Dal 7 ottobre il clima del mondo si è ulteriormente appesantito con lo scoppio del terribile il conflitto Israelo-palestinese. La sua evoluzione apre notiziari e testate. Risultano sempre più difficili le discussioni tra amici e colleghi; sembra davvero impossibile aggiungere qualcosa di nuovo e soprattutto qualcosa di positivo. È un pensiero carico di impotenza: anche il semplice parlarne provoca quasi fastidio, specie quando tutto si riduce a schieramenti virtuali, così avulsi dalla reale sofferenza umana. Chi è la vittima? Chi è l’aggressore? Tu da che parte stai? Da che parte sto: certamente, per ora, vicino a chi soffre, poi capiremo. Spesso l’impotenza e la banalità sono vinte solo dalla preghiera personale e silenziosa per la pace e soprattutto per il destino di chi piange o muore.

La risposta a una chiamata

Attraverso la nebbia che avvolge questi pensieri, in maniera del tutto inaspettata, una notizia del telegiornale accende una luce. Si annuncia che la nave ospedale Vulcano della Marina militare italiana è ormeggiata a qualche chilometro da Rafah, per una missione di assistenza ai feriti che defluivano dalla striscia di Gaza. Da allora non ho smesso di pensare che, come medico, avrei potuto anche coinvolgermi personalmente, in fondo “qualcuno” me l’aveva fatto sapere e aspettava una risposta. Esagerazioni? Il desiderio che la mia vita sia utile non mi abbandona, è impastato nella mia natura, una esigenza che non vuole saperne di tacere. Devo prenderne atto. In fondo non vale forse per tutti, a ogni livello? Il desiderio di essere utile.

Mi conforta l’incoraggiamento di mia moglie e di qualche amico fidato, insomma non sembra una cosa da pazzi. Dopo qualche contatto via mail con la Marina Militare vengo indirizzato alla Fondazione Francesca Rava di Milano, che da vent’anni realizza iniziative umanitarie in Italia e nel mondo a favore di donne e bambini. Sono loro che gestiscono il team di professionisti sanitari non militari, medici e infermieri, che salirà sulla nave. Un colloquio a Milano mi chiarisce le condizioni, vengo reclutato e, se sono contento, vuol dire che va bene così. Molto presto si parte, per diciotto giorni a gennaio, con un rumoroso volo militare e ora con altri quattro volontari della Fondazione Rava mi trovo sulla nave ospedale Vulcano ormeggiata sulla costa egiziana di Al Arish, a osservare il mare increspato da un vento freddo, a qualche decina di chilometri dalle zone di guerra: nel buio si scorgono inquietanti bagliori.

Aiutare a pieno ritmo

Nei giorni seguenti arrivano in banchina ambulanze gialle, con pazienti barellati sino alla tenda del triage. Tramite gli interpreti si ascoltano le storie di ciascuno, si raccolgono i dati essenziali e poi vengono accolti sulla nave. Chi riesce a camminare, sale la lunga scaletta, gli altri sono issati con barella e verricello, come fossero recuperati in alto mare. Per qualcuno si attiva la sala operatoria per ferite e frammenti metallici ritenuti, per altri si impostano terapie e medicazioni giornaliere. Tutto il personale medico, militare e civile si prodiga con una generosità sincera, nessuno si risparmia, ognuno dà il meglio di sé.

Il sole sta tramontando dietro al ponte degli elicotteri, è l’ora dell’ammaina bandiera, il momento più sereno del giorno. I profili dei bambini palestinesi che abbiamo a bordo risaltano neri contro il cielo arancione. Gli infermieri nel pomeriggio hanno spinto le carrozzine sul ponte per far respirare ai pazienti questa aria trasparente e far loro vedere il mare. Il tenente medico dice che è un ottimo moral booster per persone che sono arrivate anemiche e malnutrite per la carestia diffusa nella Striscia.

Vengono somministrate cene e terapie, si tentano telefonate, spesso senza risposta, ai propri cari ancora a Gaza oppure chissà dove, dal Qatar all’Europa. I traduttori aiutano i pazienti con una tessera telefonica o con un cellulare. Anche i militari italiani, ormai qui da qualche mese, camminano sul ponte con il cellulare all’orecchio, sentono casa per fare gli auguri alla madre anziana, per collegarsi in video con i figli piccoli e mandare baci alla moglie. Poi i pazienti vengono riaccompagnati nelle stanze, nei loro letti puliti, mentre i bambini cominciano finalmente a sorridere quando il personale italiano regala loro giochi, li lava e li veste con il pigiama di Spiderman e di Frozen. Qualcuno non si lavava da settimane.

