Dal 14 al 24 novembre il Teatro degli Arcimboldi di Milano si è illuminato delle tinte del tricolore francese, portandoci in un angolo della londinese Shaftesbury Avenue. Dopo una trionfale tappa al Politeama Rossetti di Trieste – interessantissima fucina culturale per gli amanti del teatro musicale – Les Misérables, tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, ha calcato per la prima volta in 40 anni i palcoscenici italiani, che hanno aperto il loro sipario per accogliere il tour mondiale promosso in occasione dell’anniversario del musical, con un meraviglioso cast guidato nelle date italiane dal talento di due tra i suoi più grandi interpreti, Killian Donnelly e Bradley Jaden.

Un’attesa lunga ma ben ricompensata quella per Les Miz – come è stato affettuosamente ribattezzato lo spettacolo dai fan –, e difficile a credersi se si pensa che si tratta del musical più a lungo rappresentato senza interruzioni nel West End londinese, dove è in scena dal 1985, e da cui ha presto spiccato il volo oltre i confini britannici, conquistando 53 Paesi e cantando in 22 lingue, di fronte a una platea mondiale di più di 130 milioni di persone.

Eppure, questi numeri non sono l’unico record di cui Les Miz possa essere orgoglioso: è infatti la trasposizione forse più universalmente nota del capolavoro nato nel 1862 dalla penna di Victor Hugo, che a sua volta si contende la palma dell’opera più adattata della storia con nientemeno che il corpus shakespeariano. Dai riflettori teatrali ai proiettori dei cinema, dai vivaci colori delle nostrane parodie dei classici a fumetti di casa Disney al bianco e nero dei manga, per arrivare fino all’animazione, Les Misérables si è incarnato in un caleidoscopio di forme e linguaggi, mai uguale a sé stesso seppur sempre illuminato dal medesimo fascio di luce. Una storia, tante storie.

Ed è proprio raccontandovi questa storia che vorremmo inaugurare la nuova rubrica dedicata alle trasposizioni transmediali, che andrà oltre la recensione per rivelare la trama più o meno nascosta delle storie e delle loro metamorfosi con cui si manifestano nei vari media. Una trama in cui siamo costantemente immersi, talvolta senza saperlo.

Les Misérables e l’arte dell’adattamento

La prima di queste storie sarà quindi quella dell’ex galeotto Jean Valjean. Derubato della sua umanità dalle ingiustizie inflittegli dai ciechi ingranaggi della Legge, riscatta la propria anima grazie all’atto di misericordia del vescovo di Digne e intraprende un cammino di redenzione votando la propria vita all’orfana Cosette, sotto la minaccia costante e ossessiva della caccia all’uomo dichiaratagli dall’inesorabile ispettore Javert.

Questo filone narrativo si dirama e si intreccia in un’infinità di rivoli, a formare un immenso albero della vita e della Storia, com’è tipico della prosa di Hugo. Un’opera monumentale, non solo sul fronte della trama, ma anche e soprattutto sul fronte tematico: un macrocosmo narrativo da cui ogni medium può attingere gli elementi che più fanno vibrare le corde degli strumenti espressivi di cui si serve, riplasmandone la storia a propria immagine e somiglianza, per meglio servire i suoi propositi e il suo pubblico.

E così per esempio i forti nuclei tematici e l’arte del monologo tipici del romanzo hanno trovato la giusta cassa di risonanza sulle scene teatrali, che, votate per la natura stessa del loro linguaggio alla centralità della parola e del tema, hanno infatti ospitato innumerevoli adattamenti dell’opera di Hugo in tutto il mondo fin dall’anno di pubblicazione del romanzo. La settima arte, che parla una lingua più visiva e che, proprio per questo, predilige l’azione, ha invece colto altri aspetti, come la complessità dell’intreccio, la sua epicità e la varietà dell’ambientazione in cui si dipana, dando vita a oltre sessanta adattamenti per il piccolo e grande schermo, fin dai pionieristici esperimenti dei fratelli Lumière.

Ne derivano tagli diversi, dovuti anche alla necessità di tradurre tutto ciò che invece si discosta dalla sensibilità espressiva del medium di destinazione: difficilmente al cinema troveremo, per esempio, una rappresentazione verbale di un flusso di coscienza, come tante volte avviene invece nei romanzi; più probabilmente questo sarà piuttosto reso – sempre a titolo di esempio – da strumenti visivi come l’espressività dell’interprete, o acustici come la colonna sonora.

