vengono mandate le anime dei morti, a espiare i loro peccati prima di andare in Paradiso».

Prima di andare a dormire, sfinita quanto me, Liuba mi aveva chiesto che cosa volesse dire «espiare». Non so con quale forza, le avevo risposto che significava scontare una colpa, ma nemmeno io sapevo bene il senso di quell’affermazione. Pagare un debito verso il mondo e sé stessi?

Liuba non è diventata religiosa, e mi domando se io lo sono. Il suo purgatorio in terra però ha voluto viverlo.

Oggi sta a Firenze, dove mio marito (sì, ex marito…) le ha trovato un lavoro in un magazzino di cartoleria. Le ha anche segnalato dei siti che in Rete denunciano le violenze di quella guerra dimenticata che si combatte ancora. Ci sarà mai giustizia per quei massacri, per quelle violenze usate come armi? Le colpe saranno mai espiate collettivamente?

I singoli in questo possono sperare, forse. So che Liuba non smetterà di farlo, e non per vendetta personale.