Faccia a faccia con storie dolorose

Ma è anche il momento della malinconia, l’inferno da cui sono appena sfuggiti c’è ancora, li segue e non li abbandona facilmente, pronto a rifarsi vivo nel buio e negli incubi della notte. Mettiamo a letto con mille precauzioni Hamed, 15 anni, lo sguardo lontano. Arrivato qui da solo, ha perso la mamma e i fratellini sotto le macerie; il padre lo voleva accompagnare ma è stato fermato alla frontiera di Rafa, dove israeliani ed egiziani lasciano uscire solo donne e bambini feriti, secondo i loro criteri. Ha raggiunto la nostra nave su un’ambulanza egiziana; ha la gamba sinistra amputata, e la destra fratturata. Nell’efficiente sala operatoria di bordo gli abbiamo chiuso il moncone che era stato lasciato aperto come un libro in chissà quale ospedale, in chissà quali condizioni. Nella striscia, i medici applicano la regola primaria della chirurgia di guerra Damage control surgery: intervengono solo per salvare la vita, non per risolvere completamente il problema. Questione di risorse e di priorità.

Tento di guardare il suo dolore negli occhi, di immedesimarmi in lui, ma rinuncio quasi subito. Cosa possa sentire un ragazzino che ha perso quasi tutta la famiglia, la casa, una gamba, non mi è comprensibile; ieri sera una crisi di panico non lo faceva respirare, siamo corsi al suo letto, abbiamo capito, adesso sembra tranquillo. I ripetuti tentativi di contattare il padre sul cellulare finalmente danno risultati. Gli ripete di resistere, di non mollare, Hamed riesca ad andare avanti a vivere grazie a questo rapporto così vicino e così lontano. La figura paterna qui è indiscutibile, è il modello per la vita. Forse qualcosa che noi abbiamo perso.

Chi rimane e chi va via

Adhija è un’insegnante di scienze naturali di 44 anni che ha subito un trauma alle gambe, per fortuna leggero, riportando ferite non complicate. Ma prima di tutto è una madre. È salita a bordo con i due figli di 5 e 7 anni, pallidi, spaventati e denutriti. Mi racconta, nel suo stentato inglese, che il marito ha perso tutta la sua famiglia, oltre dieci persone, per un missile che ha centrato la casa; lei con i due figli era fuori. Dice che ama Gaza, dove è nata, ma adesso non vuole tornarci, suo marito se la caverà mentre i suoi figli sono troppo preziosi per metterli a rischio, sono venuti al mondo dopo quattro aborti consecutivi, tanto desiderati. No, no, dice, non voglio perderli. Finché non ci sarà pace non se ne parla. Ha ottenuto di essere evacuata con loro in Qatar, domani il suo sogno si avvera. I bambini saltano sul letto alla notizia che il giorno dopo voleranno. È la prima volta per tutti. Le medico l’ultima volta le gambe, poi lei mi saluta e mi ringrazia; mi mostra sul cellulare foto della sua vita serena prima del 7 ottobre, chiede di vedere la fotografia della mia famiglia che commenta con stupore. Dice che ha qui incontrato persone molto gentili, sia militari sia civili, che io potrei essere suo padre e l’ho trattata come una figlia. Mi prende un po’ in contropiede, le stringo vigorosamente la mano mentre i figli mi danno un cinque con la mano.

Walid, 19 anni, ci dice che durante la notte si è svegliato nella sua casa di Gaza sentendo il ronzio malvagio dei droni, da loro chiamate zanzare, temuti come annunciatori di morte; nella sua stessa stanza dormivano su materassi improvvisati altri sette parenti; un lampo e un boato hanno abbattuto due edifici adiacenti e coinvolto anche il loro. Si è trovato tra le macerie, due piani più in basso, ha avuto la prontezza di estrarre un braccio dalla palude di sassi per rendersi visibile. La bocca piena di terra e polvere di cemento gli impediva di parlare e lo stava soffocando, sentiva di avere i minuti contati, poi i soccorsi lo hanno raggiunto e qualcuno ha come spento il sole. Il giorno seguente, si è svegliato in ospedale con ferite e ustioni già bendate. L’ hanno informato che, dei sette parenti nella stanza con lui, ne sono rimasti vivi tre. Gli altri sono passati dal sonno alla morte. Adesso si chiede come farà a continuare i suoi amati studi di ingegneria, l’università è sparita. Anche per lui dopo qualche giorno decolla un aereo che gli schiuderà una nuova vita in Qatar. I suoi genitori sono rimasti dentro la striscia in un campo di tende. Quando li rivedrà?