Oltre a questi processi di traduzione intersemiotica che consentono il passaggio da un tipo di linguaggio a un altro, ridisegnando i canoni narrativi tipici del romanzo in quelli offerti dall’orizzonte comunicativo degli altri media, occorre tenere conto del contesto storico, sociale e culturale in cui sono nati e a cui sono destinati gli adattamenti, nonché del messaggio di cui li si vuole latori.

Un esempio particolarmente curioso ed emblematico è il tono generale degli adattamenti di Les Misérables di area americana: di fronte al rispetto quasi religioso nei confronti della lettera del romanzo tipico delle trasposizioni francesi, quelle d’oltreoceano hanno invece guardato più verso i canoni hollywoodiani, per esempio troncando il finale per regalare ai propri spettatori un happy end che nel romanzo è molto più velato, e leggibile solo in trasparenza. E non solo: qui le sottotrame romantiche e di formazione hanno preso il sopravvento rispetto a quelle rivoluzionarie, che rischiavano di evocare il fantasma della Guerra Civile o, specialmente durante i conflitti del secolo breve, di risvegliare l’antica inimicizia con il Regno Unito durante la Guerra d’Indipendenza, proprio nel momento in cui lo scacchiere politico mondiale lo vedeva alleato degli Stati Uniti.

L’eterno ritorno al romanzo: la trasposizione del musical

In questo gioco di specchi, brilla particolarmente il musical, creato dal compositore Claude-Michel Schönberg e dal librettista Alain Boublil nel 1980. La scintilla scoccò negli anni ’70, quando Boublil assistette alla première di Jesus Christ Superstar e al revival londinese di Oliver!, e ne rimase folgorato: se un autore per gli inglesi canonico come Dickens, nonché la Bibbia stessa, erano stati portati sotto i riflettori del teatro musicale, perché non tentare la sorte anche con Hugo nella sua Francia? Lì, la mole del romanzo non avrebbe costituito di per sé un problema: parte integrante dell’identità nazionale, Les Misérables è presente fin nel tessuto stesso del linguaggio, dove fa capolino persino nelle frasi idiomatiche.

Trasporlo integralmente avrebbe potuto essere superfluo, se non addirittura controproducente: il materiale narrativo di partenza fu quindi passato al setaccio, trattenendone unicamente una galleria di tableaux giustapposti ispirati agli episodi cardine del romanzo, inframmezzati da lunghi intermezzi musicali.

La scommessa fu vinta e a dare definitivamente fuoco alle polveri fu l’acquisizione dei diritti per la versione inglese da parte di Cameron Mackintosh, oggi uno dei maggiori produttori teatrali a livello globale, il quale affidò la regia a Trevor Nunn, l’allora direttore della Royal Shakespeare Company, e al collega di questi John Caird: reduci da un “sintetico” adattamento teatrale di Dickens della durata di otto ore e mezza, non si intimorirono certo quando si realizzò che il musical avrebbe dovuto subire il processo inverso a quello dello spettacolo originale affinché potessero presentarlo a un pubblico, quello inglese, per ovvie ragioni meno esperto in letteratura francese di quello d’oltremanica.

E fu allora che il romanzo riapparve in scena: si tornò a sfogliarne le pagine per colmare il “tra le righe” dello spettacolo francese, andandone a reintegrare le lacune. La traduzione del libretto si trasformò quindi in un vero e proprio lavoro di riscrittura, svolto magistralmente dal compianto Herbert Kretzmer.

Vide così la luce un sung-through musical – ovvero un musical interamente cantato, senza parti recitate in prosa –, che dovette andare nuovamente incontro a una serie di tagli per far sì che la sua prima versione, di circa quattro ore, una volta portata alla durata classica di due ore e mezza, potesse approdare in un ambiente più commerciale come il West End londinese, come effettivamente avvenne a due mesi dal debutto grazie allo straordinario successo dello spettacolo guidato da Colm Wilkinson nel ruolo del protagonista.

Si può quindi facilmente immaginare che, nonostante il ritorno al romanzo, l’intreccio tornò a essere, per così dire, pieno di vuoti, tra cui emergevano come punte di iceberg gli episodi salienti della trama. Questi voli più o meno pindarici furono però magistralmente mascherati dal ritmo vorticoso con cui si avvicendano le scene. Un trucco, tuttavia, che, se può essere funzionale a teatro, dove lo spettatore è pronto a inferire quanto non può essere fisicamente rappresentato in scena, rischia di entrare in cortocircuito sul grande schermo, dove la verosimiglianza e il rigore dell’intreccio disegnano i contorni, ben più rigidi, dell’azione.

E fu così che, quando nel 2012 una fortunata congiuntura fece coincidere le grandiose celebrazioni per i venticinque anni del musical con il 150° anniversario della pubblicazione del romanzo, si concretizzò finalmente il progetto, nato fin quasi agli albori della produzione teatrale, di realizzare una versione cinematografica del musical, e si scandagliarono nuovamente le profondità del romanzo per attingerne nuova linfa.

Ne scaturì il primo adattamento cinematografico di un musical i cui brani siano stati registrati dal vivo sul set, attirandosi così le lodi e le rimostranze che l’apertura di una nuova frontiera porta sempre con sé. Il bilancio fu però nettamente positivo: quattro volte candidato al Golden Globe e otto volte all’Oscar, il film si aggiudicò ben tre statuette a entrambe queste prestigiose premiazioni, grazie non solo a un cast d’eccezione che riuniva i grandi nomi del cinema e il fior fiore del teatro musicale, ma anche e soprattutto al prezioso lavoro del regista Tom Hooper, che si era recentemente distinto con Il discorso del re, e dello sceneggiatore William Nicholson, candidato due volte agli Oscar per Il gladiatore Viaggio in Inghilterra, e che già aveva portato il teatro sul grande schermo con una sensibilità particolare, essendo egli stesso drammaturgo, oltre che sceneggiatore e romanziere.

Nicholson si trovava tra le mani una polveriera: era chiamato a adattare non solo uno dei più grandi classici della letteratura, ma addirittura la sua trasposizione più amata, con schiere accanite di fan in tutto il mondo, per affidarlo a un medium che avrebbe raggiunto un pubblico immensamente più ampio, di cultori come di neofiti. Fu necessario un finissimo lavoro di cesellatura che andasse a ridisegnare la struttura fin dalle fondamenta – per esempio per adattare i due atti canonici del teatro musicale nei classici tre atti della cinematografia –, cercando al contempo di risultare invisibile: non più vincolato alla matericità dei cambi di scena imposti dal teatro, l’intreccio poté essere destrutturato e ricostruito per meglio definire i nessi di causa-effetto, anzitutto attraverso lo spostamento di alcune sequenze, e, quando questo non fu sufficiente, introducendone di nuove, riaffiorate dalle pagine del romanzo.

Il musical in concerto: Les Misérables – The Arena Spectacular

Il cinema ha quindi sopperito alla mancanza della performance dal vivo con l’aggiunta di elementi tipici del suo linguaggio, ma cosa succede quando invece si procede, per così dire, “per via di levare”?

Secondo Mackintosh, la potenza di questo musical è tale che si otterrebbe un successo anche mettendolo in scena su un palco vuoto illuminato solo da lampade. E in effetti Les Miz ha dato origine a versioni in concerto, cosa resa possibile dalla densità dell’intreccio, dalla pregnanza dei testi e dall’epicità della colonna sonora, che ripagano della mancanza di una messa in scena “agita”, tanto da approdare anche sullo schermo grazie alle riprese cinematografiche realizzate dal vivo.

Nate per celebrare gli anniversari del musical, queste rappresentazioni furono pensate per teatri di grandi dimensioni come la Royal Albert Hall e per le arene. Data la grande distanza tra il palco e il pubblico, non hanno bisogno di una sontuosa scenografia – che anche nella versione originale inglese del musical, va detto, non è affatto barocca, essendo nata nell’alveo del teatro shakespeariano che tradizionalmente molto lascia all’immaginazione – e non porta in tour l’ormai celebre piattaforma girevole, che, frutto di un’intuizione semplice ma geniale, fa vorticare l’universo narrativo di Hugo con cambi di scena rapidi e fluidi.

Questo è anche il caso della versione di cui stiamo ora vivendo il tour mondiale, nata durante i lavori di restauro della casa londinese del musical, l’ex Queen’s Theatre ora ribattezzato Sondheim, e trasferitasi temporaneamente presso il vicino Gielgud Theatre, versione che coincise con i 35 anni dello spettacolo e che si può dire salvò Les Miz dal lockdown: con meno interazioni tra gli attori, questa messa in scena permetteva il distanziamento sul palco, e fu una vera e propria arca di Noè per gli amanti del musical, trasformandosi poi nel tempo in una versione ampliata e riadattata ai grandi palchi internazionali in occasione del 40° anniversario.

Gli artisti, in costume, cantano prevalentemente di fronte a microfoni ad asta, dando un’aura quasi ieratica ai loro personaggi. Già archetipici e infinitamente grandi, nel bene come nel male, rispetto all’umana natura, si stagliano come statue e idoli in uno spazio spoglio, disegnato da un impianto mobile di illuminazione che plasma lo spazio in forme sempre mutevoli, facendo indovinare allo spettatore ora un sipario, ora le grinfie della barricata su cui troveranno la morte i rivoluzionari. Alle loro spalle, un anfiteatro che ospita l’ensemble e, ancora oltre, l’orchestra sopraelevata, attori e spettatori della tragedia umana e della storia di redenzione dell’umanità che si dispiegano sul palco. Sullo sfondo, videoinstallazioni con paesaggi ispirati ai visionari disegni di Hugo, animati da un movimento quasi impercettibile, a sublimare ciò che di statico e definitivo rischiamo di cogliere, aprendo una finestra sull’infinito.