Dove cercare la pace?

Ciò che è accaduto ai pazienti sembra scritto dalla stessa mano: nel corso di una giornata di guerra, triste come tante altre ma destinata a essere unica, con la violenza che si è impadronita delle loro vite, improvvisamente esplode un bagliore e un tuono che li tramortisce. Poi il buio. Qualcuno non si risveglia più, forse è più fortunato degli altri. Chi si risveglia non si ricorda nulla, ma si trova in un ospedale frenetico o circondato da soccorritori e familiari che urlano tra le macerie dell’edificio crollato. Con il riprendere della coscienza si svela quello che la grande luce ha portato via: una gamba o un braccio, una porzione di tronco. Shock che anestetizza i sensi e le sensazioni, è un film o la vita? Corpi estratti da queste trappole di rottami, un marito ha identificato sua moglie, ha tirato la sua gamba che gli è rimasta tra le mani. Ferite sommariamente medicate, dolore che comincia a farsi sentire, corse in ambulanza o su qualche barella traballante. Domande angosciate sulla sorte dei propri cari. Poi gradualmente la coscienza riprende e per ognuno inizia una diversa via crucis di cui non conosce tragitto né fine. Corpi e anime indissolubilmente lacerati e segnati, esiste una vita prima della grande luce e una dopo.

Mi assilla il pensiero che chi si sta massacrando sono due popoli che su questa terra hanno la più marcata identità religiosa: Israele, il “popolo eletto” nemico mortale degli islamici che pregano cinque volte al giorno e si appellano al loro Dio per ogni atto della vita. In che Dio credono? In un dio guerriero, sterminatore del nemico? In un dio fatto a loro immagine e somiglianza e non viceversa? Forse Dio è altro…

Legittima domanda: dov’è Dio quando gli uomini si massacrano così tra loro?

Tutto chiede salvezza

Mi torna in mente la risposta che, a una domanda simile, diede papa Benedetto XVI in visita ad Auschwitz: «Dio stesso è sceso nell’inferno della sofferenza e soffre insieme a noi»[1]. Ci suggerisce come e dove è il bene, allora la domanda più vera è dov’è l’uomo? Come suggeriva il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini in un’intervista a una settimana dall’irruzione di Hamas nei kibbutz israeliani. Mi è evidente che tutto chiede, anzi implora salvezza: ogni gesto, ogni uomo, ogni sofferenza, io stesso ho bisogno di Qualcuno che mi salvi, che mi redima. Tutto lo grida con insistenza. Per questo innalzo dalla mia cuccetta, alla sera, una preghiera all’Unico che può.

I diciotto giorni trascorsi qui, dormendo in cabina con altri tre medici, con i ritmi disciplinati della vita militare, del giro medico, della mensa, dell’assemblea al mattino con il programma della giornata, forse fanno una piccola differenza in termini di risultato per i pazienti che abbiamo trattato, ma certamente hanno avuto per me un significato enorme. Condivisione è la parola chiave. Ringrazio anche le persone conosciute, molte eccezionali per la loro dedizione e generosità, donne e uomini che hanno ancora un cuore vivo. Questo comunica speranza.

Guardando il mare ventoso, penso che questa missione di assistenza dimostra che in Italia è ancora viva la solidarietà e la pietà tra le persone e tra le istituzioni. Continuerà ancora per qualche giorno, poi rientrerà in Italia con un carico di sessanta bambini e i loro accompagnatori che verranno curati nei nostri ospedali. Non si vuole abbandonare questo mare di dolore. E non si può smettere di chiedere salvezza. Per tutti.

[1] Cfr Discorso del Santo Padre durante la visita al Campo di Auschwitz, durante il viaggio apostolico in Polonia, 28 maggio 2006, disponibile sul sito www.vatican.va.