Una messa in scena essenziale, in entrambe le sue accezioni: semplice e votata all’essenza, alla sostanza, al potente nucleo morale di questa storia.

“Another story must begin”: il potere rigenerativo della transmedialità

Ed è proprio questo nucleo a donare universalità a Les Misérables, che, come ogni grande classico della letteratura, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (Perché leggere i classici, Mondadori), come direbbe Calvino. E, dovremmo aggiungere, in qualunque lingua parli e qualunque forma assuma.

Lingue e forme che sono quindi chiamate a rispettarne il messaggio intrinseco, cuore pulsante della storia, anche a costo di distanziarsi dalla lettera dell’originale – spesso, e purtroppo, unico metro di valutazione degli adattamenti transmediali –, per essere veicolabili dal nuovo medium e comprensibili per il suo pubblico specifico, diverso e spesso più ampio di quello che il romanzo potrebbe raggiungere.

È questo il caso del musical, forse il suo adattamento più amato, e, sicuramente, uno dei più dibattuti, proprio perché divergente per certi versi dal romanzo, almeno sul piano dell’intreccio, della caratterizzazione dei personaggi e del tono. Elementi forse più formali che sostanziali, che sono stati trasformati secondo i canoni del medium di destinazione, come l’edulcorazione di qualche passaggio della trama e di alcuni personaggi e una spiccata melodrammaticità.

Eppure, è proprio questa infedeltà alla lettera che ha permesso una fedeltà allo spirito della storia raramente raggiunta da altri adattamenti, anche formalmente più rispettosi dell’originale1.

Spirito che, nonostante a una prima impressione il lettore possa urlare alla tragedia, è profondamente positivo e luminoso: al di là dei drammi dei singoli, imbrigliati nelle morse della miseria e dell’ignoranza, c’è un avvenire di luce che l’umanità, in un esodo di redenzione, raggiungerà. Forse in una dimensione metafisica e metastorica, ma pur sempre reale.

Questo dualismo tra tragedia dei singoli e “divina commedia” dell’umanità è particolarmente percepibile nel finale, un trionfo mascherato da sconfitta. Per un medium votato all’immagine e alla verosimiglianza come per esempio è il cinema, l’ago della bilancia rischia di puntare pericolosamente verso il polo della negatività, laddove l’intreccio rappresentato fin nei suoi più drammatici dettagli non sia sublimato dalla poeticità e dalla valenza maggiormente metaforica e letteraria della prosa di Hugo.

Abbiamo infatti visto come l’industria cinematografica americana abbia spesso tagliato, e quindi modificato, il finale per renderlo più esplicitamente positivo. Simile e contraria è la scelta del musical, che addirittura aggiunge una scena, creata ex novo, in cui l’ultimo respiro del protagonista si spegne in un canto corale in cui i personaggi, anche quelli che hanno incontrato la morte nel corso della storia, ci annunciano che anche la più oscura delle notti finirà e il sole sorgerà di nuovo. Qualcosa di inconcepibile o quasi, per un medium che non fosse il teatro, e il teatro musicale.

Su questa scia, grazie alla transmedialità c’è un’infinità di storie possibili per raccontare un’unica grande storia. A patto di essere coraggiosi e andare oltre i preconcetti, mettendosi al servizio non solo della storia, ma anche del suo medium, della sua voce, che sola sa comunicare con il suo pubblico; come fecero i creatori del musical, che, pur sentendosi «calzolai in un Paese – la Francia, all’epoca piuttosto indifferente al genere del musical (ndr) – dove tutti camminano scalzi», hanno osato e ci hanno regalato un altro prezioso capolavoro.

Solo così, potremo amplificare il potere generativo dei classici, e renderli ancor più universali e democratici. Solo così, per citare – e adattare – Les Miz, «Another story will begin», un’altra storia avrà inizio.

1 Se foste curiosi, ecco tre dei migliori adattamenti di Les Misérables, che pur essendo lontani dalla lettera, rievocano perfettamente lo spirito dell’opera: oltre alla versione cinematografica del musical (2012), l’anime Il cuore di Cosette (2007) e la trasposizione in chiave novecentesca di Claude Lelouch (1995), che riflette sul concetto stesso di adattamento.